CONFLITTO DI GAZA

Intervista a Nahum Barnea

«Non ci sono dubbi che le operazioni militari organizzate da Israele sono state condotte ad ampio spettro. Il punto è che sono durate anche molto più a lungo di quanto ci si aspettasse», racconta da Gerusalemme Nahum Barnea, una delle penne più autorevoli del giornalismo israeliano, intervistato in esclusiva da m@g. Barnea, che scrive per il quotidiano Yedioth Ahronoth e ha vinto il premio Israel Prize per la comunicazione, ha perso un figlio nel 1996, in un attentato kamikaze di Hamas a un autobus di linea. Al funerale ha perdonato pubblicamente l’assassino, considerandolo vittima della stessa tragedia che affligge il popolo palestinese. Da anni si spende per favorire il dialogo nell’ambito del conflitto arabo-israeliano.

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[viviana d'introno e cesare zanotto]

L'INTERVISTA

La voce della libertà

Yang Lian, nato in Svizzera nel 1955 ma cresciuto a Pechino, è oggi uno dei maggiori poeti contemporanei e una tra le voci più importanti della dissidenza cinese. Esiliato dalla Repubblica Popolare Cinese dopo avere duramente criticato nel 1989 la repressione di Piazza Tiananmen, vive all’estero da vent’anni. È stato candidato al Premio Nobel nel 2002 e le sue poesie sono state tradotte in 25 lingue. Yang Lian interpreta lo spirito della millenaria cultura cinese attraverso la sua esperienza da esule. Una riflessione sulla condizione generale dell’uomo ma anche un invito alla speranza per milioni di cinesi che chiedono democrazia.

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[marzia de giuli e luca salvi]

L'INCHIESTA

È un’emergenza che dura da oltre vent’anni. I territori tra Napoli e Caserta sono uno stato nello stato dove l’unico potere reale è quello della Camorra. Nonostante i blitz, gli arresti e l’invio di soldati e poliziotti, i clan continuano a fare affari in un cono d’ombra in cui convivono l’economia legale e la politica. Ne abbiamo parlato con Andrea Cinquegrani, direttore de La Voce della Campania (oggi La Voce delle Voci).

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[alberto tundo]

MARIO CAPANNA

Onda e '68 a confronto

Quarant’anni dopo la protesta che ha segnato un’epoca, gli studenti italiani sono ancora in piazza. Secondo alcuni osservatori, l’Onda, che contesta la riforma Gelmini, è la fotocopia del’68. Altri la pensano diversamente. Mag ha chiesto un’opinione a Mario Capanna, ex studente dell’Università Cattolica e leader del movimento nel 1968.

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[cesare zanotto]

CIBO E MEMORIA

Viaggio nel gusto italiano


La relazione tra il cibo e la memoria è uno degli aspetti più profondi e antichi della cultura italiana e internazionale. Emblema di questo nesso è la madeleine che risveglia i ricordi dell’infanzia di Marcel Proust nel romanzo Alla ricerca del tempo perduto . Che cosa pensano i gourmet più affermati e i cuochi più celebri del nostro Paese del rapporto tra lo stile di vita dei nostri tempi e i cambiamenti nel gusto culinario, sempre più lontano dalla tradizione culinaria? La risposta nel servizio.

[francesco perugini]

GIORGIO BOCCA

Intervista sulla crisi del giornalismo italiano


Nessuno meglio di Giorgio Bocca può aiutarci a riflettere sulla crisi che sta vivendo oggi la professione di giornalista. "E' la stampa, la bellezza!", il suo nuovo libro vuole essere un'occasione per riflettere sul destino di un mestiere che sembra aver perso le sue virtù. In Italia la carta stampata appare schiacciata dalle pressioni della politica e dell’economia, incapace di reagire allo strapotere della comunicazione televisiva, non più in grado di scandagliare i mutamenti reali della società. Abbiamo approfondito queste e altre questioni nell'intervista.

[gaia passerini]

GIORNALISMO IN LUTTO

Il Re è uscito di scena

Candido Cannavò è arrivato alla fine della sua corsa pochi giorni fa, lasciando un grande vuoto nel mondo del giornalismo. La redazione di M@g lo saluta con questo dossier.

1. Il nostro addio a Candido Cannavò


2. Un cielo rosa Candido

3. Il riposo del Direttore



[pierfrancesco loreto - daniela maggi - cinzia petito - cesare zanotto] continua

POLITICA

Se a sinistra c'è un Mondo Nuovo

Se il centro sinistra italiano sta vivendo un momento cruciale, con il cambio di dirigenza del Partito Democratico, la sinistra sta attraversando addirittura una travagliata transizione verso un nuovo panorama partitico tuttora indefinito. Ma i momenti di crisi sono anche i più adatti per fermarsi e guardare al passato alla ricerca delle proprie radici, per ritrovare una parte di se stessi. Ecco allora Fausto Bertinotti, in veste di militante uscente dal partito che lui stesso ha fondato e guidato come segretario per tredici anni, Rifondazione Comunista, intervenire alla presentazione milanese del «Mondo Nuovo» e le origini del Psiup, libro di ricerca storica dell’ex sindacalista Anna Celadin.

Il volume ripercorre in quattro capitoli la storia del Partito socialista dal 1956 al primo governo di centro sinistra del 1963. Nel gennaio successivo nacque il Partito socialista di unità proletaria, di cui l’autrice ricostruisce il progetto politico attraverso gli editoriali del Mondo Nuovo, settimanale del partito. Il periodo di riferimento arriva al 1967, ultimo anno del deludente progetto riformista propugnato dal Psi, una volta salito al governo. Negli stessi anni la direzione vide l’avvicendarsi del fondatore Lucio Libertini, Tullio Vecchietti e Piero Ardenti. Diventando giornale di partito il Mondo Nuovo perse tuttavia la vivacità intellettuale e il rapporto con il mondo operaio, mentre lo Psiup, che ottenne nel 1968 il 4,5% dei voti, reagì in modo troppo ambiguo alla Primavera di Praga. Tentando di porsi alla sinistra del Pci provocò infatti una crescente disaffezione del suo elettorato, i giovani che avrebbero poi fatto il Sessantotto.

Bertinotti iniziò la sua carriera a 26 anni nello Psiup e ricorda che nel ’64 era ormai chiaro il fallimento dei tentativi socialdemocratico e comunista: «È necessario per noi mettersi all’altezza di chi, come Giorgio Amendola, già allora proponeva un partito unico a sinistra, rivolgendosi alle formazioni che potevano mettere insieme il 45% dei voti». Non è dato sapere se si tratta di un messaggio velato agli attuali interlocutori politici di sinistra, ma dalla storia socialista Bertinotti trae un altro suggerimento per l’attualità: «Quando muore il centro sinistra, Nenni annota nei suoi Diari: "Non c’è niente da fare al Governo se non arginare la prepotenza della destra". Scopre cioè che il Governo non è la vera “stanza dei bottoni”, come credeva. Lì finisce l’idea di riformare il Paese dall’alto. La verità – spiega l’ex Presidente della Camera - è che l’ala di centro sinistra non è mai idonea alle riforme sociali, perché ha organicamente al suo interno un centro che dal Governo diventa sistematicamente la potenza egemonica: il centro infatti non è in relazione politica, ma sistemica, con la Banca d’Italia, la Confindustria e il Vaticano».

L’ipotesi unitaria viene comunque presa in considerazione da Chiara Cremonesi, segretario provinciale di Sinistra democratica: «Milano dimostra quello che sta succedendo nel Paese: c’è il più alto tasso di immigrati, di donne lavoratrici e di domanda di laicità, con il maggior numero di coppie non sposate, con figli. Stiamo lasciando che tutto questo venga interpretato dalla destra. Dobbiamo rispondere, ma è necessario a sinistra un confronto vero per discutere con chiarezza su quello che vogliamo. L’unità non sia una formalità, un paravento». Raccomandazioni, dunque, ma anche l’allarme di Antonio Panzeri, membro del Pd, eurodeputato del gruppo socialista: «Dobbiamo renderci conto che nel cammino dal Pci al Pd stiamo subendo una grossa sconfitta culturale, ma soprattutto che si sta generando un vero blocco sociale e politico intorno alle bandiere di Berlusconi, così come avvenne per la Democrazia cristiana per tanti anni. Potrebbe non rivelarsi soltanto un problema di leadership». L’osservazione gela gli astanti e strappa una stretta di mano da parte di Bertinotti, che, a latere della conferenza, esprime anche una valutazione sull’attuale crisi economica: «Finora ha colpito i giovani e i precari, di cui è necessario che si occupi il Governo. L’intervento dello Stato nell’economia è inoltre necessario. Lo fa Obama, lo fa Sarkozy: se un Paese decidesse di non attuarlo, ne soffrirebbe il doppio».


[daniele monaco]
continua

TERRORISMO

Attentato al Cairo, morta una turista francese

Una turista francese di 17 anni è morta ieri sera al Cairo, la capitale dell’Egitto, per gli effetti di una bomba scoppiata a Khan el Khalili, il mercato più famoso della città. Ancora non sono chiare le modalità dell’attacco, che ha causato 24 feriti, ma la scelta del luogo dell’attentato fa pensare che i terroristi volessero colpire i turisti in visita, visto che il mercato è tra le principali attrazioni egiziane e che sorge in pieno centro città, tra le moschee più belle.

Le fonti ufficiali egiziane parlano di un congegno esplosivo costruito artigianalmente e piazzato sotto una panchina di pietra mentre alcune testimonianze raccontano che la bomba è stata lanciata dal passeggero di un motorino che sfrecciava a tutta velocità e altri spiegano che l’ordigno sia piovuto da una finestra dell’albergo Hussein, che si affaccia sulla piazza teatro dell’attentato.

La Farnesina esclude che tra i coinvolti ci siano italiani, mentre il presidente transalpino Nicolas Sarkozy ha espresso il suo «profondo dolore» per l’attentato e ha fatto le sue condoglianze alla famiglia della vittima, inviando un messaggio di solidarietà ai feriti e ai loro parenti. Tra le vittime dell’esplosione si contano infatti altri 18 francesi, 3 sauditi ed un tedesco. Gli altri coinvolti sono egiziani che lavorano nelle vicinanze del luogo dell’attentato e tra questi c’è anche un bambino. Condizioni gravi per sei di loro e strage sfiorata, visto che la polizia egiziana ha trovato nei paraggi del luogo della prima esplosione un secondo ordigno, disinnescandolo.

