CONFLITTO DI GAZA

Intervista a Nahum Barnea

«Non ci sono dubbi che le operazioni militari organizzate da Israele sono state condotte ad ampio spettro. Il punto è che sono durate anche molto più a lungo di quanto ci si aspettasse», racconta da Gerusalemme Nahum Barnea, una delle penne più autorevoli del giornalismo israeliano, intervistato in esclusiva da m@g. Barnea, che scrive per il quotidiano Yedioth Ahronoth e ha vinto il premio Israel Prize per la comunicazione, ha perso un figlio nel 1996, in un attentato kamikaze di Hamas a un autobus di linea. Al funerale ha perdonato pubblicamente l’assassino, considerandolo vittima della stessa tragedia che affligge il popolo palestinese. Da anni si spende per favorire il dialogo nell’ambito del conflitto arabo-israeliano.

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[viviana d'introno e cesare zanotto]

L'INTERVISTA

La voce della libertà

Yang Lian, nato in Svizzera nel 1955 ma cresciuto a Pechino, è oggi uno dei maggiori poeti contemporanei e una tra le voci più importanti della dissidenza cinese. Esiliato dalla Repubblica Popolare Cinese dopo avere duramente criticato nel 1989 la repressione di Piazza Tiananmen, vive all’estero da vent’anni. È stato candidato al Premio Nobel nel 2002 e le sue poesie sono state tradotte in 25 lingue. Yang Lian interpreta lo spirito della millenaria cultura cinese attraverso la sua esperienza da esule. Una riflessione sulla condizione generale dell’uomo ma anche un invito alla speranza per milioni di cinesi che chiedono democrazia.

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[marzia de giuli e luca salvi]

L'INCHIESTA

È un’emergenza che dura da oltre vent’anni. I territori tra Napoli e Caserta sono uno stato nello stato dove l’unico potere reale è quello della Camorra. Nonostante i blitz, gli arresti e l’invio di soldati e poliziotti, i clan continuano a fare affari in un cono d’ombra in cui convivono l’economia legale e la politica. Ne abbiamo parlato con Andrea Cinquegrani, direttore de La Voce della Campania (oggi La Voce delle Voci).

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[alberto tundo]

MARIO CAPANNA

Onda e '68 a confronto

Quarant’anni dopo la protesta che ha segnato un’epoca, gli studenti italiani sono ancora in piazza. Secondo alcuni osservatori, l’Onda, che contesta la riforma Gelmini, è la fotocopia del’68. Altri la pensano diversamente. Mag ha chiesto un’opinione a Mario Capanna, ex studente dell’Università Cattolica e leader del movimento nel 1968.

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[cesare zanotto]

CIBO E MEMORIA

Viaggio nel gusto italiano


La relazione tra il cibo e la memoria è uno degli aspetti più profondi e antichi della cultura italiana e internazionale. Emblema di questo nesso è la madeleine che risveglia i ricordi dell’infanzia di Marcel Proust nel romanzo Alla ricerca del tempo perduto . Che cosa pensano i gourmet più affermati e i cuochi più celebri del nostro Paese del rapporto tra lo stile di vita dei nostri tempi e i cambiamenti nel gusto culinario, sempre più lontano dalla tradizione culinaria? La risposta nel servizio.

[francesco perugini]

GIORGIO BOCCA

Intervista sulla crisi del giornalismo italiano


Nessuno meglio di Giorgio Bocca può aiutarci a riflettere sulla crisi che sta vivendo oggi la professione di giornalista. "E' la stampa, la bellezza!", il suo nuovo libro vuole essere un'occasione per riflettere sul destino di un mestiere che sembra aver perso le sue virtù. In Italia la carta stampata appare schiacciata dalle pressioni della politica e dell’economia, incapace di reagire allo strapotere della comunicazione televisiva, non più in grado di scandagliare i mutamenti reali della società. Abbiamo approfondito queste e altre questioni nell'intervista.

