Viaggio nel disagio psichico nelle case popolari milanesi
Il privato sociale è l’ultima spiaggia: il Cps non ce la fa a star dietro ai malati psichici del Molise-Calvairate. Malattia mentale e povertà sono anelli della stessa catena e qui c’è l’emergenza più esplosiva di Milano: il 6,8% degli inquilini degli alloggi popolari soffre di disturbi mentali. Per dare l’idea, nell’area attorno alla Stazione centrale, una zona comunque problematica, rappresentano lo 0,7% della popolazione, 7 su 1000. Al Molise-Calvairate, invece, ci sono anche 7 malati psichiatrici per scala, e buona parte vive sola.
Povertà e malattia mentale, due anelli della stessa catena
Molise-Calvairate è la periferia milanese, ma non è in periferia. È questo il grande contrasto vissuto da oltre 4.600 tra anziani, famiglie di immigrati, ex carcerati, invalidi e poveri che abitano a 20 minuti di tram dal Duomo e non possono permettersi un affitto a prezzi di mercato. Occupano le “case minime”, alloggi angusti e per questo adatti a persone sole. Monolocali di 20-25 metri quadrati, bilocali di 38, per i quadrilocali si arriva a 85; i servizi igienici sono ridotti all’essenziale: lavandino e wc in poco più di 2 metri quadrati, per il resto c’erano i bagni pubblici del caseggiato. Negli anni ’60, però, sono stati chiusi «per mancanza di disponibilità economica di mantenimento», riporta il contratto di quartiere II Molise-Calvairate, un «programma innovativo in ambito urbano, finalizzato alla riqualificazione di quartieri a prevalente composizione di edilizia residenziale pubblica» previsto dal decreto 2522 del 2007 emanato dal ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. E così i bagni pubblici erano stati occupati abusivamente da chi non ha i mezzi neanche per un affitto popolare. Anche i solai, che una volta ristrutturati saranno nuovi alloggi, erano diventati il rifugio di senza tetto e di animali, soprattutto piccioni e ratti. C’è chi, in mezzo ai propri rifiuti e a quelli degli animali, aveva anche costruito un nido.
Chi poteva, si è fatto installare una piccola vasca o un piatto doccia a sue spese, senza alcun rimborso dall’Iacpm (Istituto autonomo case popolari di Milano) o, successivamente, dall’Aler (Azienda lombarda edilizia residenziale). La faccenda delle strutture igieniche è grave soprattutto negli alloggi del Calvairate in via Tommei, quelli dove nacque Carla Fracci: qui addirittura il 30% delle abitazioni non ha doccia o bagno.
La manutenzione degli appartamenti non c’è mai stata. È troppo complicato rinfrescare le pareti, sostituire infissi o rimodernare gli impianti elettrici: gli assegnatari dovrebbero essere trasferiti per tutto il tempo dei lavori. E anche il contratto di quartiere II glissa sulla questione: gli interventi sono limitati a ridare dignità alle facciate e alle coperture. I lavori sono a buon punto: i palazzi del Calvairate sono stati ritinteggiati, al Molise mancano tre facciate, la metà. Sui ballatoi esterni, quattro bande arancioni con fori e crepe nel rivestimento, si alternano due finestrelle per ogni entrata. Qualche porta è sigillata per prevenire l’occupazione abusiva. Altre, di ferro, sono state riverniciate così tante volte da non camuffare più l’età. Gli infissi sono quasi sempre dei colabrodo, con i vetri rivestiti dall’interno, o rotti e tenuti insieme dal nastro adesivo.