Nella serata di ieri tre persone, due donne dal volto coperto ed un uomo, sono state arrestate dalle autorità perché sospettate di essere coinvolte nell’attentato. L’analogia con altri episodi che hanno colpito l’Egitto in passato fa pensare che il terrorismo sia sempre sensibile ad obiettivi occidentali per colpire collateralmente il governo del Raìs Hosni Mubarak. La sua polizia e la sua lotta ai Fratelli Musulmani, il gruppo politico che da anni lotta per l’emancipazione fondamentalista della terra delle piramidi, evidentemente sono ancora in discussione. Per dedicarsi alle conseguenze dell’esplosione di ieri il Raìs ha annullato tutti gli impegni presi per la giornata di oggi, compreso l’incontro col presidente della Camera Gianfranco Fini.

La motivazione di questo gesto terroristico, opera probabilmente di Al-Tawid wal Jihad, una cellula autonoma di Al Qaeda, potrebbe quindi essere quella di punire l’immobilismo del governo egiziano durante i bombardamenti israeliani avvenuti tra dicembre e gennaio scorsi a Gaza. Durante quei giorni le frontiere d’Egitto non si aprirono mai ai palestinesi che volevano scappare da Gaza e la posizione di Mubarak fu neutrale. Posizione che però ha attirato sul reggente egiziano l’ira del fondamentalismo islamico che lo considera un complice israeliano ed un traditore della causa araba.


[roberto dupplicato]
continua

SENZATETTO

Clochard? Sì, grazie, ma con ufficio stampa

«Per favore, appoggiate il piano di stimolo del presidente Obama. Cominciate da qui... dal fondo». Così recita uno dei cartelli che lo scrittore americano, Gay Talese, ha distribuito ai senzatetto newyorkesi. L’intenzione dell’intellettuale è quella di far aumentare le rendite da elemosina dei barboni d’oltre oceano attraverso una comunicazione più accattivante. Ma forse l’iniziativa ha anche l’obbiettivo di evidenziare un problema che, negli States, sta crescendo a vista d’occhio. Solo nella Grande Mela, per colpa della crisi economica, il numero dei clochard è aumentato del 40% in cinque mesi. Talese non pretende di aver trovato la soluzione definitiva a questa emergenza sociale. Anche se Byron Breeze, un suo giovane “cliente” in sedia a rotelle, ha detto che, grazie al nuovo cartello, sta guadagnando dai 10 ai 20 dollari in più al giorno».

In Italia il numero dei senzatetto finiti per strada a causa della crisi è ancora basso. «Ma la soglia di povertà – secondo il presidente del Progetto arca, Alberto Sinigallia – si sta abbassando pericolosamente. E, tra sei o sette mesi, potremmo ritrovarci con migliaia di clochard nelle strade senza avere le strutture per garantirgli la benché minima assistenza». «Per molti di questi – continua Sinigallia – la strada sarà solo una condizione temporanea. Quindi ci sarà bisogno di figure professionali che possano accelerare e accompagnare il loro reinserimento nella società». Se questi nuovi senzatetto non venissero aiutati da nessuno potrebbero sprofondare nell’alcolismo e la strada potrebbe diventare per loro una condizione permanente. Ma per Magda Baietta, responsabile dell’Associazione Ronda della Carità e Solidarietà, «gli effetti della crisi già si sentono nel settore delle donazioni. Sia i privati che le aziende sono sempre meno generosi. Stanno diminuendo anche le scorte di cibo del Banco alimentare».

Anche se gli effetti della crisi veri e propri devono ancora arrivare, secondo padre Clemente Moriggi, responsabile della Fondazione Fratelli di San Francesco, i primi sintomi già cominciano a sentirsi. «Negli ultimi mesi – spiega il religioso – il numero di italiani tra i senzatetto sono cresciuti del 2%». «Ho riscontrato – continua Moriggi – anche un leggero aumento dei separati che non riescono a trovare un’altra casa. Sta salendo anche il numero dei pensionati e dei lavoratori che usufruiscono della nostra assistenza: la loro rendita non permette loro di essere autosufficienti al 100%». Per quanto riguarda il calo delle donazioni Padre Clemente è ottimista: «Chi fa fatica ad arrivare alla fine del mese sta trasformando il suo aiuto in volontariato: un impegno formativo importante, soprattutto per i giovani». Verso l’iniziativa di Talese, il fondatore dei Fratelli di San Francesco non esprime un particolare entusiasmo: «Il clochard vero e proprio si mette, con un cartello, in ginocchio in mezzo alla strada. Ma i nuovi poveri partoriti dal ventre della crisi economica vogliono mantenere la loro dignità. Ed è nostro dovere rispettarla».

Comunque, secondo Padre Clemente, «per ora sono in rapido aumento soprattutto i senzatetto stranieri». Di fronte a quest’ultimo dato, lo scrittore milanese di origini senegalesi Pap Khouma è molto preoccupato: «Sia dalla popolazione che dalla classe politica gli stranieri sono visti solo come una minaccia. Ma oggi la maggior parte di essi vive in una condizione di assoluta indigenza». La storia ci insegna che, in tempi difficili come questo, i primi a farne le spese sono sempre gli stranieri. Inoltre bisogna tenere presente che gli extracomunitari in difficoltà, al contrario degli italiani, non hanno quasi mai delle famiglie a cui rivolgersi per chiedere aiuto. Per questo l’intellettuale africano si augura che «gli ammortizzatori sociali, che il governo attuerà per arginare gli effetti della crisi, non escludano gli stranieri». La lotta alla povertà giova alla sicurezza pubblica più di qualsiasi ronda.


[andrea torrente]
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PROTESTE

Quote: premiati i “furbetti” del latticino

Li chiamano già “i furbetti del latte”. Sono gli allevatori che non rispettano le regole. Quelli che secondo molte associazioni di categoria - Confagricoltura, Cia, Unione Agricoltori - saranno graziati dal nuovo decreto del ministro Zaia. «Il provvedimento - afferma il presidente nazionale della Confederazione Italiana Agricoltori, Giuseppe Politi - penalizza soprattutto i produttori che hanno rispettato le regole e che hanno compiuto sacrifici per effettuare onerosi investimenti. La nostra è una ferma e decisa mobilitazione». A fargli eco, Nicodemo Oliverio, capogruppo del Pd nella commissione Agricoltura della Camera: «Si accontenta solo chi nel passato ha guadagnato facendo una sorta di dumping fiscale".

I punti critici, sui quali non possiamo assolutamente mollare – spiega meglio Mario Lanzi, presidente della Cia Lombarda – sono tre. Chiediamo anzitutto un fondo di finanziamento di almeno 500mila euro per aiutare quelle aziende che hanno fatto grossi investimenti nell’acquisto di quote. Perché con l’aumento produttivo del 5% concesso da Bruxelles, il loro valore è crollato». Il surplus verrà infatti distribuito a chi ha prodotto senza avere acquistato “licenze”. «Non è giusto – sottolinea Lanzi – perché la ripartizione dovrebbe avvenire tra tutti i produttori partendo da quelli in regola». C'è poi la questione della rateizzazione delle multe. «Riteniamo necessario che venga rispettata la legge 119: vale a dire la rinuncia, da parte di chi aderisce, di tutti i contenziosi giudiziari pregressi». Ma il problema è anche di mercato. «Perché – chiarisce il presidente Cia – il latte fuori quota crea una turbativa di mercato. Incide negativamente sul prezzo, che è basso, mettendo ulteriormente in difficoltà chi ha contratto debiti per produrlo».

E, in effetti, la crisi del latte e dei prodotti lattiero-caseari si fa sentire anche in Italia. Con il prezzo che viaggia sui 30 centesimi al litro. Il problema è noto anche al Ministero che, proprio per questo motivo, ha scelto di regolarizzare le produzioni esistenti, evitando il rischio di nuovi sforamenti. E facendo in modo, contemporaneamente, di blindare l’accesso al settore da parte dei nuovi trattori che in passato non hanno potuto acquisire quote. Ciò anche in vista del 2015 quando il regime comunitario, introdotto nel 1984 con l'obiettivo di limitare l'offerta, verrà probabilmente dismesso. Ma per gli allevatori il 2015 è ancora lontano. E per il momento preferiscono guardare al presente. La guerra del latte - promettono - non si arresterà. Anzi, dai presidi allestiti “per sensibilizzare l’opinione pubblica”, si preparano nuove battaglie. Il prossimo appuntamento è per giovedì 26 davanti a Montecitorio. Poi, il due marzo, quando si inaugurerà l’iter parlamentare del decreto, i trattori muoveranno verso Arcore come già minacciato all’assemblea di Cremona. E se il decreto passerà in Parlamento? «Allora - rispondono decisi i rappresentanti dei produttori - ci muoveremo per vie legali».


[ivica graziani]
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MUSICA

Patti Smith, come ti guardo il mondo da una Polaroid

Tra gli scaffali della libreria non sembra altro che un’attempata turista americana dal gusto vagamente naif. Cappello a tesa larga calato sulla fronte, occhialini tondi e una Polaroid d’altri tempi che continua a scattare. Niente bodyguard, flash o red carpet, solo la consapevolezza di voler sembrare più normale e semplice di quanto si possa pensare. Chiamatela poetessa, rock star, attivista peri i diritti umani, o inventatevi una definizione apposta per lei, l’importante è non attaccarle etichette, non lo perdonerebbe mai. Patti Smith è arrivata a Milano per presentare Dream of Life, film biografico girato dall’amico Steven Sebring e distribuito in Italia da Feltrinelli Real Cinema.

Non una parola, ma una lavagna per poter scrivere il messaggio che racchiude il senso di una vita sulla cresta del rock’n’roll «People have the power», questo è il saluto che Patti Smith lancia a Milano. Un modo per rompere ancora una volta gli schemi, per ribadire che la comunicazione è uno dei pochi modi per sentirsi vivi, e allora perché non spingersi oltre, sfottendo i fotografi delle agenzie che la immortalano. La sua risposta ai flash è l’ennesimo scatto di Polaroid. Foto che fotografa altre foto, l’abbattimento di ogni frontiera e inibizione. Ma il segreto di questa carica arriva dalla perfetta alchimia che solo il rock’n’roll può regalare. «Ci sono due momenti nella mia vita di artista – racconta la Smith – uno dedicato alla solitudine, alla riflessione per scrivere e disegnare. Un secondo è quello dell’energia comunicativa con le persone, il momento da spendere sul palco con la propria band. Essere membri di una rock’n’roll band è l’essenza della comunicazione. Scrivere è molto gratificante e faticoso, ma la band è energia pura».