[gaia passerini]

IL GUSTO PER IL DETTAGLIO

Sulla non fiction: un luogo privilegiato della scrittura di William Langewiesche, incontro con Giuliano Battiston

Alcuni scrittori fanno di ripetizioni, ridondanze e accumulazioni la cifra della propria scrittura, finendo spesso con il soffocare le storie che raccontano dietro una troppo esibita enfasi retorica. Altri, invece, lavorano in senso contrario, eliminando e sottraendo materiale fino al punto in cui le storie acquistano una (apparente) auto-evidenza, e sembrano raccontarsi da sé. Autore dalla prosa asciutta e cristallina, William Langewiesche appartiene sicuramente alla seconda categoria. Conosciuto soprattutto per “American Ground” (Adelphi 2003), il testo in cui ricostruisce i mesi durante i quali Ground Zero veniva ripulito dal cumulo di ceneri e detriti del World Trade Center, negli ultimi anni Langewiesche si è imposto all’attenzione dei lettori come il più sensibile “sismografo del nuovo disordine mondiale”.

Come dimostrano i lunghi reportage pubblicati prima per “Atlantic Monthly” e ora per “Vanity Fair” che ha trasformato in libri di grande diffusione, questo ex pilota sembra infatti avvertire anche le più deboli scosse telluriche sotto la solidità di facciata delle attuali architetture politiche e sociali.
Langewiesche è penetrato nelle più inaccessibili “faglie sismiche” della contemporaneità, dalle “città del nuovo proletariato atomico” raccontate in “Il bazar atomico” (Adelphi 2007) alla “distesa anarchica e senza confini del mare aperto” solcato da quarantamila mercantili senza regole di “Terrore dal mare” (Adelphi 2005); dalle strade irachene teatro di una “guerriglia senza linea del fronte” di “Regole d’ingaggio” (Adelphi 2007) alle piste desertiche e polverose di “Sahara Unveiled: A Journey Across the Desert” (Pantheon 1996), senza rinunciare alla passione per il volo (“Lo schianto dell’Egyptair”, Arcana 2000; “La virata”, Adelphi 2005). Ne scaturisce una sorta di topografia politica del ventunesimo secolo, i cui confini sono disputati tra gli amministratori dell’ordine convenzionale e gli agenti dei sistemi di potere non governativi. Convinto che attorno a quei confini si conducano le partite più importanti per il nostro futuro, e che l’osservazione diretta sia il modo migliore per comprenderne le dinamiche, William Langewiesche continua a scrivere e investigare.

Quanti provano a definire il suo lavoro sembrano arenarsi di fronte alla difficoltà di classificare una scrittura che “abita” uno spazio eccentrico, quello spazio ibrido che nasce quando giornalismo e letteratura si contaminano arricchendosi reciprocamente: qualcuno la definisce un giornalista investigativo, qualcun altro uno scrittore di “non-fiction”, altri ancora un “radiografo” del nuovo disordine mondiale. Come presenterebbe i suoi libri a chi non li ha mai letti?

In effetti è piuttosto complicato definire questo tipo di scrittura. Tuttavia, alcuni aspetti sono abbastanza chiari. Innanzitutto si tratta di non-fiction, dal momento che si basa sui fatti. Ma, almeno per quanto mi riguarda, è anche una scrittura di carattere letterario, considerata la grande attenzione che presto all’aspetto “estetico”, un’attenzione che va dalla chiarezza stilistica al suono, dal ritmo alle strutture narrative, grandi e piccole, alle stesse pieghe che assume il contenuto. In questo senso, si può ragionevolmente parlare di “letteratura di non-fiction”, e questa è senz’altro una prima classificazione. Eppure, le vere difficoltà nascono proprio qui: molti di quelli che praticano questo tipo di letteratura esplorano degli argomenti che, essendo in genere poco importanti, nella mente dei lettori non entrano in “competizione” con il modo di scrivere. Mi riferisco, per esempio, ai lavori di John McPhee sul tema delle canoe di betulla (“The Survival of the Bark Canoe”, ndr), o a quelli di altri scrittori sulle scalate in montagna. Al contrario, gli argomenti di cui io mi occupo rimandano spesso ad aspetti politici o sociali ritenuti fondamentali per il nostro tempo (al nuovo disordine mondiale, certo, che dopo tutto non è una cosa così grave), e in questo senso a un livello superficiale risultano più “giornalistici”. Questo significa che i lettori possono leggere quel che scrivo concentrandosi solo sul soggetto, dimenticandosi dell’aspetto letterario. Sebbene molti lettori facciano un’operazione di questo genere, un numero sorprendentemente alto (e crescente) di persone oggi tende invece ad avvicinarsi al mio lavoro tanto per la scrittura quanto per gli argomenti su cui scrivo. Si tratta di un fatto che mi gratifica molto, perché spendo molte energie per la parte creativa e “artigianale”, e io stesso ne ricavo piacere. Vorrei sottolineare un altro aspetto: la mia estetica personale è minimalista. Tendo a una scrittura fortemente pulita, che non sia appesantita dagli aggettivi o da digressioni complicate. Lo scopo del mio lavoro è di scomparire, in quanto narratore, dalla mente dei lettori, di scomparire dalla loro vista quanto più possibile, e di permetter loro di rimanere attaccati alla scrittura senza che il mio ego di scrittore si imponga eccessivamente nel processo. Quando ci riesco, però, questo tende a complicare la classificazione del mio lavoro come immediatamente “letterario”, tranne che per i lettori più smaliziati, quelli in grado di comprendere il complicato lavoro che è stato fatto per arrivare a quel risultato.