Il contratto di quartiere prevede anche l’installazione di ascensori: solo al Calvairate, perché nelle scale interne o nei ballatoi esterni del Molise non c’è spazio, gli invalidi e gli anziani devono fare tutto con le loro gambe, schivando immondizie per le scale. Ma i lavori «di adeguamento igienico-sanitario» sono ancora soltanto parole. Franca Caffa, presidente del comitato degli inquilini dei quartieri Molise-Calvairate-Ponti, sbugiarda il documento programmatico: «Gli interventi di adeguamento igienico-sanitario consistono nell’installazione di bagni, ma è da gennaio che reclamo un piatto doccia per una vecchietta di 97 anni che non ha un posto dove lavarsi. Ancora non ho avuto risposte». In effetti, sui 2.487 alloggi Aler del Molise e del Calvairate (al Molise una parte è diventata proprietà privata), solo 686 dovrebbero essere sottoposti a interventi, si legge nel rapporto sul contratto di quartiere. «I dati relativi alla progettazione – avvisa Caffa – vanno tutti verificati: il Comune ha divulgato in modo sfacciato schede di progetti che si sapeva essere già stati modificati o sotto esame». La pubblicazione, affonda la presidente, «fa parte della campagna elettorale del maggio 2006»: il lancio dei contratti di quartiere era stato fatto a ridosso delle elezioni comunali. Ma poi, soprattutto con la giunta Moratti, la realizzazione dei progetti ha incontrato ostacoli. A Palazzo Marino, infatti, non c’è più un assessore per le periferie. Tradotto, significa che il dossier contiene dati oggettivi, ma l’attuale progettazione è ricalcata su decisioni «via via modificate con la lotta». E così, continua la storica presidente, «i lavori sono già in appalto, ma siamo nella situazione di dover riconsiderare i progetti; per i sofferenti psichici gli interventi erano insensati ma poi sono stati del tutto cancellati». Il piano prevedeva, per esempio, il recupero di alcuni spazi in disuso per la creazione di un centro di aggregazione destinato ai soli malati psichiatrici. Senza una concreta proposta di recupero e reintegro dei beneficiari, che già non hanno vita facile nei caseggiati popolosi. Urla, schiamazzi, litigi e lanci di oggetti dalle finestre rendono ardua se non impossibile la convivenza tra inquilini “normali” e malati, e i progetti di risocializzazione diventano di utopica concretezza anche a detta di chi si occupa di tradurli in pratica.
La situazione di degrado è anche peggiore di altri problematici quartieri meneghini. Quando furono costruiti, i caseggiati del Calvairate erano destinati ai tramvieri dell’Atm, spiega Giacomo Cerutti, baffi bianchi, cappotto ed elegante cappello, che da 50 anni vive poco distante dalla stazione di Porta Vittoria. «Mia moglie poteva girare tranquillamente sola con i bambini, li portava in piscina, che era lì, dopo i mercati. Adesso è meglio guardarsi le spalle, anche di giorno», si rammarica. In viale Molise si concentrava una buona fetta della Milano lavoratrice: la rimessa dell’Atm, la stazione ferroviaria (l’area è in corso di riqualificazione da quando i treni viaggiano sottoterra), i mercati generali, il macello e il mercato dei fiori.
In viale Molise non si passeggia: ci sono pensionati, anziani, immigrati, soprattutto uomini mediorientali. Le carrozzine sono rare e quasi sempre spinte da donne velate. E poi, i matti. C’è quello con lo sguardo perso e il sorriso ingenuo, ha il zucchetto blu, le scarpe aperte, i calzettoni tirati su fino al ginocchio con infilati dentro i pantaloni. C’è qualcun altro che percorre su e giù lo stesso marciapiede di piazza Insubria prima di girare l’angolo, chi gira con le scarpe estive, le gambe nude e i capelli in disordine.