Eppure, questa è la storia di un'artista che non è stata segnata solo dai successi, anzi. Nel 1979 Patti Smith, a soli 30 anni, se ne andò dalla scena. Proprio perché non è la fama a creare una persona, non è la gloria a plasmare l’animo di un artista. Racconta la Smith: «Decisi di andarmene dalla scena perché non stavo crescendo come persona, così ho preferito tornarmene tra la gente. Sono stata madre e moglie, e in quel tempo mi sono preparata al ritorno. Perché non ho paura delle persone, ma solo di non riuscire a comunicare con esse». Così, inaspettatamente, si scopre l’animo di una donna che fugge dall’immaginario collettivo della rockstar. «Chi sono gli eroi oggi? Un esempio? Essere eroi oggi significa riuscire a tenere unita la famiglia. Gli eroi veri nascono dalle situazioni quotidiane, ma è difficile trovare una definizione – spiega Patti –. Mia madre è stata un’eroina. Ha cresciuto 4 figli con poco, mentre mio padre lavorava in fabbrica. Ma, soprattutto, nonostante le umili origini, entrambi non hanno mai sottovalutato l’importanza della ricchezza intellettuale delle persone. Io spero di aver imparato da loro, cercando di essere un buon genitore capace di comunicare con i figli. Forse adesso ho travato la definizione di eroe. “Eroe” è chi riesce a essere semplice con le persone, colui che fa lavori umili che rendono migliore la vita della comunità. Quel che conta è il recupero della semplicità, lo smarcamento dal materialismo».

Eppure è sempre più vero che le rockstar non vivono con i piedi per terra. Tournè, alberghi di lusso e party mondani. Per la Smith, però, la dimensione della comunità rock’n’roll sembra essersi fermata agli anni Sessanta. «Non penso di vivere sotto una campana di cristallo, sono una persona semplice, ma dalla mente complessa. Non giro con pullman lussuosi, circondata da bodyguard come una popstar, io vivo normalmente. Mi accontento delle piccole cose, di comunicare e condividere quello che provo con il mio pubblico, senza dimenticare che tutti abbiamo una sfera personale dove nessuno può entrare». Questo è il messaggio di fondo del film di Sebring, il regista che ha seguito Patti per 12 anni riprendendola fin dentro casa, alle prese con il suo pantheon personale fatto di famiglia, Rimbaud, Ginsberg, Dylan, Morrison, Hendrix e Coltrane. Ma il mondo che appare agli occhi di Patti Smith è un mondo che negli ultimi anni è andato alla deriva: «L'America negli ultimi dieci anni ha dato un pessimo esempio, con la propria ingordigia o con l'invasione dell'Iraq che è stata immorale quanto illegale – conclude la cantante, oggi 62 enne -; ora abbiamo eletto Barack Obama e ne sono contenta. Obama è molto intelligente, una persona di buon senso, ma non si può dimenticare che gli uomini hanno perso la loro semplicità rendendo il mondo stupido. Il nuovo presidente ha quindi bisogno dell’appoggio del popolo americano e della globalità intera. L’arte dovrebbe aiutarci in questo processo, ma c’è uno iato tra la semplicità e il materialismo che ci circonda». Detto da una donna semplice, che ha rinunciato ai lussi da rockstar, non può che essere d'esempio.


[francesco cremonesi]
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INTERVISTA

Gli italiani sequestrati all’estero

In Somalia le due religiose rapite 102 giorni fa sono state liberate. Suor Caterina Giraudo e Suor Maria Teresa Oliveroa, del movimento contemplativo “Charles de Foucault”, sono già ritornate nel villaggio dove da anni esercitano la loro missione. Ma c’è ancora attesa, in altre zone del mondo, per la sorte di altri italiani. Come Eugenio Vagni, cooperante toscano della Croce Rossa, rapito nelle Filippine il 14 gennaio scorso, insieme al locale Jean Lacaba e allo svizzero Andreas Notter. I tre sono stati prelevati a Tawau da un gruppo armato islamico attivo nell'area, presumibilmente l'Abu Sayyaf, vicino ad al Qaeda. Abbiamo raggiunto nelle Filippine padre Giovanni Sandalo, comboniano, superiore del Pime nelle Filippine, e collega di padre Giancarlo Bossi, rapito il 10 giugno 2007 e rilasciato nel luglio successivo. Padre Giovanni Sandalo prova a tracciare con noi un’analisi della situazione.

Ascolta l'intervista.


[alessia lucchese]
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INTEGRAZIONE

Asili, è polemica per il no ai figli degli irregolari

Risale a poco più di un anno fa la polemica che aveva infuocato gli animi degli italiani, in particolare al Comune di Milano, quando una mamma senza permesso di soggiorno si era vista respingere l’iscrizione della figlia alla scuola materna. Immediate le reazioni: accuse, dibattiti e una lunga battaglia giudiziaria che si risolse con l’accoglimento della domanda della donna, marocchina in attesa di regolarizzazione, e madre di una bambina nata in Italia. I suoi avvocati, Alberto Guariso e Livio Neri, avevano fatto leva sull’articolo 2 della Costituzione, che assegna agli stranieri gli stessi diritti inviolabili di cui godono gli italiani stessi, nonché la pari dignità sociale e l’uguaglianza dinanzi alla legge. Inoltre, aveva concluso il giudice Claudio Marangoni nella sua ordinanza: “Ogni limitazione è una discriminazione che deve essere cancellata perché viola la Costituzione, la Convenzione sui diritti del fanciullo e il decreto 286/98, Turco-Napolitano.
Ora la situazione è cambiata, grazie anche alla battaglia legale dello scorso anno, il nuovo regolamento per l’iscrizione alle scuole materne milanesi parla chiaro: porte aperte anche ai figli di immigrati clandestini.

A comunicarlo è l’assessorato alle Politiche Sociali del Comune di Milano, che, questi giorni, sta raccogliendo le domande di iscrizione per il prossimo anno, che, da una stima approssimativa, porteranno la presenza dei figli di irregolari da poche unità a circa un centinaio.
«Noi accogliamo le domande di tutti, chiaramente – ha commentato l’Assessore alla famiglia, scuola e politiche sociali del Comune di Milano –, come ha ordinato anche l’ordinanza del magistrato Marangoni lo scorso anno. Poi, sulla base delle domande raccolte, si stila una graduatoria di punteggio e ci si regola di conseguenza per l’ammissione. A mio avviso, la presenza massiccia di scuole materne sul territorio di Milano costituisce certamente un punto a nostro favore. In nessun altra parte d’Italia c’è una tale concentrazione come qui da noi».
«Questo – prosegue l’Assessore – costituisce certamente un luogo di integrazione, sia per le famiglie che per gli stessi bambini. Il servizio offre un sostegno notevole, dunque, e non si può negare che costituisca indubbiamente un passo in avanti verso una maggiore integrazione».

Accoglienza e integrazione, dunque, le parole principali adottate dal Comune, che ha deciso di spendere oltre un milione di euro nelle politiche di mediazione interculturale. Ultimo, in ordine di tempo, un progetto che punta al coinvolgimento degli stessi genitori i cui figli sono iscritti alle scuole materne, in un ottica di inserimento e di amalgamazione non dolo per i bambini, ma anche, e soprattutto, per le loro famiglie.


[viviana d'introno]
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AMLETO

Al Piccolo di Milano il dilemma dell’uomo moderno

«Il tema della morte è un tabù nella nostra società. Basti pensare ai dibattiti sul testamento biologico che invece di affrontare il problema reale, spostano l’attenzione dei cittadini aggrappandosi agli aspetti più futili». Il duro attacco di Sergio Escobar, direttore del Piccolo Teatro, trova rassicurazione nel lavoro di artisti come Pietro Carriglio, che ha offerto la propria creatività coordinando l’aspetto registico e scenico della rappresentazione di una nuova edizione di Amleto. Il capolavoro shakespeariano, appena conclusa la tappa genovese, si ferma a Milano da questa sera e ci terrà compagnia fino all’8 marzo. Questo Amleto è inevitabilmente impregnato di lutto: non solo a livello di azione scenica, ma anche «per quel che riguarda il tramonto del senso delle cose in un mondo ora dominato dalla finzione e dalla simulazione», come scrive Alessandro Serpieri, autore di una nuova traduzione del testo.

Il gruppo di attori si è imposto come obiettivo un lavoro simbiotico: la vicinanza anagrafica e il comune bagaglio di esperienze ha permesso ai componenti della compagnia del Teatro Biondo di Palermo, di collaborare con i colleghi del Teatro Stabile di Catania. Una compagnia che da tre anni lavora per valorizzare la propria terra d’origine esportandone i valori nelle altre regioni. Il legame indissolubile di Carriglio con la sua Sicilia è poi stato trasposto in una personale ricerca sulla vera struttura del teatro di Shakespeare, che Carriglio vorrebbe “incarnare” nella città di Palermo.

Infatti, il regista aveva presentato un progetto che avrebbe dovuto svolgersi nelle tre piazze che ruotano intorno al centro storico della città. Per problemi logistici ed economici la realizzazione si è arenata, ma «non ci arrendiamo, perché il nostro scopo è far sì che l’Unesco riconosca il centro storico di Palermo come patrimonio dell’umanità». La salvaguardia di aree urbane così ricche dal punto di vista storico e culturale è un messaggio che, secondo il regista, andrebbe esteso a tutto il nostro Paese, non solo per una questione di riassetto organico, ma soprattutto per il rispetto di tradizioni e testimonianze architettoniche. Il regista ripensa al Nos Milan, definendola una «sublime visione di Milano, un tentativo estremo di salvarla». Il teatro diventa così il mezzo per recuperare le nostre origini urbane e il Piccolo è e vuole essere il simbolo del legame con la città, per «un’economia della cultura, e non per una cultura dell’economia», come sottolinea Escobar, unendosi a Carriglio nella valorizzazione del ruolo sociale «dell’uomo di teatro che non sta chiuso nel teatro», ma che invece pone la propria arte al servizio della collettività.

Intanto l’Amleto di Carriglio viaggia e arriva allo Strehler in una veste nuova. Il regista ha affrontato questa tragedia più volte: già nel 1982 in We like Shakespeare rifletteva sulla crisi dell’uomo rinascimentale. La nuova lettura è stata sperimentata per la prima volta nel 2006 a Gibellina, in un suggestivo scenario: Amleto era di fronte ad un’enorme montagna di sale e la scalata del re incontrava a metà strada un violoncello. Metafisica e metafora musicale per spiegare l’uomo.

Per realizzare quest’ultima versione, Carriglio ha deciso di ripartire da zero, per arrivare ad una semplicità estrema. «Siamo ai confini del mondo, giunti ad un punto dal quale non si ritorna. È un’ u-topia, cioè un non-luogo. La pedana basculante sulla quale si muovono i protagonisti esprime appieno l’idea di sospensione, di un confine senza confini, di infinito». Tra gli interpreti, Galatea Ranzi, enfant prodige nella Mirra di Alfieri, Luciano Roman e Luca Lazzareschi, che ha parlato della complessità nella costruzione del personaggio. «Amleto vive di opposti, di contrasti. Bisogna “farselo amico” per riuscire ad entrare nella sua doppia follia, che lo porta a lottare con il mondo femminile e con se stesso. La sua pazzia è duplice, in parte reale e in parte distorta». L’Amleto di Cariglio è un antieroe moderno, in crisi con la propria anima e con il mondo, e che incede col passo tremulo di chi sta in equilibrio su un filo sospeso nel vuoto.