Lei è stato un pilota professionale, e si è soffermato diverse volte (per esempio in “La virata”) sul rapporto intimo che secondo lei lega il volo, lo scrivere e il pensare. Una volta ha scritto che il miglior modo per insegnare ai bambini la “visione aerea” è quello di portarli in volo in posti differenti, di incoraggiarli a “navigare e a fare traduzioni tra le mappe e il mondo”. Se dovesse insegnare ai bambini la “visione letteraria”, li esorterebbe a tradurre il mondo in mappe letterarie? Ritiene che la scrittura possa essere intesa come un processo di traduzione continua?

Sì, credo che la scrittura sia un processo continuo di traduzione, ma anche di creazione. Perché anche laddove abbiamo a che fare con la letteratura di non-fiction, con la letteratura radicata nei fatti, abbiamo a che fare con delle creazioni artificiali, con una costruzione lineare che ogni volta deve farsi strada attraverso una realtà complessa, tridimensionale, pluridirezionale e infinitamente ampia. Ho sempre ritenuto incredibilmente stupido l’uso che fanno i professori di letteratura del termine “scrittura creativa”, come se si trattasse di una caratteristica che appartiene esclusivamente al regno della fiction, e come se la non-fiction non fosse veramente, e allo stesso modo, creativa. È un uso che riflette una comprensione molto limitata – e persino primitiva – della non-fiction come genere. Per quel che riguarda invece l’insegnamento della “visione letteraria” ai giovani, oppure, più importante ancora, agli adulti, direi che tale visione varia a seconda delle capacità e degli interessi di ogni persona. In generale, ritengo sia utile prendere distanza da se stessi e dal proprio ambiente, il che significa adottare una visione “aerea” o, a un livello più profondo, una visione che sia basata sul senso della storia.

Una delle peculiarità della sua scrittura è proprio l’adozione di una sorta di doppio sguardo, macroscopico e microscopico, come se volesse ancorare in modo radicale la visione aerea e panoramica delle vicende che racconta ai dettagli ricavati dallo stare sul terreno. È d’accordo con questa lettura?

Non sono un professore universitario, né un intellettuale pubblico, e per questo ritengo non solo che non sia possibile fare un buon lavoro senza stare sul terreno, ma persino che non potrei assolutamente lavorare se non facessi esperienza, in modo “tattile”, delle cose sulle quali scrivo. Tuttavia, questa diffidenza verso ciò che non si presta a essere “toccato” non nasconde un’impostazione di tipo teorico, è piuttosto una sorta di disposizione personale, che mi impedisce di rimanere eccessivamente distante dalle cose e da me stesso. Si tratta, dunque, di un orientamento naturale della visione, non di una scelta intenzionale.

Secondo lei questo doppio sguardo potrebbe anche essere legato ai due momenti della sua attività di giornalista-scrittore, quello della ricerca, della raccolta degli indizi e delle testimonianze, e quello della scrittura, dell’attribuzione di una forma ai materiali raccolti?