«La struttura sociale - spiega Antonella Terracciano, assistente sociale - era diversa: c’erano lavoratori, umili, ma con un progetto di vita. Adesso c’è un alto tasso di immigrati, poveri, disoccupati allo sbaraglio». Negli anni ’60 e ’70 c’erano fabbriche metalmeccaniche di medie dimensioni, laboratori artigiani e soprattutto l’espansione dei mercati. La crisi, come in altri quartieri periferici, è arrivata negli anni ’80: drastico ridimensionamento e poi chiusura delle fabbriche, scomparsa dell’indotto artigianale, crisi del mercato ortofrutticolo. Le reti di solidarietà si sono sfilacciate di pari passo. E, non da ultimo, la popolazione che aveva ottenuto un alloggio nel secondo dopoguerra cominciava a invecchiare. Con la legge Basaglia i malati psichiatrici sono tornati a casa:a Milano non esistono alloggi protetti e la soluzione è assegnare un appartamento per 50 o 100 euro al mese. Tanti per chi ha diritto a un assegno di invalidità di appena 240 euro e non riesce a lavorare. L’arrivo della prima ondata migratoria ha completato il quadro. Chi ha dimostrato di avere i requisiti per ottenere un alloggio popolare ha poi fatto arrivare la famiglia, e chi si sente in diritto di avere un tetto sulla testa non esita a occupare abusivamente. Con le conseguenze che ne derivano: mancato allaccio alla rete elettrica e al gas.
Cps e privato sociale, quando l’assistenza non basta
Di certo c’è che per i soli caseggiati Molise e Calvairate i malati mentali in carico al Centro psico sociale di viale Puglie sono 155 su un totale di 682 assistiti. Una popolazione consistente, per la quale il Comune di Milano interviene stanziando il fondo socio assistenziale gestito dalle Asl e aziende ospedaliere gestiscono. Ma per i “matti” del Molise-Calvairate i servizi non bastano. E i progetti assistenziali, come “Proviamoci ancora”, non riescono a dare un contributo decisivo ai tanti malati psichici (punte del 7% della popolazione in alcuni dei caseggiati) che vivono negli alloggi Aler.
«I Cps sono stati istituiti in seguito all’entrata in vigore della legge 180 del 1978, quella che stabilisce la chiusura dei manicomi. È un’organizzazione a circuito territoriale; in Lombardia i presidi sanitari pubblici territoriali previsti dalla legge 180 sono chiamati, appunto, Centri psico sociali», spiega Antonella Terracciano, assistente sociale del Cps. «Prima dipendevano dalle Asl. Dal 1997 la psichiatria non è più di diretta competenza delle Asl ma delle aziende ospedaliere».
Perché è stata fatta questa scelta? Per migliorare l’assistenza al malato? O è stata semplicemente una riorganizzazione?
«È una riorganizzazione politica. In realtà l’assistenza al paziente non è migliorata. La territorialità non appartiene alla cultura ospedaliera, che si occupa di somministrazione di farmaci, letti, degenti: un ambulatorio psichiatrico territoriale è un corpo estraneo all’ospedale».
C’è stato qualche beneficio o sono stati di più gli svantaggi?
«Il maggiore svantaggio è stato l’isolamento dei servizi, che diventano satelliti dell’ospedale. È vero che il nostro lavoro è sul territorio, ma dipendiamo da un’azienda ospedaliera e non dall’ente locale, portatore di una cultura più territoriale. Parliamoci chiaro, oramai anche le Asl sono allo sfascio, anche lì da tempo non si lavorava bene. Ma l’aziendalizzazione e la sanitarizzazione hanno mutato quello che doveva essere un servizio legato al locale, al lavoro sul tessuto sociale. La dipendenza dall’ospedale, lontano, non è funzionale».
Quindi l’assistenza fornita dall’Asl, per il singolo individuo, era migliore?
«La questione non è tanto se il servizio fosse migliore con il sistema della Asl, perché anche se la psichiatria fosse ancora di sua competenza, i problemi non mancherebbero. Ci sono tagli nei fondi e quindi in molti servizi. Se noi, banalmente, dobbiamo trasportare un paziente da un domicilio a una comunità, abbiamo mille difficoltà per ottenere un’ambulanza pagata dall’ospedale Fatebenefratelli. È un salto a ostacoli, devi ricorrere alle associazioni di volontariato. Ma questo, secondo me, sarebbe successo anche con l’Asl: è il taglio che impoverisce l’offerta».