[vesna zujovic]
continua

RUSSIA

La cortina di ferro dell'informazione

La cortina di ferro si è alzata anni fa e oggi la Russia sta cercando di riconquistare un posto tra le grandi potenze mondiali. Eppure per quanto riguarda la libertà di stampa è ancora una delle nazioni più arretrate del globo, dove si continua a morire in nome di un’informazione senza condizionamenti. Perché? Il dossier di M@g prova a dare alcune risposte.

L'omicidio Markelov-Baburova


Il gelo sulla stampa russa


[michela nana] continua

ISRAELE

Vince Kadima: e il Paese si fa laico e nazionalista

«Più ansiosa e con meno speranze». Questo è il ritratto emotivo che Piergiorgio Grassi, docente di sociologia della cultura ebraica all’Università di Urbino, fa della società israeliana emersa dalle elezioni dello scorso dieci febbraio. «Comunque – spiega il professore – la situazione è fluida. Le politiche che Obama attuerà nel prossimo futuro potranno, di nuovo, stravolgere gli equilibri dell’opinione pubblica israeliana».

La maggioranza relativa dei seggi della Knesset va al partito di centro Kadima. Secondo Yossi Bar, corrispondente in Italia per il quotidiano israeliano Maariv,«questo risultato è una vittoria personale del ministro degli esteri uscente Tzipi Livni. Una donna pulita, con un passato impeccabile, che ha salvato il suo partito dallo scandalo sulla corruzione politica che ha coinvolto il primo ministro Ehud Olmert». Secondo Grassi «la leader di Kadima ha dato prova di grande abilità politica. Ricoprirà di certo un ruolo importante nella futura vita pubblica del suo paese. Ma, di certo, non ha il carisma di Golda Meir e Ariel Sharon». In passato, la figura di un leader forte è risultata fondamentale per far accettare al popolo d’Israele delle decisioni dolorose, ma indispensabili, per la prosecuzione del processo di pace.

In generale si registra un ampio slittamento a destra dell’opinione pubblica. Il Likud di Benjamin Netanyahu ha perso solo per un seggio il confronto con Kadima. Mentre il partito Laburista, che con Ben Gurion e Isaac Rabin guidò il popolo israeliano verso l’indipendenza, oggi è solo la quarta forza del Paese. «In realtà – spiega Grassi – questo fenomeno è iniziato dal 2001. La società israeliana è rimasta delusa dalla politica di pace sbandierata, ma mai attuata, della coalizione di centro sinistra». Per Yossi Bar la destra ha vinto grazie al suo programma elettorale per la sicurezza. «Comunque – continua il giornalista – le passate esperienze di Netanyahu al potere sono state piuttosto deludenti». Ma la vera novità di queste elezioni è stata l’affermazione di Israel Beitenu (“Israele Casa Nostra”): il partito, guidato da Avigdor Liberman, che ha presentato all’opinione pubblica un programma elettorale laico e ostile agli arabi israeliani. La destra unita avrebbe i numeri per governare «ma – spiega Yossi Bar – Netanyahu, oltre che con Israel Beitenu, dovrebbe allearsi anche con i religiosi che andrebbero a scontrarsi contro le idee laiche di Liberman. Ricordiamoci che alcune proposte di legge indispensabili per uno stato laico, come quella per il riconoscimento della validità del matrimonio civile, alla Knesset non sono mai passate».

Inoltre il risultato di Israel Beitenu dimostra che in Israele il problema degli arabi con il passaporto israeliano è ancora aperto. In passato, alcuni dei loro rappresentanti hanno più volte denunciato l’esistenza di un atteggiamento discriminatorio che il resto del Paese avrebbe nei loro confronti. Secondo Grassi «il leader di Israel Beitenu esprime con forza una posizione che nel paese ebraico è stata sempre presente». Gli arabi israeliani rappresentano il 22% della popolazione. Di questi la metà, non partecipando alle elezioni, ha scelto di esercitare una forma di dissidenza passiva verso quello che, a tutti gli effetti, è il loro Paese. Ma quello che spaventa veramente gli israeliani è l’alto tasso di natalità dei loro concittadini di etnia araba. Nel 2020 il 30% dei cittadini israeliani con meno di 14 anni sarà arabo. Il popolo di Sion teme una futura islamizzazione del suo stato.

Il successo di Liberman ci mostra la nuova faccia che Israele sta assumendo, soprattutto grazie ai suoi cittadini più giovani: una generazione laica, occidentale e poco sensibile verso i classici ideali sionisti.«Telaviv – spiega il professore –è una metropoli in tutto e per tutto anglosassone: esprime appieno le motivazioni e le aspirazioni della gioventù israeliana». Nazionalista, laica e liberista: sembra questo il futuro della terra di Sion. Ma il disincanto e lo spirito pragmatico di questa nuova generazione, se ben gestita e indirizzata da leader politici capaci, potrebbe anche portare a un’accelerazione del processo di pace.

La possibilità di un accordo tra Israel Beitenu e Kadima non è da escludersi. D’altronde la Livni, durante la campagna elettorale, ha esortato gli arabi israeliani a cercare la loro realizzazione personale nel futuro stato palestinese. Inoltre, in un’alleanza con le forze di centro, Liberman non troverebbe particolari difficoltà nell’attuare il suo programma laico. Quindi gli scenari possibili per il futuro governo israeliano sono ancora tutti aperti. Ma Yossi Bar chiede al suo paese di guardare oltre i suoi confini e di capire che, dopo l’elezione di Obama, il mondo sta cambiando e che, se vuole sopravvivere, anche Israele deve cambiare.


[andrea torrente]
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POLITICA

Pd, fine di una lunga agonia?

14 ottobre 2007: Walter Veltroni viene “incoronato” leader del Partito Democratico con oltre il 76 per cento dei voti dei simpatizzanti del neonato soggetto politico. 17 febbraio 2009: Walter Veltroni lascia la guida del partito all'indomani della pesante sconfitta patita nelle elezioni regionali in Sardegna. Sono passati solo 16 mesi dal trionfo delle primarie e sembra passata una vita. Mesi in cui il Partito Democratico è stato duramente battuto nelle consultazioni politiche dell'aprile 2008, si è trovato al centro di scandali giudiziari ma, soprattutto, è stato vittima di una gestione approssimativa e di profonde divisioni interne.

Una scelta sicuramente sofferta e dettata dalla serie di sconfitte senza soluzione di continuità del movimento nato dalle ceneri di Ds e Margherita. Nella consultazione dell'ottobre 2007 l'ex sindaco di Roma viene eletto segretario nazionale con oltre due milioni e 600mila voti, e da quel momento inizia la sua corsa verso la candidatura a Palazzo Chigi come sfidante dell'attuale premier Berlusconi. Sin da subito, però, emergono notevoli contrapposizioni tra l'ala diessina dei vari D'Alema e Bersani e quella d'ispirazione cattolica vicina a Rutelli e Fioroni. Dissapori che vengono il più delle volte sopiti ,o meglio “narcotizzati” da Veltroni, dal suo braccio destro Franceschini e dai loro adepti, sempre pronti a tappare i buchi in superficie, salvo poi lasciare in profondità crepe evidenti. É l'inizio di un calvario politico durato sino alle prime ore di oggi e a cui Veltroni e i suoi non sembravano voler rinunciare quasi masochisticamente.

Perché un partito nato tra mille aspettative si è quasi dissolto dopo pochi mesi? I “saggi” della politica italiana si interrogano, tant'è che nessuno nel loft di Piazza Sant'Anastasia è riuscito a trovare l'antidoto per fermare un'emorragia di voti che ha portato i democratici pericolosamente vicini alla soglia del venti per cento. Si sono fuse due anime profondamente diverse che rappresentavano fette di elettorato disomognee? Non si è fatta un'opposizione seria, lasciando all'Italia dei Valori dell'ex alleato Di Pietro il vessillo di baluardo della sinistra italiana? Quel che è certo è che l'ex sindaco di Roma e i suoi uomini hanno commesso una serie di errori evidenti in questi sedici mesi. Come dare il colpo di grazia al governo Prodi, parlando di corsa solitaria proprio quando il Professore si impegnava alacremente per tenere insieme i cocci di un vaso già rigato. Come “regalare” la capitale alla destra populista di Gianni Alemanno: Veltroni, infatti, era stato eletto contro lo stesso Alemanno solo due anni prima con il 61 per cento dei consensi. I romani evidentemente non devono aver gradito la sua fuga dal Campidoglio visto che, nella stessa giornata, hanno voltato le spalle al candidato del Pd Rutelli, votando invece in massa per l'esponente democratico Nicola Zingaretti alla presidenza della Provincia di Roma.

La scelta degli organismi dirigenti, poi, è apparsa ai più paradossale, rispetto al nome stesso del movimento politico. Si parlava tanto di decisioni prese dal basso con il coinvolgimento attivo della base ed invece l'assemblea costituente del Partito Democratico è stata eletta con il meccanismo delle liste bloccate, antidemocratico per eccellenza. Tutto ciò ha portato all'elezione di rappresentanti non all'altezza del ruolo loro assegnato, il cui unico merito era la vicinanza al leader e ai suoi portaborse. Per non parlare delle liste messe in campo nelle ultime elezioni politiche: poche personalità di spessore e tanti “yesman” pronti ad alzare la mano ad ogni richiesta del “lider maximo” e dei suoi rappresentanti a livello locale.

Proprio le elezioni dell’aprile 2008 avrebbero dovuto essere un campanello d'allarme per la dirigenza democratica, ma così non è stato perché, si disse all'epoca, “il partito è appena nato e comunque ha ottenuto il 33 per cento dei consensi”. Una percentuale ottenuta, però, raschiando a fondo il barile dei voti di sinistra, grazie al cosiddetto “voto utile”, come testimonia il mancato raggiungimento della soglia minima di elezione da parte di tutti i partiti riconducibili alla sinistra stessa. E non sfondando al centro, come invece sperava Walter Veltroni.

In questo anno e mezzo il Pd ha dimostrato più volte di non essere una forza di sinistra, disattendendo così le speranze e le attese di molti elettori che avevano fortemente creduto a questo progetto, e si è spaccato in correnti degne della vecchia Democrazia Cristiana a cui il Partito Democratico assomiglia sempre di più giorno dopo giorno. In Parlamento quasi mai si è opposto con vigore alle iniziative del governo Berlusconi, arrivando ad una pericolosa frattura con l'Idv.
Se a ciò si aggiungono un tesseramento dai contorni poco chiari e le tante inchieste in cui sono stati coinvolti esponenti di spicco del Partito Democratico, il gioco è fatto.
Nell'ultimo anno, l'elettorato ha più volte manifestato il suo disinteresse verso questo Partito Democratico, i cui esponenti sembrano più che altro preoccupati da logiche di potere. Basti pensare al cappotto nelle elezioni provinciali siciliane o al successo del Pdl nelle regionali abruzzesi. Fino a ieri, con la sconfitta di Renato Soru, una delle tante voci fuori dal coro negli ultimi mesi di vita del Pd.