Credo di sì. Ogni volta che inizio un nuovo lavoro ovviamente faccio sempre delle ricerche, ma in compenso leggo poco, il meno possibile, e non prendo appunti né sottolineo ciò che leggo, anche se a volte segno una pagina che mi sembra particolarmente importante. Mi affido infatti alla mia capacità di ricordare ciò che vale la pena venga trattenuto nella memoria, e non intendo forzarla. Dopodiché vado sul terreno, e lavoro sullo stesso argomento per giorni, settimane e a volte persino per mesi, prendendo qualche appunto e usando un registratore. Soprattutto, però, osservo e penso, e ragionando intorno a ciò che vedo comincio a capire la realtà che ho di fronte. Mi interrogo sui problemi legati alla struttura quando sono ancora nella fase della ricerca, perché una volta acquistata una certa fiducia nel mio sguardo e nel modo in cui mi relaziono con ciò che mi circonda emerge sempre una sorta di curiosità che mi porta a chiedermi: “Che ne farò di questo blob di realtà che sto osservando? Come posso strutturarlo narrativamente? Come presentarlo ai miei lettori?”. Così, il frutto stesso delle mie ricerche viene modificato alla luce delle domande che mi pongo e da alcune idee di fondo relative all’impianto narrativo che dovrò costruire. Ovviamente, a questo punto non so ancora di preciso cosa ne verrà fuori, ma non intendo chiarirlo più di tanto, perché se lo facessi limiterei le chances creative e la stessa visione delle cose nel momento successivo, quello della scrittura. Ritengo, in linea generale, che ci sia un punto preciso nella “curva della conoscenza” in cui bisogna fermarsi: non sono mai in grado di sapere quando arriva, ma devo saper riconoscere quando sto per oltrepassarlo per evitare un eccesso di specializzazione. Non mi interessa affatto imitare gli “accademici”, che passano gran parte della loro vita indagando sullo stesso argomento, ed è proprio per evitare l’eccessiva specializzazione che, riconosciuto quel momento, oltrepassata quella linea, mi rendo conto che devo partire per qualche altro posto, che sia New York, la Francia o la California, sedermi in un hotel o in un appartamento e cominciare a scrivere, lavorando sulle note che ho preso o sulle trascrizioni delle mie registrazioni, e in alcuni casi, a seconda dell’argomento su cui scrivo, affidandomi anche ai materiali raccolti dalla mia assistente a New York, o a quelli ottenuti dalla sezione di “Vanity Fair” deputata a questo compito. All’inizio di questa fase del lavoro in genere sono molto confuso, le idee non hanno contorni nettamente definiti, ma, non appena inizio a scrivere, la struttura molto superficiale che avevo in mente si modifica, i materiali cominciano a prendere forma, e in quel momento inizio veramente a capire quel che ho visto. Mi accade sempre così. Per me la scrittura è pensiero, solo scrivendo riesco a pensare in modo chiaro all’argomento. Certo, la scrittura è anche arte, musica, ritmo, ma solo quando scrivo i contorni acquistano nitidezza, perché da una parte mi allontano da alcune idee che avevo in precedenza, dall’altra lascio emergere elementi che prima non conoscevo. Insomma, i materiali già raccolti mi rivelano nuove scoperte. Se credessi in Dio tenderei a pensare che tutto questo abbia qualcosa di miracoloso, e il miracolo sta proprio nel vedere trasformarsi i materiali in termini narrativi.

È stato spesso notato anche un contrasto produttivo tra la chiarezza e la luminosità del suo stile e l’anarchia e il caos degli argomenti sui quali lavora. Come se ci fosse una sorta di contraddizione, narrativamente efficace, tra i contenuti che sceglie e la forma in cui li rende...

