Intervista a Oscar Pistorius
Soprannominato the fastest thing on no legs, Oscar Pistorius è un amputato bilaterale detentore del record del mondo sui 100, 200 e 400 metri piani. Nasce in Sudafrica con una grave malformazione (non aveva i talloni), che all’età di 11 mesi lo costringe all’amputazione delle gambe. Gioca a pallanuoto e rugby, fino a quando un grave infortunio gli impone di dedicarsi all’atletica per motivi di riabilitazione. Oggi l’atletica è la sua vita.
«La gente mi chiede spesso come sia avere due protesi al posto delle gambe, com’è avere qualcosa che mi rende un disabile – dice Oscar –, la risposta più sincera è che non lo so. Primo perché non ho mai avuto gambe normali, secondo perché non mi sento in alcun modo un disabile. Ogni disabilità può trasformarsi in vantaggio: questo è quanto ho imparato e ciò in cui continuo a credere». Classe ’86, Pistorius corre grazie a particolari protesi in fibra di carbonio: dopo i tanti successi ottenuti dal suo primo appuntamento ufficiale di rilievo, le Paraolimpiadi di Atene del 2004, lo scorso 16 maggio arriva quello più importante, l’ammissione da parte del Tas (Tribunale arbitrale sportivo) a gareggiare con i normodotati. Una battaglia che il giovane 21enne porta avanti dal 2005, lottando contro quanti ritengono che le sue protesi costituiscono un vantaggio meccanico dimostrabile, in termini di resa, rispetto a chi non ne usi. Ora i giudici sportivi hanno emesso il verdetto: Oscar può correre tra i normodotati. Il prossimo sogno da inseguire diventa un altro: fare il tempo minimo per accedere alle Olimpiadi di Pechino 2008.
È arrivata la sentenza del Tas tanto attesa, la più sperata.
«Sì, è uno dei giorni più felici della mia vita, non vorrei essere scambiato per un idiota se sorrido per tutto il pomeriggio ma non riesco a farne a meno. Sono contento che la mia battaglia sia finita in questo modo».
Richiede più determinazione correre sul campo o contro la federazione?
«Decisamente contro la federazione! Correre per me non è un lavoro, è qualcosa che amo. Quando mi sveglio la mattina e vado al campo, spengo il telefonino e dimentico tutto il resto: l’atletica è una passione, è la mia vita. Certe volte costa sacrifici, ma se sai perché li stai facendo e se sei motivato dentro, una battaglia contro i giudici sportivi assorbe di sicuro molta più energia!».
Quando hai capito che l’atletica ti avrebbe dato tante soddisfazioni?
«Devo dire che già al mio esordio ero molto emozionato. Ero lì ai blocchi, di fianco a me un francese che mi innervosiva, sputava, imprecava. Mi chiedevo se avessi lavorato abbastanza, se mi fossi allenato come dovevo. Ero un po’ confuso, non riuscivo a concentrarmi, era la mia prima gara internazionale e per due volte è stata falsa partenza. Dentro di me pensavo a mille cose, avevo lavorato all’obiettivo, ma al terzo sparo sono rimasto fermo sui blocchi. A quel punto mi sono chiesto: dopo tutti i sacrifici che hai fatto per arrivare qui cosa vuoi fare? Conviene non partire proprio oppure vale la pena alzarsi e correre comunque? Ho scelto la seconda. E nelle finali ho vinto l’oro sui 200. Da quel giorno ho corso con passione sempre maggiore, sicuro che non avrei fatto sacrifici per niente».
Hai mai pensato che saresti stato più o meno contento se la tua vita fosse stata diversa?
«Sicuramente sarei stato più veloce con le gambe ma probabilmente non ci avrei dato l’anima come sto facendo ora. Non sarei l’atleta determinato che sono. Forse non sarei addirittura un atleta. In fondo, tutta la mia personalità è maturata grazie a questa disabilità».