Da oggi si apre una stagione decisiva per le sorti del partito che nei sogni di molti doveva essere la diretta emanazione del compromesso storico Moro-Berlinguer e che invece si è rivelato un soggetto politico distante anni luce dai problemi reali dell'attuale società italiana. Non basta “inglesizzare” tutto per essere attuali e al passo con i tempi, come Veltroni ha fatto in questi mesi (YouDem e YoungDem docet). C'è bisogno di una svolta seria che possa restituire fiducia agli elettori di sinistra e che possa dare all'attuale maggioranza un interlocutore con il quale confrontarsi nell'interesse del Paese.


[pierfrancesco loreto]
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DOSSIER

Qualcuno usa la Rete per andare a pesca di bambini

Alzi la mano chi non ha mai sentito parlare dei social network. Nel mondo attuale è praticamente impossibile ignorare questa nuova forma di aggregazione. Le «reti sociali» sono diventate il luogo privilegiato, seppur virtuale, in cui incontrarsi, fare amicizia e, per i più giovani, sfuggire al controllo dei genitori. Nulla di male fin qui, anzi. Recenti rapporti sulla pedopornografia mettono però in guardia: nel mare magnum del web nuotano anche molti squali.

Pedofilia e social network, il rischio è dietro l'angolo


Gli orchi scoprono Facebook

Chiacchiere virtuali, come ti socializzo via web


[tatiana donno - pierfrancesco loreto - daniela maggi] continua

PIANETA GIOVANI

Bullismo, il pericolo è generalizzare

Minorenni che maltrattano un disabile tra le mura scolastiche, ragazzine che aggrediscono le loro coetanee per rubare i cellulari. Casi come questi sono sempre più al centro della cronaca di giornali e tv. Subito tutti gridano al nuovo caso di bullismo, sempre più violento e sempre più pericoloso. Ma siamo sicuri che ognuno di questi episodi sia riconducibile al fenomeno del bullismo?

Matteo Lancini, professore incaricato di psicologia dell’adolescenza, presso l’università Bicocca di Milano, non accetta questa generalizzazione e lancia un messaggio ben preciso: «Serve molta attenzione. Il bullismo è un fenomeno ben definito. Si può parlare di bullismo solo quando siamo in presenza di un’azione aggressiva ripetuta nel tempo, in cui i soggetti coinvolti ricoprono sempre lo stesso ruolo: chi il “carnefice” e chi la “vittima”». Non si può, quindi, identificare ogni atto violento come bullismo: «È importante capire questa differenza - continua il professor Lancini - altrimenti si corre un serio pericolo educativo. Il bullo, di per sé, non è un delinquente».

Con queste parole, però, Lancini non vuole minimizzare un fenomeno preoccupante, da tenere sotto stretta osservazione. Dagli ultimi dati, forniti dall’ottavo rapporto nazionale sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza, emerge che il 35,6% degli adolescenti è vittima di provocazioni e prese in giro. Gli episodi di bullismo si verificano soprattutto negli ambienti in cui i giovani si ritrovano. Luogo classico in cui si riscontrano molti casi di aggressività tra adolescenti è la scuola. «Per questo ribadisco che il bullismo pone un problema educativo molto forte - insiste Lancini -. Il bullismo è espressione di un disagio sociale del bullo, che cerca il successo attraverso l’aggressività verso i più deboli».

Negli ultimi anni si è assistito a un cambiamento di modelli. Da fenomeno prevalentemente maschile, il bullismo ha iniziato a diffondersi anche nel mondo femminile. Il professor Lancini precisa: «Rimangono comunque delle differenze tra i due tipi di bullismo. Mentre, infatti, i maschi tendono ad agire attraverso un’azione diretta, come ad esempio i maltrattamenti fisici, le ragazze attuano un bullismo indiretto, fatto di pettegolezzi e di isolamento della vittima dal gruppo».

Si è portati a pensare che il dilagare di questo fenomeno sia dovuto in parte alle dipendenze del mondo giovanile. Videogiochi, alcool, droga spingono all’isolamento e aumentano l’aggressività. Il professor Lancini, però, suggerisce di non credere a conclusioni affrettate: «I dati su un possibile legame tra abuso di videogiochi o di altre sostanze e il bullismo sono incerti. Non si può negare che la dipendenza da sostanze produca effetti negativi, così come bisogna ammettere che Internet ha favorito la nascita di una nuova tipologia di bullismo, il cosiddetto cyberbullismo. Di certo, però, il fenomeno del bullismo non è nato con queste problematiche».

Ma come si può affrontare un fenomeno così complesso? «Proprio perché è un problema legato alla crescita degli adolescenti, le famiglie rivestono un ruolo fondamentale» dice il professor Lancini. «Da membro dell’Osservatorio regionale della Lombardia sul bullismo, credo sia molto importante l’alleanza scuola-famiglia proposta nel patto educativo dell’Osservatorio. Molto spesso, i genitori delegano alla scuola alcune loro funzioni. Ma di fronte al bullismo è necessario che scuola e famiglia operino insieme sul ragazzo, per fornirgli una risposta sistemica e coordinata alla sua situazione»


[daniela maggi]
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REPORTER SENZA FRONTIERE

Corea del Nord, prove tecniche di persecuzione

È drammatico il bilancio di Reporters sans frontières sulla situazione nord coreana. Una nazione che si presenta nella peggiore posizione, secondo la classifica mondiale che monitora la libertà di stampa internazionale. È infatti all’ultimo posto per i parametri che valutano le condizioni d’indipendenza espressiva. Una condizione di completo isolamento, che le forze di sicurezza locali riescono a mantenere. Qualsiasi atto contrario al regime viene punito in maniera brutale. Si arriva a casi estremi, come quello di un responsabile di un’impresa di Stato, fucilato nel 2007 per aver effettuato delle telefonate all’estero senza autorizzazione.

Lo stesso anno è ricordato per la nascita del primo periodico realizzato da una decina di giornalisti clandestini formatisi in Cina che, in collaborazione con un’agenzia di stampa giapponese ha promesso di pubblicare informazioni inedite sulla situazione politica, sociale ed economica. I giornalisti, rientrati in seguito nel Paese, hanno poi cercato di provvedere alla distribuzione del magazine, in maniera faticosa e sempre nella clandestinità. Per quanto riguarda la situazione radiofonica, diverse postazioni con base oltre confine hanno provato a potenziare il raggio di frequenza, ma alcune hanno incontrato immediatamente la repressione delle forze governative. Free North Korea Radio, Voice of America, Open Radio for North Korea, Radio Free Asia e Radio Free Chosun: tutte queste radio, indipendenti e dissidenti, hanno subìto l’interruzione delle trasmissioni.

L’accentramento del controllo politico nelle mani di Kim Jong Il ha determinato la condanna di qualsiasi informazione straniera che miri a destabilizzare il regime. Attraverso la direzione del Partito dei lavoratori e il controllo delle forze di sicurezza continua la sua mobilitazione per impedire l’entrata sul territorio di videocassette, pubblicazioni, comunicazioni telefoniche e cd provenienti da altri Paesi che possano contaminare l’informazione nazionale. Un imprevisto di carattere tecnico ha fortunatamente permesso l’allentamento del controllo sulle radio: a causa della grave crisi energetica, negli ultimi mesi le autorità non avevano i mezzi per monitorare e offuscare le frequenze delle emittenti a diffusione su onde corte.

I media nazionali, quelli con il maggiore bacino di diffusione, sono totalmente sottoposti a controllo e censura: il quotidiano Rodong Shinmun, l’agenzia di stampa Korean Central News Agency e la televisione nazionale JoongAng Bang Song. Ogni giornalista è indottrinato per restituire in maniera fedele l’ideologia del regime e denunciare il sistema occidentale, definito “borghese e imperialista” dai portavoce ufficiali di regime. I dissidenti sono puniti severamente: basti ricordare la drammatica vicenda dei “campi di reclusione forzata”, dove il giornalista colpevole anche di un solo errore di ortografia viene internato e costretto a “purificare” il proprio stile. In Nord Corea esistono ancora due tipi di gulag, che sopravvivono nel silenzio e nell’indifferenza del sistema politico internazionale: i kwan-li-so, colonie penali per i dissidenti politici dove avvengono i fatti più atroci; e i kyo-hwa-so, i campi di rieducazione temporanea. Song Keum-chul, della televisione di Stato, venne confinato in uno di questi veri e propri campi di concentramento nel 1995, per aver costituito e coordinato un piccolo gruppo di giornalisti che facevano dell’indipendenza e della libera critica le prerogative nella loro professione di informatori.

I media occidentali non stanno dando sufficiente spazio al dramma nordcoreano: tra le poche pubblicazioni di testimonianze esistenti bisogna ricordare quella dello storico e giornalista francese Pierre Rigoulet che, nel suo libro L’ultimo Gulag. La tragedia di un sopravvissuto all’inferno della Corea del Nord, riporta il racconto di uno dei superstiti. La propaganda mediatica di regime ha diffuso sul web un film biografico sul dittatore coreano, che lo presenta come “il rivoluzionario dei media popolari” e l’ispiratore dei giornalisti in uno dei rari siti Internet favorevoli al regime nord-coreano. Scorrono le sue immagini in visita alle redazioni mentre dà ordini ai redattori, corregge gli editoriali ed esprime la propria opinione sulla scelta di articoli e fotografie. La voce della radio sotto il controllo del regime diffonde con entusiasmo le iniziative del Partito, definendo la nazione “trionfante” sotto la guida di Kim Jong Il.

La presenza di media esteri in territorio nord-coreano è ridotta al minimo: sono meno di una dozzina gli organi d’informazione stranieri presenti, soprattutto cinesi. I giornalisti che hanno ottenuto un visto nel 2007 sono sempre stati sorvegliati da guide ufficiali, in un clima di costante tensione e controllo psicologico e professionale.

L’ideologia politica della Juche nordcoreana si basa sul pilastro dell’autosufficienza politica ed economica, legandosi in questo modo ad una soffocante chiusura che impedisce il confronto e l’arricchimento sociale e culturale con le realtà degli altri Paesi, attraverso una rigida pianificazione centrale e una politica di estremo isolazionismo. Nell’ultimo rapporto annuale, anche Amnesty ritiene la Corea del Nord una delle peggiori nazioni al mondo riguardo alla tutela dei diritti umani e al rispetto delle libertà fondamentali.