Be’, innanzitutto non sono un impressionista, ma credo che in questo contrasto ci sia una sorta di bellezza dalla quale il lettore può eventualmente ricavare godimento o piacere estetico. Oltre a questo, il mio rispetto nei confronti dei lettori mi porta a esercitare una sorta di autocontrollo molto forte, visto che molto spesso mi sono occupato di situazioni davvero poco piacevoli o divertenti. Non si tratta di qualcosa che abbia a che fare semplicemente con la dimensione estetica, né di qualcosa di intenzionalmente voluto, piuttosto è un modo di costruire il rapporto con i lettori: non sono certo il tipo da dir loro: “L’argomento di cui vi sto parlando è molto triste, dunque pretendo che piangiate”. Qualche tempo fa mi è capitato di recensire un libro sul traffico di esseri umani e sui rifugiati nel mondo. Era un libro tutto sommato onesto, ma l’autrice pretendeva che il lettore si commuovesse per i rifugiati, che ne avesse compassione; mi è sembrato un insulto non solo verso i lettori, ma anche verso gli stessi rifugiati, che devono essere sì compatiti, ma soprattutto rispettati. Sono infatti delle persone coraggiose, che hanno deciso di lasciare la propria casa, in molti casi di vivere illegalmente dopo aver intrapreso viaggi difficili. Anche laddove si parla dei meno fortunati, persino nei casi in cui si scrive di argomenti come la schiavitù o il traffico sessuale, bisogna sempre tenere a mente il dualismo che accompagna ogni esperienza umana, riconoscendo la gioia e la miseria che, insieme, danno corpo a ogni situazione. Non credo sia possibile scrivere della vita di qualcuno, anche se tragica, senza sorriderne in qualche modo, senza riconoscere la compresenza di elementi contraddittori, a meno che non si intenda venir meno al rispetto per l’intelligenza dei lettori. Da parte mia, non voglio indurre alla commozione, né tirare conclusioni semplicistiche o polemiche, mi preme invece mettere in risalto il fatto che anche nelle situazioni più difficili non tutto è riconducibile alla sola dimensione tragica. Questo è il mio compito in quanto scrittore.

I suoi libri presentano delle descrizioni molto dettagliate, e includono rapporti più o meno ufficiali, testimonianze dirette e via dicendo. Tuttavia, come abbiamo visto, la sua prosa è asciutta, mai enciclopedica. In che modo riesce a ottenere da una massa così eterogenea di materiali delle strutture narrative dal profilo strutturale e stilistico così nitido e lineare? Si tratta di un processo di distillazione, di una sorta di processo scultoreo?

Penso che si tratti di entrambe le cose. D’altronde non sono un professore e non scrivo enciclopedie, e se qualcuno volesse conoscere tutto ciò che c’è da sapere su un determinato argomento farebbe meglio a non leggere i miei libri. Il processo di distillazione, che effettivamente c’è, anche in questo caso è determinato soprattutto dal rapporto con il lettore: per non insultarlo, una volta detto l’essenziale non bisogna andare oltre, insistendo con la stessa idea. Sarebbe una perdita di tempo per lui, nonché una forma inutile e spiacevole di pedanteria. Può darsi che sia un atteggiamento legittimo nell’ambito accademico, non lo è certo in quello narrativo. Comunque, al di là del processo di distillazione, c’è un livello che definirei di necessaria arroganza: una volta raccolti i materiali, infatti, si ha di fronte una massa complicata senza forma, un insieme caotico tridimensionale, e da questo oggetto così ampio e disarticolato occorre tirar fuori un percorso, una traiettoria, una sorta di integrità scultorea. Sta proprio qui l’arroganza, nella convinzione che, sebbene esistano probabilmente altre quindici diverse traiettorie praticabili, quella individuata sia la più appropriata per gestire e manovrare una materia così complessa in termini narrativi. In alcuni casi, una volta stabilita una traiettoria occorre tornare indietro e individuarne un’altra, per poi incrociarle in modo da ottenere un disegno strutturale di tipo più complesso. In ogni caso, si isolano artificialmente delle coordinate narrative e descrittive all’interno di un materiale che non può essere racchiuso in una forma lineare, ma che può essere solo “navigato”.

La sua attenzione per i dettagli può essere intesa come una sorta di rispetto per la complessità del reale, una complessità che le generalizzazioni ignorano o perfino offendono? Come una forma di rigetto delle astrazioni in favore di una penetrazione nella complessità fattuale del reale?