L’ospedalizzazione del malato psichico ha portato al taglio dei costi, visto che questi sono stati trasferiti sulla gestione aziendale dell’ospedale, o no?
«Non ne sono così convinta. Sarebbe interessante capire se questa doppia aziendalizzazione ha portato un risparmio. Nel concreto, comunque, manca tutta una serie di risorse. Oggi il malato di mente ha due alternative: vivere da solo in un alloggio popolare, oppure essere inserito in una comunità psichiatrica privata accreditata presso la Regione. I servizi per chi vive solo sono carenti, sebbene costituiscano l’essenza della 180. In compenso in Lombardia sono nate comunità private accreditate. Ma le case alloggio si contano sulle dita di una mano e spesso sono lontane. Dovrebbero essere capillari, invece.
Manca la via di mezzo tra la comunità fuori dal territorio e la vita di tutti i giorni: il volontariato non è specializzato in psichiatria. Nei caseggiati dovrebbe essere garantito un numero di appartamenti con strutture assistenziali. Ci sono psicotici che non potranno mai vivere per conto loro, ma sembra che di questo non si tenga conto negli interventi. Invece, c’è uno spreco di risorse continuo».
Quali sono le attività progettate che non riuscite a realizzare?
«Innanzitutto, abbiamo difficoltà con i sussidi: ci sono sempre stati, ma nel tempo il Comune di Milano non ha incrementato i fondi per i bisogni sociali dei cittadini con problemi di salute mentale. Intanto sono aumentate povertà e richieste di assegno, perché nel tempo il malato ha perso i legami familiari. La maggior parte di coloro che ricevono il sussidio sono single.
Non abbiamo potuto istituire una prassi per cui, per esempio, far trasportare senza problema il paziente dal domicilio alla comunità. Devi continuamente arrabattarti a trovare soluzioni alternative».
In cosa si esplica concretamente l’assistenza domiciliare, dato che molti pazienti percepiscono l’altro come un intruso?
«Si tratta di un problema comune. In alcuni casi, se si riesce a essere costanti nella somministrazione della terapia, coinvolgendo un familiare o un referente, anche i più refrattari, alla fine, aprono la porta. Magari con questi pazienti non riesci a realizzare un progetto particolare, ma almeno si arriva alla somministrazione domiciliare dei farmaci. In alcuni casi capita che gli operatori risistemino la casa, puliscano il frigorifero sporco. Non è la prassi, ma può succedere».
È per queste attività che uno stanziamento di fondi potrebbe essere determinante.
«La gestione economica del cittadino con problemi di salute mentale è delegata all’Asl, che gira alle aziende ospedaliere il fondo socio-assistenziale stanziato dal Comune. Ma il Cps non ha mai avuto finanziamenti comunali per cooperative che fanno assistenza a domicilio. Al di fuori del Comune di Milano, invece, l’amministrazione dei fondi non è così complessa».
La questione dell’alta concentrazione di persone con problemi psichici al Molise-Calvairate-Ponti cosa comporta per i malati, oltre che per gli inquilini “normali”?
«Esaspera. È qualcosa di impossibile avere un vicino con problemi psichici. In questi quartieri, poi, è cambiata la struttura sociale, c’è il degrado tipico del tessuto urbano di alcune periferie. Non vengono più rispettati neanche i criteri minimi del vivere civile, salta tutto».
Quanti dei malati psichici riescono, vivendo da soli, a badare minimamente a loro stessi? A non imputridire nelle loro stesse case, come è accaduto a Giuliano B.?
«Quanti di loro non saprei. Ci sono alcuni casi, tra i più gravi che conosciamo, dove ciclicamente bisogna procedere allo sgombero dell’alloggio. È tale la sporcizia, la situazione di degrado, che lo sgombero è inevitabile, e se la persona non è consenziente, purtroppo, anche al trattamento sanitario obbligatorio. Se però non si cambia in modo radicale il sistema di vita del soggetto, gli interventi si riproducono nel tempo».
[ornella sinigaglia]
continua