[vesna zujovic]
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MEDIA E POLITICA

Il Dragone cinese conquista il globo a suon di propaganda

Strillare la retorica, di qualcosa o qualcuno, è un concetto che la storia ha largamente illustrato con la stagione dei grandi totalitarismi del Novecento, ma che sembra essere stata dimenticata da opinionisti illustri alla vigilia dell’annuncio della nuova rivoluzione mediatica cinese: 5 miliardi di euro di investimento per inaugurare una nuova emittente tv 24 ore su 24, stile Cnn o Bcc. Insomma reti all-news di propaganda di regime che abbracciano il globo intero. Questi toni possono rimandare alla memoria di apocalittiche visioni orwelliane, ma l’alba del Big Brother cinese sembra essere alle porte.

I tre grandi gruppi editoriali del dragone, la Central China Television, l’agenzia Xinhua e il gruppo editoriale del Quotidiano del popolo sono letteralmente scatenati sul fronte degli investimenti. Tra le novità della scalata mediatica c’è l’inserimento di canali e trasmissioni multi-linguistiche, dal russo all’arabo, andando così a collocarsi come diretto competitor con network come Al-Jazeera. L’ambizione del colosso asiatico è chiaramente quella di incrementare il bacino di utenza, fissato oggi a circa 84 milioni, in oltre 130 paesi. Ma è bene che la malizia dell’osservatore fondi le proprie preoccupazione a partire proprio da questi dati.

È chiaro che agli occhi delle società occidentali, la Cina necessiti di un buon intervento di maquillage mediatico. La questione tibetana, sebbene già dimenticata dalle bandiere del pacifismo europeo, così come l’avventura olimpica o l’ignoranza perpetua dei diritti umani, hanno lasciato un segno indelebile nel recente passato cinese e, certamente, il prezzo opinionistico pagato non è stato irrisorio. Serve dunque un colpo di ramazza e una bella spolverata per riqualificare a livello globale l’immagine del partito E cosa può essere migliore di una bella e globalizzante invasione del mercato mediatico? Non informazione dunque, bensì un’iniezione di propaganda diretta a illudere il pianeta. Già, perché non si tratta di una diffusione cinese destinata solo ai cinesi: la campagna di assunzioni dei network chiede solo giornalisti anglofoni. Non è detto, a priori, che l’operazione riuscirà, ma è sicuro che i cinesi ci stanno provando. E non è tutto: c’è un altro elemento che deve indurre il cittadino occidentale, se non a dubitare, quantomeno a interrogarsi. Nel corso della storia cinese questo è il primo vero adeguamento al sistema mediatico globale dopo la rivoluzione culturale di Mao. Ciò che è successo dopo è cosa arcinota. Non che ci ritroveremo ad apprendere surrogati del libretto rosso via satellite, ma bisogna prestare grande attenzione, senza cadenzare marce funebri anticipate, ma nemmeno suonando inni trionfalistici.

«L’intervento cinese consiste nel tentativo di modernizzare l’apparato mediatico nazionale che è gigantesco. Il paragone più calzante per comprenderne le dimensioni è quello della Bbc, un’organizzazione articolata con corrispondenti e collaboratori dappertutto e grosse risorse finanziarie». Lo spiega Beniamino Natale, direttore di Ansa Cina da Pechino. «L’operazione è enorme ma dubito che questi media riescano a sfondare nel mercato internazionale, perché si tratta di un sistema più di propaganda che di informazione. Difficilmente potranno competere sul mercato internazionale con realtà, come appunto la Bbc, che si muovono con molta più agilità. È un’iniziativa che suppongo sarà rivolta ai cinesi. È inutile parlare di informazione, perché tutto ciò che esce dalla Cina è super controllato». Che si rivolga ai cinesi o meno, la realtà ci pone comunque davanti all’ennesimo caso di uso moralmente discutibile dell’informazione. Che Joseph Goebbels sia ormai un orrido ricordo è cosa certa, ma attenzione a sottovalutare l’eredità lasciata dal ministero della propaganda.


[francesco cremonesi]
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CALCIO GIOVANILE

Difendiamo il made in Italy nel mondo del pallone

Il calcio moderno, almeno quello della serie A, si allontana sempre di più dal mondo dello sport per abbracciare quello del business. Gli assegni multimiliardari che i presidenti delle grandi società staccano per assicurarsi le prestazioni dei migliori talenti stranieri sono la prova di questa tendenza. Intanto, nelle serie minori piccoli talenti crescono e spesso sono costretti ad emigrare per poter tirare dei calci a un pallone. Viaggio nelle realtà del calcio giovanile con il dossier di M@g.

1. Vivai del calcio, l'Italia non fa goal


2. AAA Calciatori Capaci Cercansi

3. Brescia-calcio: più che una società, una fucina di talenti

4. Viareggio calcio, è primavera




[fabio di todaro - alessia scurati - cesare zanotto] continua

MERCATO DEL LAVORO

Flessibilità: se non è croce è (quasi) delizia

Secondo l’articolo 4 della nostra Costituzione, «la Repubblica riconosce a tutti cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto». Oggi, però, la flessibilità e il precariato minano la stabilità di questo diritto. Dei cambiamenti e delle problematiche del lavoro si è discusso durante il dibattito Precario, flessibile, sicuro: il lavoro che cambia,. tenutosi presso il Piccolo teatro studio di Milano, con gli interventi del giornalista Gad Lerner, del giurista del lavoro Michele Tiraboschi e dell’autrice e conduttrice culturale Giovanna Zucconi.

Nonostante la grave crisi economica mondiale, il professor Tiraboschi si dice ottimista circa la situazione lavorativa nel nostro Paese: «I dati possono spaventare perché in Italia, su 60 milioni di cittadini, solo 23 milioni sono attivi nel mondo del lavoro. Circa il 40-45% di coloro che sono in età lavorativa, infatti, o non lavorano o sono in nero. Detto questo, però, bisogna sottolineare che in Italia il lavoro non manca. Il problema è che i giovani inseguono un tipo di occupazione che il nostro mercato non domanda. Negli ultimi anni si è assistito a un boom delle facoltà umanistiche e di scienze della comunicazione, mentre le aziende ricercano altri profili come infermieri, operai specializzati e ingegneri». Insomma, i giovani dovrebbero studiare in base a quello che il mercato offre e non in base alle loro passioni e capacità.

Non si può dimenticare, però, che in Italia la crisi economica ha finito per aumentare il già numeroso esercito di coloro che sono in cerca di occupazione. A causa della recessione, infatti, non sono stati rinnovati molti dei contratti a termine in scadenza. Così, un gran numero di persone si sono scoperte disoccupate da un giorno all’altro. È doveroso, quindi, interrogarsi sulla bontà e sull’utilità del sistema di lavoro basato sulla flessibilità.

Per Gad Lerner «la flessibilità è stata spacciata come la panacea di tutti i mali, alla stregua di una grande virtù. In realtà, siamo di fronte a una situazione ribaltata rispetto al passato, quando la migliore qualità era l’inflessibilità. Oggi si ha la pretesa ideologica di plasmare l’uomo modificando la sua stessa indole, che è di natura stabile».

Di tutt’altro avviso Tiraboschi: «Non so se la flessibilità sia o meno un valore. So che è un modello di occupazione che permette a un gran numero di disoccupati di affacciarsi al mondo del lavoro per la prima volta. È il primo passo verso un contratto a tempo indeterminato. Nonostante questo gran parlare intorno al tempo determinato, ancora oggi l’83% dei contratti è a tempo indeterminato. La vera anomalia italiana è che i giovani entrano nel mondo del lavoro intorno ai 30-32 anni e il vero problema è la diffusione del lavoro sommerso».

In effetti, nell’indagine del Cnel dal titolo Il lavoro che cambia. Contributi tematici e raccomandazioni, presentata il 2 febbraio a Roma, si evidenzia come il lavoro nero sia un fenomeno in lenta ma costante crescita, che si diversifica nelle varie regioni in base al contesto socio-economico. Il lavoro nero aumenta con l’aumentare della disoccupazione e conseguentemente si concentra nel Mezzogiorno. Le condizioni peggiori colpiscono immigrati, donne e giovani.

Nell’indagine Cnel emergono i vari problemi che attanagliano il nostro mercato del lavoro. L’Italia è il paese che tra il 1990 e il 2005 ha registrato l’incremento più marcato dell’incidenza dei lavori temporanei sull’occupazione dipendente. Dalle ricerche effettuate, si scopre che molti lavoratori temporanei rimangono più di un anno in queste condizioni, senza avere la possibilità di sperare in un contratto indeterminato. Nei casi in cui si verifica la conversione da contratti temporanei a permanenti, essa è più frequente per i giovani.

Altro nodo da sciogliere rimane il differente trattamento riservato alle donne lavoratrici, che faticano a raggiungere posizioni direzionali e che, a parità di ruolo, ricevono una paga più bassa rispetto agli uomini. Ancora troppe sono le donne costrette a sacrificare il lavoro in nome della famiglia e dei figli. Il problema più evidente rimane l’inadeguatezza degli stipendi rispetto all’aumento dell’inflazione e del costo della vita.


[daniela maggi]
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NUOVI PROGETTI

Il futuro si chiama innovazione

Da questo mese nasce la nuova piattaforma editoriale promossa dal Polo tecnologico di Novacchio: rivista, sito web e convegni per parlare dell’Italia e dei suoi cambiamenti imprenditoriali. Al Circolo della stampa, Alessandro Giari, Presidente del Polo tecnologico, e Emil Abirascid, giornalista e editore, hanno presentato la loro nuova avventura: Innovazione. Un nuovo magazine, bimestrale, con 5.000 copie di tiratura, disponibile sia in formato cartaceo sia sotto forma di sito web, con blog annesso, e che garantisce un continuo aggiornamento dei lettori fra un numero e l’altro.

«L’Italia è un Paese che ha difficoltà a fare sistema, sebbene la qualità e l’eccellenza siano presenti. Appare evidente che vi è la mancanza di una cooperazione organica fra i diversi soggetti del mercato» sottolinea Giari. Da qui la volontà di far emergere i nuovi scenari di competitività presenti su tutto il territorio. Innovazione vuole essere uno strumento per creare delle catene di rapporti fra micro imprese innovative, le start up, e mercato. Da sole le start up non riuscirebbero a sbocciare e a conquistare i mercati nazionali ed internazionali. Devono poter contare su un partner industriale, per potere acquisire nuove competenze, accelerare il debutto sul mercato e disporre di risorse economiche. «Serve che tutti gli attori dell’ecosistema dell’innovazione – sottolinea Abirascid – possano confrontarsi ed esprimere il loro punto di vista».