A cosa pensi prima di entrare in gara? Credi in Dio?
«Credo in Dio e credo in tutte le persone che sento vicine, in primo luogo i miei genitori e mio fratello. Ma se devo essere onesto, la tensione prima di una gara è grande e cerco di concentrarmi solo sulla corsa. Poi, se arrivano le vittorie le dedico senza dubbio a loro».
I tuoi punti fermi, dunque.
«Sì, sono cresciuto in una famiglia splendida e normale sotto tutti i punti di vista. Non mi hanno mai impedito di fare ciò che volevo, anzi mi spronavano in qualsiasi cosa volessi fare. Avevo come modello mio fratello, volevo sempre imitarlo. Mi ricordo di quando mi ha fatto salire sulla sua macchinina per farmi provare una discesa di 350 metri che lui faceva sempre con gli amici. Solo che, dopo 50, 100, 150 metri ancora non si fermava, la macchina aveva preso velocità e io già mi vedevo spiaccicato al muro in fondo alla strada! Invece, quando ormai mancavano 50 metri, mio fratello ha preso una delle mie gambe e l’ha infilata tra le ruote della macchine usandola come freno: da lì ho capito che le protesi potevano anche essere un vantaggio».
Un ricordo della tua infanzia?
«Le mie protesi di quando ero bambino. Non erano moderne come quelle che ci sono oggi; però avevano la faccia di Topolino».
Ripeti sempre che non ti senti un disabile. In che senso? Cosa significa per te disabilità?
«Nella vita ci sono abilità e disabilità, che possono essere fisiche, mentali, barriere psicologiche che ci si crea. Ma dietro ogni condizione di disabilità ci sono le mille abilità che si sfruttano per compensare ciò che manca; ci sono vantaggi e svantaggi, come esistono pro e contro nella vita di tutte le persone normodotate, che in tante cose – in realtà – sono più disabili dei disabili. Per quanto mi riguarda, uno dei lati positivi delle protesi è puramente materiale. Per fare un esempio: sono andato in motocicletta e ho preso dentro un sasso che mi si è scagliato sulla gamba. Ora ho un buco sul polpaccio, eppure non ho sentito nulla, e l’ho tolto come se niente fosse. Il più grande svantaggio? Quando sei fuori a cena con una ragazza carina che ti fa il piedino: caspita, non sento nulla!».
Il fatto di raggiungere un obiettivo particolare, si stabilisce a priori o è qualcosa che matura strada facendo?
«Sicuramente lo decidi prima, poi si lavora per gradi. Per me il “big goal” è correre alle Olimpiadi di Pechino; poi ci sono tanti piccoli obiettivi da raggiungere per realizzare quello finale: prendere i giusti momenti di riposo, seguire un’alimentazione regolare, allenarmi con costanza».
Quanto conta la tenacia nella vita di Oscar Pistorius?
«Tantissimo. Il mio più grande sacrificio? Non poter mangiare certe cose, purtroppo…Ma quando credi davvero in qualcosa, è questa stessa tenacia e i sacrifici che sai di aver fatto che rendono quello che hai ottenuto ancora più apprezzabile e soddisfacente ».
E l’ironia?
«Averla è indispensabile, per uno come me. Sarebbe meglio non intristirsi per una disabilità; piuttosto bisognerebbe essere contenti per tutte le altre abilità che si hanno».
Pensi di riuscire a fare i tempi minimi di partecipazione per Pechino?
«Sto migliorando lentamente. Per arrivare ai 45.5 secondi devi essere costante; purtroppo quest’anno ho speso tanto tempo lontano dal campo per le mie questioni legali. Ma ora mi hanno aperto le porte alle Olimpiadi e farò di tutto per entrarci. Comunque, il vero senso di questa storia, al di là di Pechino, è l’essere stato incluso tra i normodotati: non era solo la mia battaglia, adesso è la battaglia di tutti quelli come me».