L’attenzione per i dettagli è una forma di rispetto per il reale, un modo per andare al di là delle semplici panoramiche e delle generalizzazioni, sperimentando i temi di carattere generale alla luce dei dettagli osservabili sul terreno. Come se questi dettagli costituissero le fondamenta dell’intero edificio. Non sempre ci riesco, forse sono in grado di farlo in non più del trenta per cento dei casi, ma le cose migliori che ho scritto sono quelle in cui sfioro appena i temi generali, affidandoli alla ricostruzione dei miei lettori. Come le ho detto, il mio scopo in quanto scrittore è proprio quello di revocare il mio ego, di ritrarmi da ciò che di volta in volta racconto, così da non lasciare immaginare fin dall’inizio quale sia il quadro completo che ho a disposizione. Vorrei che il lettore arrivasse a visualizzare questo quadro e i temi di carattere generale in modo autonomo, senza accorgersi della mia presenza. Non mi piace rendere espliciti i fatti tematici più macroscopici, e una delle ragioni che mi hanno fatto decidere di passare a scrivere da “Atlantic Monthly” a “Vanity Fair” è proprio la pressione crescente che il mio vecchio magazine faceva affinché esponessi in modo più diretto i temi di carattere generale. Mi sembra che essere troppo espliciti equivalga, in qualche modo, a insultare l’intelligenza del lettore.

Oltre che per la complessità del reale, lei sembra nutrire un profondo rispetto anche per le persone di cui scrive, tanto che evita sempre di demonizzarle o divinizzarle: in “Regole d’ingaggio”, per esempio, i soldati americani non sono presentati come guerrieri invincibili e avidi di sangue, ma come ragazzi tutto sommato normali; in “American Ground” i pompieri non sono eroi, ma uomini con le loro colpe e debolezze; in “Il bazar Atomico”, Abdul Qadeer Khan, il padre dell’atomica pakistana, spesso disegnato come “uno scienziato diabolico, dispensatore di morte”, è un uomo essenzialmente “generoso e caritatevole”. Si tratta di un modo per evitare un approccio moralistico, o, piuttosto, di una maniera per non “costringere” le molteplici sfaccettature di ogni individuo in tipologie troppo fisse?


In primo luogo direi che in questo mondo non c’è nulla che sia assolutamente demoniaco o totalmente buono, e che la storia, così come le persone che la costruiscono, è sempre molto più complessa delle nostre semplificazioni. È da questo dato di fatto che cerco di farmi guidare nelle mie descrizioni; devo dire comunque che sono anche piuttosto fortunato, perché ho a disposizione lo spazio e il tempo necessari per evitare caratterizzazioni riduttive o banali. Ritengo inoltre che l’empatia (che non significa necessariamente affinità o solidarietà) sia un elemento necessario della scrittura, un elemento che porta naturalmente verso quel tipo di descrizione delle persone e della loro personalità che è presente nei miei lavori. Le “brave persone” compiono sia azioni buone che azioni cattive, e lo stesso fanno le “cattive persone”; la vita è piena di auto-illusioni, ciò che vediamo a volte può ingannarci, le nostre convinzioni sono qualcosa di molto complicato, e via dicendo. In altre parole, il mondo è pieno di contraddizioni e di aree grigie. Per questo, se voglio essere giusto e onesto quando parlo delle persone, non ho altra scelta che scrivere in quel modo.

Considerata nel suo insieme, la sua attività di giornalista e scrittore possiede un profilo politico molto netto, che però sembra ottenuto per via “indiretta”, come se lei preferisse affidare la sua visione politica alle descrizioni e alla narrazione piuttosto che a delle considerazioni esplicite e inequivocabili...

Quasi tutto quello che ho scritto è profondamente politico, sebbene non nel senso in cui questo termine viene inteso generalmente, quando lo si lega agli orientamenti dei partiti politici o alle ideologie. Non mi ritrovo nell’accezione comune del termine “politica”, e sono francamente disinteressato a quel livello di conoscenza superficiale della politica che si interroga su chi sia il presidente o il primo ministro a Londra, Roma o Washington. Le questioni relative alle alleanze, ai sistemi parlamentari, ai rapporti tra progressisti e conservatori mi sembrano triviali, tanto che cerco di saperne il meno possibile e di starne quanto più lontano posso. Non partecipo alle attività dell’uno o dell’altro partito e, così come non ho mai fatto parte dei boyscout, sono molto lontano dall’aderire a determinate scuole di pensiero, che siano riconducibili a Marx, Freud o a chiunque altro. So che potrà sembrare arrogante, ma cerco di guardare al mondo così come lo vedo, ed è proprio per questo che le persone che vogliono criticarmi si trovano in difficoltà: non possono accusarmi di essere di destra, ma nemmeno di sinistra; non possono dirmi che sono marxista, ma nemmeno capitalista; non possono additarmi in quanto “americano”, ma neanche come “francese”. Non credo al tipo di appartenenza politica “classica”, e ritengo che anche il passaporto non abbia chissà poi quale valore esclusivo o assoluto.