Il nuovo magazine nasce per dare voce a questo mondo, per accrescere l’attenzione attorno a chi in tutto il Paese si impegna per far sì che le nuove idee si sviluppino e diventino elemento fondamentale per la nostra economia. Per ridurre ed ottimizzare costi e risorse non è stato previsto un numero zero. Inoltre, si è scelto di usare strumenti multimediali per raggiungere i diversi target di lettori. Sul sito sono disponibili numerose risorse: la rivista in pdf liberamente consultabile e scaricabile e la possibilità di dialogare con la redazione per condividere commenti, suggerimenti ed osservazioni. Il bimestrale cartaceo verrà distribuito gratuitamente ai soggetti iscritti in una mailing list e che fanno parte del mondo finanziario, accademico, imprenditoriale ed istituzionale. I promotori hanno ricordato l’iniziale volontà di auto sostenersi, sollecitando, col tempo, gli inserzionisti pubblicitari e le istituzioni interessate a finanziare il progetto.

Infine, al via, a fine mese, un ciclo di incontri a scadenza bimestrale che toccherà molti dei Parchi scientifici e tecnologici presenti sul territorio, per dargli visibilità a livello nazionale, riuscendo a collegare tutto il nostro Paese. Questi appuntamenti propongono il dialogo diretto delle start up con le istituzioni, la finanza, l’accademia e l’industria per mettere in luce problemi e soluzioni e sviluppare azioni costruttive e vantaggiose. Vedremo se questa ambiziosa sfida riuscirà a dare i risultati sperati.


[tatiana donno]
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PAMPHLET

L’Occidente sul banco di prova

Ma la cultura alta serve ancora a qualcosa? Detta così suonerebbe come la solita provocazione radical chic per abbattere il fronte dell’uomo comune, eppure è palese che le chiare, fresche e dolci acque sono un miraggio nel mare delle conoscenze. Tutto viene etichettato come cultura: la categoria del giudizio estetico di kantiana memoria è dimenticata in cantina e l’autonomia scolastica si prende il lusso di poter lesinare l’insegnamento di Dante o accennare, in fretta e furia, al Manzoni. La cultura occidentale sembra quindi aver contratto la sindrome di Tafazzi. Grazie al cielo, le voci controcorrente non mancano e, anche se con toni pamphlettistici, i David della haute couture occidentali non rinunciano a sfidare i Golia della cultura del relativismo di massa. Il filosofo Roger Scruton è uno di questi e il suo saggio edito da Vita e Pensiero, La cultura conta. Fede e sentimento in un mondo sotto assedio, è un buon modo per superare le barriere del relativismo culturale che ci affligge dalla seconda metà del Novecento.

«Il volumetto di Scruton rappresenta una posizione in chiara controtendenza rispetto ai tempi – commenta Ernesto Galli della Loggia, editorialista del Corriere della sera e ordinario di Storia contemporanea all’Università Vita Salute San Raffaele – . È chiaro che l’occidente sta vivendo un momento di crisi cruciale, un vero e proprio passaggio di era segnato dal blocco dell’autoriproduzione biologica e culturale. Una volta si nasceva e, naturalmente, i giovani crescevano nel solco della tradizione. Oggi tutto questo non avviene più, mentre l’attenzione è calamitata dal credo nelle competenze e non più nelle conoscenze. Di fatto occorre rivalutare la suddivisione in categorie dei conservatori e progressisti, sfatando il paradosso del “conservatore progressista”». Il contenuto contro la competenza, il risveglio delle categorie della critica estetica e l’abbandono delle origini cristiane sono i punti che il professore Galli della Loggia sposa nel libro di Scruton. Difficile capire se la crisi sia irreversibile o consista nel tragico declino dell’occidente.

«La partita si gioca sui principi morali. Doveroso sarà fondare criteri di giudizio basati sull’esperienza dei grandi saggi dell’antichità perché il fondamento della cultura è il classico», dice Galli della Loggia. Che prosegue: «Dico questo perché il ruolo della cultura è quello di portare i giovani fuori dalla giovinezza, un vero e proprio imperativo di oggi». Bamboccioni, mammoni e chi più ne ha ne metta, il problema è questo. Il punto è capire il valore di una vita vissuta all’ombra di imperativi morali che debbano prendere il giovane per mano e farlo uomo. È questo che deve accadere per uscire dall’ombra devastante del nichilismo postmoderno. Una buona ancora di salvezza suggerita da Scruton è l’abbattimento della visione “buonista” del panorama culturale, ovvero la cacciata della paura di giudizio. L’imperativo relativista che chiosa «tutto è cultura», deve essere demistificato a partire dalla ricchezza della Critica della ragion pratica di Kant.

Per comprendere questo passaggio, cruciale e complesso, Scruton si serve dell’esempio del riso. Prima di sorridere, dopo aver udito un motto di spirito, inconsciamente giudichiamo se la battuta propinataci sia meritevole delle nostre risate. Ebbene, nella valutazione culturale il procedimento deve essere analogo. Vale a dire, fuori dall’analogia: non è in seno a un fantomatico multiculturalismo passivo che l’occidente produce cultura. Anzi, il motto “tutto è cultura” soppianta picchi di saggezza inarrivabili per qualcosa di informe e poco chiaro ai nostri occhi. Prima che sia troppo tardi, non sarebbe male riprendere a leggere quei vecchi libri coperti di polvere. Montag, il pompiere antitetico di Fahrenheit 451 (nel futuro distopico ipotizzato da Bradbury il compito dei pompieri è appiccare roghi e non spegnerli), fu costretto a imparare i classici a memoria per tramandarne il patrimonio: vediamo di non fare la stessa fine.

[francesco cremonesi]
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CASI EDITORIALI

Il volo del precario, dal supermercato alle lettere

«Buongiorno, ha la carta fedeltà?». Bip, bip, bip, bip. «Bancomat o carta di credito?». Quante volte ci sono state rivolte queste parole una volta giunti alla cassa di un supermercato? Una miriade. Tanto da non farci più caso. Il passaggio alla cassa è ormai un momento spersonalizzante al quale non badiamo nemmeno più. O la cassiera è tanto bella da rapire l’attenzione, altrimenti si potrebbe tranquillamente mettere una macchina automatica come al casello autostradale. Eppure c’è chi ci insegna il contrario. Dalla cassa di un supermercato passa ogni stereotipo della società occidentale in tutte le sue variegate manifestazioni. Anna Sam, 29enne francese con una laurea in lettere, ha provato a raccogliere in un libro la sua vita alla cassa di un supermercato, Le tribolazioni di una cassiera pubblicato in Italia da Corbaccio. Il risultato è stato un bestseller del passaparola che in Francia ha spopolato nelle librerie. Mag ha incontrato Anna Sam a Milano. Il libro non è però che un punto di arrivo per la neo scrittrice francese. L’avventura è iniziata con l’apertura di un blog, dai cui contenuti è stato ricavato il volume edito da Corbaccio.

Ma che senso ha raccogliere le peripezie impiegatizie di una lavoratrice precaria? Risponde Anna Sam: «Innanzi tutto perché nessuno prima lo aveva mai fatto. Tuttavia l’idea è maturata quando al termine del lavoro rientravo a casa e iniziavo a raccontare quanto mi era accaduto durante la giornata. Così ho pensato che sarebbe stato bello poter raccogliere tutte queste esperienze. All’inizio non sapevo se avessi il talento necessario per potermi cimentare nell’impresa, così ho iniziato a scrivere le mie “memorie” in un blog per vedere se a qualcuno potevano interessare queste storie. Dal blog è nato il libro: un tentativo di raccontare un lavoro che spesso viene visto come un sottomestiere». Ma se il blog è un medium immediato e pratico, il libro potrebbe essere un mezzo eccessivamente ingessato nella trattazione di argomenti all’apparenza così frivoli. «Blog e libro sono media completamente differenti che non giungono agli stessi lettori – spiega Anna Sam -. Quelli finiti sul blog sono testi molto meno elaborati, perché è specifica di questo mezzo l’immediatezza, mentre il libro permette di poter approfondire maggiormente gli stessi argomenti».

Difficile trovare una collocazione al libro della Sam: non si può dire che si tratti di un’opera letteraria, ma quel che è certo è la sottile ironia con cui Anna affronta questa fenomenologia dello spirito della cassa. Eppure il tema del precariato e dei lavori definiti "poco gratificanti" ha dato vita a opere di vera denuncia sociale. Tutta la vita davanti, il film di Paolo Virzì sull’occupazione nei call center, è solo un esempio recente della nostra produzione nazionale. Ma Anna Sam è rassicurante a riguardo: «No, il mio libro non è una denuncia sociale, piuttosto parlerei di descrizione. Senza dubbio in alcuni punti ho usato un linguaggio satirico e ironico per alleggerire la lettura. Ma deve essere chiaro che non è mia intenzione puntare il dito contro le persone e dire loro che stanno sbagliando tutto». Il fenomeno delle cassiere artiste non è una novità in Italia, anzi. Probabilmente uno dei punti di forza che porterà questo libro a vendere un discreto numero di copie è la somiglianza con il caso discografico di Giusy Ferreri, la cassiera di Abbiategrasso che, lanciata dal programma di Raidue X Factor ha scalato le classifiche. Insomma, dietro al cuore velato da carte fedeltà e scontrini, si cela un’anima da artista: «Ognuno di noi a prescindere dal proprio lavoro ha un talento. La cosa sorprendente è che, di punto in bianco, si può finire sotto le luci della ribalta e trovarsi con uno stuolo di fan e ammiratori – spiega Anna Sam -. Per questo io penso che è sempre meglio essere gentili e simpatici con tutti, non si sa mai che qualcuno diventi famoso: potresti ritrovarti come soggetto per un libro o una canzone! Il messaggio che voglio lanciare è questo: anche chi fa lavoro minori è lecito che nutra buone dosi di speranza».

In fondo la cassa di un supermercato è romantica come il porto di Marsiglia, con i suoi segreti e le sue storie di amanti e avventurieri. In tanti ci passano e altrettanti vi lasciano il segno con improbabili dichiarazioni d’amore alle cassiere o interminabili telefonate a voce alta in cui si discutono i gusti sessuali dei propri partner. E Anna Sam ci racconta tutto ciò dentro al suo libro, come fosse un trattato di fenomenologia del comportamento occidentale al supermercato visto dagli occhi indiscreti di una cassiera. Attenzione, dunque, perché, dietro quello che Anna definisce SBAM (Sorriso, Buongiorno, Arrivederci e Mille Grazie), «anche le cassiere anno occhi e orecchie».


[francesco cremonesi]
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SVILUPPO URBANO

Quell'aria metropolitana

Dal 19 al 25 febbraio, in piazza San Carlo a Milano, uno stand multimediale allestito dalla Provincia ospiterà la mostra itinerante Una città per tutti. Diamoci un’aria metropolitana. L’iniziativa illustrerà i progetti in atto e quelli in cantiere per la nascita della Città metropolitana, in vista della creazione ufficiale della provincia di Milano-Brianza, nel giugno prossimo. I 139 municipi della provincia milanese convergeranno infatti verso una gestione sovracomunale di alcuni servizi ai cittadini quali l’istruzione, le abitazioni, i trasporti, le strade, il verde pubblico, la comunicazione telematica e le infrastrutture per la competitività d’impresa. Il progetto “Città di Città” ha già avviato questo cammino, all’interno di sette “patti d’area” tematici nelle zone suburbane di Milano: Alto milanese, nord-ovest, nord Milano, Adda-Martesana, sud-est, sud-ovest, magentino-abbiatense.