[francesca salsano]
CONFLITTO DI GAZA
Intervista a Nahum Barnea
«Non ci sono dubbi che le operazioni militari organizzate da Israele sono state condotte ad ampio spettro. Il punto è che sono durate anche molto più a lungo di quanto ci si aspettasse», racconta da Gerusalemme Nahum Barnea, una delle penne più autorevoli del giornalismo israeliano, intervistato in esclusiva da m@g. Barnea, che scrive per il quotidiano Yedioth Ahronoth e ha vinto il premio Israel Prize per la comunicazione, ha perso un figlio nel 1996, in un attentato kamikaze di Hamas a un autobus di linea. Al funerale ha perdonato pubblicamente l’assassino, considerandolo vittima della stessa tragedia che affligge il popolo palestinese. Da anni si spende per favorire il dialogo nell’ambito del conflitto arabo-israeliano.
[viviana d'introno e cesare zanotto]
L'INTERVISTA
Yang Lian, nato in Svizzera nel 1955 ma cresciuto a Pechino, è oggi uno dei maggiori poeti contemporanei e una tra le voci più importanti della dissidenza cinese. Esiliato dalla Repubblica Popolare Cinese dopo avere duramente criticato nel 1989 la repressione di Piazza Tiananmen, vive all’estero da vent’anni. È stato candidato al Premio Nobel nel 2002 e le sue poesie sono state tradotte in 25 lingue. Yang Lian interpreta lo spirito della millenaria cultura cinese attraverso la sua esperienza da esule. Una riflessione sulla condizione generale dell’uomo ma anche un invito alla speranza per milioni di cinesi che chiedono democrazia.
guarda l'intervista
[marzia de giuli e luca salvi]
L'INCHIESTA
È un’emergenza che dura da oltre vent’anni. I territori tra Napoli e Caserta sono uno stato nello stato dove l’unico potere reale è quello della Camorra. Nonostante i blitz, gli arresti e l’invio di soldati e poliziotti, i clan continuano a fare affari in un cono d’ombra in cui convivono l’economia legale e la politica. Ne abbiamo parlato con Andrea Cinquegrani, direttore de La Voce della Campania (oggi La Voce delle Voci).
Ascolta l'intervista
[alberto tundo]
MARIO CAPANNA
Onda e '68 a confronto
Quarant’anni dopo la protesta che ha segnato un’epoca, gli studenti italiani sono ancora in piazza. Secondo alcuni osservatori, l’Onda, che contesta la riforma Gelmini, è la fotocopia del’68. Altri la pensano diversamente. Mag ha chiesto un’opinione a Mario Capanna, ex studente dell’Università Cattolica e leader del movimento nel 1968.
[cesare zanotto]
CIBO E MEMORIA
La relazione tra il cibo e la memoria è uno degli aspetti più profondi e antichi della cultura italiana e internazionale. Emblema di questo nesso è la madeleine che risveglia i ricordi dell’infanzia di Marcel Proust nel romanzo Alla ricerca del tempo perduto . Che cosa pensano i gourmet più affermati e i cuochi più celebri del nostro Paese del rapporto tra lo stile di vita dei nostri tempi e i cambiamenti nel gusto culinario, sempre più lontano dalla tradizione culinaria? La risposta nel servizio.
[francesco perugini]
GIORGIO BOCCA
Nessuno meglio di Giorgio Bocca può aiutarci a riflettere sulla crisi che sta vivendo oggi la professione di giornalista. "E' la stampa, la bellezza!", il suo nuovo libro vuole essere un'occasione per riflettere sul destino di un mestiere che sembra aver perso le sue virtù. In Italia la carta stampata appare schiacciata dalle pressioni della politica e dell’economia, incapace di reagire allo strapotere della comunicazione televisiva, non più in grado di scandagliare i mutamenti reali della società. Abbiamo approfondito queste e altre questioni nell'intervista.
[gaia passerini]
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