In “Regole d’ingaggio”, “Il bazar atomico” e “Terrore dal mare” lei dimostra come i tentativi di applicare rimedi convenzionali (costruzione di dogane, affidamento al diritto internazionale, strategie di guerra classiche) a problemi non convenzionali (proliferazione nucleare, anarchia nei mari, guerra asimmetrica) siano destinati al fallimento. Come se volesse far notare che, mentre i pericoli hanno ormai assunto forme che eccedono il paradigma dello Stato-nazione, le soluzioni sono invece ancora legate a quel paradigma. Dovremmo sbarazzarcene, e cercare altre coordinate analitiche per orientarci politicamente e geograficamente nel mondo attuale?


Credo che lo Stato-nazione in quanto paradigma principale o strumento di organizzazione del mondo stia scomparendo, e che i governi formalmente istituiti tendano sempre più a essere una finzione, anche se in modi e gradi diversi a seconda delle diverse zone del pianeta. È in arrivo qualcosa di nuovo, non un ritorno al “Medioevo”, ma un’era di caos apparente durante la quale nuove forme di organizzazione, forse prive del legame territoriale, emergeranno e si assesteranno. Si tratta di un processo caratteristico della globalizzazione, che non possiamo né dobbiamo controllare. Lasciamo che il futuro arrivi per quel che è: non dobbiamo rimanere aggrappati all’idea dello Stato-nazione.

È per questo che in diverse occasioni lei ha sostenuto che molte delle sue ricerche sono guidate dalla convinzione che il caos apparente nasconda sempre delle leggi, un ordine, un cosmo. Può spiegarci meglio cosa intende?

Mentre in natura effettivamente il caos esiste, nelle questioni umane può verificarsi solo in determinate circostanze e per periodi di tempo circoscritti. Ciò che mi interessa è proprio vedere cosa emerge nel momento in cui le vecchie strutture vengono erose, si consumano o si disintegrano, così come si stanno sgretolando, lentamente, le vecchie strutture che negli ultimi due-trecento anni hanno contraddistinto gli Stati-nazione. In questo periodo, sto esplorando questi nuovi fenomeni in quelle parti del mondo dove prendono piede con maggior forza, e ho cominciato a riflettere sulle forme dell’ordine, le forme che emergono nel momento in cui il vecchio ordine convenzionale viene meno. Qualche genere di ordine prova in ogni caso a emergere, che sia selvaggiamente brutale o delicatamente utopico, che sia fondato sull’identità religiosa o etnica, che faccia riferimento a valori economici o sociali. È importante che questi fenomeni vengano osservati in modo diretto e senza paura, altrimenti rimarremo vittime delle reazioni allarmate che conducono spesso a guerre stupide e politicamente motivate. Non c’è niente di cui aver paura: dobbiamo osservare le nuove forme d’ordine, e può darsi che vadano accolte con un benvenuto. Ho cercato di fare qualcosa del genere anche recentemente, in “Letter from Sau Paulo: City of Fear”, il pezzo che ho scritto ad aprile per “Vanity Fair”.

Alla fine di “Regole d’ingaggio”, lei sostiene che la vicenda di al-Haditha (dove il 24 novembre 2005 sono stati uccisi venticinque civili iracheni da un gruppo di marines) rappresenta il volto della sconfitta americana nella guerra in Iraq. Può spiegarci meglio cosa intende e raccontarci perché ha deciso di occuparsene?

Quel che è successo ad al-Haditha, un caso di guerra asimmetrica “par excellence”, dimostra come le strategie militari convenzionali siano insufficienti per affrontare sfide militari non convenzionali. La prima cosa da dire, a un livello di analisi immediato e superficiale, è che non ci si può aspettare che i soldati americani in Iraq – che tutto sommato sono in gran parte bravi ragazzi, sebbene non particolarmente ben educati, animati da buone intenzioni e non dei brutali assassini – sappiano muoversi in una terra straniera, di cui non conoscono la lingua, in cui la gente sembra vestirsi in modo ridicolo, e che siano in grado di distinguere tra amici e nemici. Non possiamo aspettarci che in un contesto particolare come quello iracheno, in cui i combattenti non indossano uniformi, dove il nemico assomiglia all’amico (e in alcuni casi proprio dietro l’amico si cela il nemico) sappiano individuare quanti sono neutrali. L’altro aspetto da considerare sono ovviamente gli omicidi compiuti quel giorno: ora, se i primi cinque iracheni sono stati uccisi senz’ombra di dubbio a sangue freddo, per gli altri omicidi non possiamo dimenticarci delle regole d’ingaggio stabilite per la guerra in Iraq. Dobbiamo analizzare la vicenda nella sua complessità, senza ridurla a una generica condanna contro i soldati responsabili dell’uccisione di diciannove persone nelle loro case, tra cui vecchi e bambini. Bisogna riconoscere, invece, che la morte di civili innocenti è nella stessa natura della nostra presenza in Iraq. Possiamo chiamare i civili uccisi come preferiamo, danni collaterali o altro, ma la sostanza non cambia: la presenza americana in Iraq produce vittime innocenti. Quel che ho scritto su al-Haditha è il tentativo di riconoscere questa realtà per quel che è, un tentativo di chiamare le cose con il loro nome. Se, dopo aver occupato un paese di cui non conosciamo granché e che non abbiamo modo di conoscere fino in fondo, decidiamo comunque di continuare a combattere, se decidiamo di voler fermare questa specie di guerra civile, se intendiamo lottare contro gli insorti, finiremo inevitabilmente con l’uccidere delle persone innocenti. Non c’è modo di evitarlo. Ora, io non rappresento Amnesty International, né intendo farne le veci; quel che dico è semplicemente questo: può anche darsi che uccidere civili innocenti non sia poi così strano, che sia una scelta deliberata. Bene, ma che si chiami questa scelta con il suo nome. Se invece riteniamo che gli Stati Uniti non possano permettersi e non siano autorizzati a compiere delle scelte simili, allora bisogna agire di conseguenza, evitando di finire in situazioni come quella irachena. Soprattutto, però, bisogna evitare di accusare i soldati. A parte l’uccisione, davvero criminale, dei cinque iracheni che erano a bordo del taxi, per il resto quel che emerge con più evidenza dalla vicenda di al-Haditha è la codardia di esercito e politici americani. Se riteniamo che quei ragazzi abbiano commesso un crimine, bisogna avere l’onestà di dire che tutta la guerra in Iraq è un crimine. Il processo ai marines è un atto di codardia e disonestà dell’esercito americano e dell’establishment politico, perché non si può pensare di processare dei ragazzi mandati in guerra dicendo che i loro atti sono criminali, mentre la guerra per cui combattono non lo è.

Mi piacerebbe concludere l’intervista con un “inizio”. Ci può dire qualcosa sulle circostanze che l’hanno portata a dedicarsi alla scrittura? È vero che nel 1990, quando le sue esperienze giornalistiche si limitavano ad alcuni articoli per riviste di aviazione, inviò alla redazione di “Atlantic Monthly” un biglietto con su scritto “Ecco un pezzo sull’Algeria”?

E' vero, ho cominciato così la mia collaborazione con “Atlantic Monthly”. Non ho cercato di “dare un tono” a quell’articolo, di enfatizzarlo troppo o di ricamarci sopra. Ho pensato piuttosto: dopo tutto è solo un foglio scritto, buono o cattivo che sia, che parli da sé. Così l’ho mandato alla redazione di “Atlantic Monthly” senza che nessuno me lo avesse chiesto, con la più semplice nota di accompagnamento: “Ecco un pezzo sull’Algeria.” Visto in questi termini potrebbe apparire un inizio molto semplice, ma in realtà è stato sofferto e molto “prolungato”: sin da quando avevo ventidue anni, infatti, avevo compreso le potenzialità illimitate della non-fiction come forma di scrittura, ma per circa un decennio non sono riuscito a guadagnarmi da vivere con la scrittura, e sono stato costretto a lavorare come pilota per pagarmi l’affitto, continuando comunque a viaggiare, scrivere e (la cosa più importante) invecchiare. In quel periodo non mi sono mai dato per vinto, in parte perché volare mi sembrava una professione troppo umile, e in parte perché credevo, come continuo a credere, che la non-fiction fosse il luogo stesso della scrittura.

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