Il principio base della mostra, inaugurata giovedì mattina, è la trasparenza e chiarezza ai cittadini: «Abbiamo scelto - dice l’assessore al programma strategico dell’Area Metropolitana Matteo Mauri - di incontrare le persone nelle strade e di non restare dentro ai palazzi, per spiegare a tutti nel modo più semplice possibile lo studio di Città metropolitana». Cinque le aree di intervento individuate dal progetto e illustrate nello stand. Per l’edilizia sociale e non, sono previste 60-100mila nuove abitazioni per il prossimo decennio, per una crescente domanda abitativa. Nel sociale ci sono poi le 229 scuole gestite, per 52 milioni e mezzo di euro di spesa; gli asili nido, che soddisfano il 20% del fabbisogno; le iniziative per il sostegno psicologico e l’assistenza alle ragazze madri, agli anziani, ai minori, ai disabili e alle famiglie in difficoltà. Prende corpo l’idea del Metrobosco: un anello ecologico formato a nord dalla “Dorsale verde” che va dal Ticino all’Adda collegando otto parchi locali e a sud dal parco agricolo, che occupa un terzo del territorio provinciale. Emerge il piano per la gestione dell’energia, con l’installazione di pannelli fotovoltaici nelle scuole e nelle piscine e lo smaltimento dei rifiuti, che per metà, nel 2009, saranno trattati con raccolta differenziata.

Per la viabilità verrà realizzata la Pedemontana, che attraverserà cinque province da Varese a Bergamo, ma verranno allungati anche i percorsi ciclabili intercomunali. Fra le infrastrutture volte a migliorare la competitività della regione, è stata impiantata dalla Provincia la rete a banda larga per collegare i propri uffici e i Comuni, ma soprattutto il Cantiere nuovo di via Soderini. Il nuovo polo di Bande Nere sarà uno spazio espositivo di 3.000 metri quadri, un “hub creativo” per le professioni del settore multimediale, editoria, moda e design. I giovani autori di idee imprenditoriali meritevoli riceveranno uno spazio fisico per la propria attività e un finanziamento di 30-40mila euro: finora ne hanno goduto 150 imprese, soprattutto spin-off dalle università.

«Meno temi, ma più poteri, è questa la filosofia che guiderà l’Area metropolitana, per raggiungere una maggiore efficienza», dice l’assessore Mauri. Che continua: «La politica dimentica che l’identità dei cittadini è molto legata al luogo in cui si abita. Spesso invece non siamo abbastanza orgogliosi di appartenere alla nostra provincia. Faremo qualcosa di importante solo se questi lavori prepareranno l’Expo e lasceranno qualcosa per gli anni successivi, aumentando l’orgoglio pubblico». Alla fine della mostra, il quizzone metropolitano “Ma dove vivi?” interrogherà i visitatori e chi ne saprà di più vincerà una bicicletta. Da sabato 28 agli altri comuni che ospiteranno la mostra, fino al 3 maggio, per una settimana ciascuno, saranno, nell’ordine: Cinisello Balsamo, Peschiera Borromeo, Cornaredo, Rozzano, Melzo, Busto Garolfo, Paderno Dugnano, Lainate e San Giuliano Milanese.


[daniele monaco]
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MILANO

La protezione civile salverà l’Expo

L’1 aprile 2008, la Moratti, Prodi e D’Alema trionfarono in quel di Parigi, convincendo il Bie che Milano fosse la città ideale per l’Expo 2015. Sembra ieri, quando i giornali e le tivù trasudavano parole di entusiasmo e di dichiarazioni entusiastiche dei politici. Ma è passato un anno: si sono succeduti due governi e Milano è stata invasa da convegni, conferenze e incontri pubblici. L’impressione generalizzata è quella di una grande nebulosa e nessuno riesce a vederci chiaro. Dopo la nomina del sindaco Moratti a commissario straordinario e lo stanziamento dei fondi previsti dalla Finanziaria, ancora poco è stato stabilito dal punto di vista decisionale. Da quest’estate continua il braccio di ferro tra Berlusconi e la Moratti sulla nomina di Paolo Glisenti a presidente del cda della società che gestirà l’esposizione e le ultime notizie danno proprio il braccio destro del sindaco in ritirata.

Nonostante tutto, Milano non vuole continuare a sprecare il poco tempo a disposizione. In quest’ ottica è stato organizzato il convegno Protezione del territorio verso l’Expo 2015: strategie e buone pratiche. Un incontro pubblico voluto dalla Provincia di Milano per riflettere su due temi fondamentali per l’Expo 2015: la difesa dei territori contro gli eventi naturali e la sicurezza e la qualità alimentare. Protagonisti, in questo senso, saranno i volontari della Protezione Civile, un vero e proprio esercito di migliaia di persone, organizzato in strutture operative dette Com (Centro Operativo Misto), che si impegneranno per garantire la sicurezza dei circa 30 milioni di visitatori che nei sei mesi dell’esposizione popoleranno la Lombardia. Un impegno che necessita di formazione e di coordinamento dei volontari, come afferma l’assessore regionale alla Protezione Civile Stefano Maullu: «Expo 2015 è una grande opportunità per fare quel salto di qualità definitivo, sia per il volontario che per tutte le strutture operative di Protezione Civile, oltre che un’occasione per reperire nuovi giovani volenterosi. L’enorme afflusso di persone rende necessario sviluppare azioni di prevenzione per garantire l’incolumità delle stesse. La formazione anche in questo caso come tutti gli altri sarà mirata e garantita dall’Alta scuola di protezione Civile di Regione Lombardia». Sono in cantiere già alcuni progetti, come il piano di emergenza esterno al polo fieristico di Rho-Pero: «Utilizzeremo le forze del volontariato come risorsa altamente specializzata per le attività legate ai grandi eventi. I volontari saranno consapevoli quindi di essere un punto di riferimento, una forza di interazione con il visitatore e con le altre strutture operative, di avere formazione linguistica adeguata e di analisi del rischio».

L’analisi del rischio è uno dei centri nevralgici della relazione illustrata da Maria Cristina Treu, ordinario di urbanistica del Politecnico di Milano. «La questione dell’Expo è molto complessa, non si può risolvere in pochi giorni. È necessario essere consci delle situazioni che potremo trovarci ad affrontare in quei sei mesi di esposizione. Dobbiamo elaborare delle strategie per intercettare i problemi quotidiani della grande metropoli». Un problema è sicuramente rappresentato dalla sicurezza delle infrastrutture ferroviarie e stradali, di cruciale importanza se si pensa al numero di visitatori previsti. Per questo è necessario costruire scenari e modelli che individuino i principali poli attrattori del traffico, i nodi critici, i rischi ambientali che potrebbero interferire e le strategie del controllo. Particolare attenzione deve essere posta in quelle zone a rischio ambientale, come i territori posti lungo l’asta del fiumi Lambro e Olona, che potrebbero essere teatro di eventuali esondazioni, o a rischio di incidenti, con la presenza di aziende con lavorazioni a rischio e trasporto ferroviario di merci pericolose.

Feeding the Planet. Energy for Life: questo il titolo scelto per l’Expo 2015, che implica una particolare attenzione al sistema alimentare italiano, per il quale la Lombardia ha un ruolo trainante: 13% della produzione nazionale di alimenti di origine vegetale e animale, 19% dei prodotti alimentari italiani esportati. Obiettivi dell’Expo devono essere la qualificazione della produzione agraria, attraverso la selezione di piante alimentari con le migliori proprietà nutrizionali e maggiore resa; la produzione di alimenti di qualità, con l’adozione mezzi sempre più affidabili per il controllo delle filiere di produzione, che permettano di identificare e testare l’origine dei prodotti, e infine la promozione di una corretta educazione alimentare, con stili di vita più salubri e che sconfiggano due patologie come l’obesità e la malnutrizione.


[alessia lucchese]
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USA

Cambiare il mondo? Yes, we can

Dopo tanta attesa, il momento storico a cui l’intero pianeta si stava preparando è finalmente arrivato. Barack Hussein Obama è il 44° presidente degli Stati Uniti d’America, il primo inquilino afro-americano della Casa Bianca. Il dossier di M@g vi aiuterà a conoscere meglio un uomo che, secondo molti, è destinato a cambiare il mondo.

1. Barack's Countdown


2. Alla corte di Hussein Obama

3. W., dal Jack Daniel’s alla Casa Bianca


[viviana d'introno - alessia lucchese - vesna zujovic] continua

GIUSTIZIA

Uranio impoverito, condannato il Ministero della Difesa

Si riapre il dibattito sull’uranio impoverito a seguito della sentenza del Tribunale civile di Firenze che ha condannato il ministero della Difesa a corrispondere oltre 500 mila euro a Gianbattista Marica, un paracadutista italiano ammalatosi durante la missione Ibis in Somalia tra il dicembre del 1992 e il luglio del 1993. Una sentenza che farà discutere, non solo per il corposo risarcimento in favore dell’ex militare di leva, ma soprattutto perché evidenzia il nesso di causalità tra la presenza di uranio impoverito e la patologia del militare.

Nel provvedimento adottato dai giudici toscani si fa riferimento al parere di un consulente tecnico che sostiene l’esistenza di un legame tra il Linfoma di Hodgkin, contratto dallo stesso Marica, e l’esposizione all’uranio impoverito. E si chiama in causa il ministero della Difesa che, stando alla motivazione della sentenza, «non ha disposto l'adozione di adeguate misure protettive per i partecipanti alla missione in Somalia», nonostante fosse «sotto gli occhi dell'opinione pubblica internazionale la pericolosità specifica di quel teatro di guerra, e nonostante l'adozione da parte di altri contingenti di misure di prevenzione particolari». Ad ogni modo, ciò che risalta è l’accusa di negligenza mossa nei confronti del Ministero che avrebbe tenuto «un atteggiamento non ispirato ai principi di cautela e responsabilità, consistito nell'aver ignorato le informazioni in suo possesso, già da lungo tempo, circa la presenza di uranio impoverito nelle aree interessate dalla missione e i pericoli per la salute dei soldati collegati all'utilizzo di tale metallo». Nell’ottobre del 2007 l’allora ministro della Difesa, Arturo Parisi, aveva parlato di 255 casi accertati di malattie legate all’uranio impoverito tra i soldati italiani impiegati nelle missioni all’estero, e di 37 militari deceduti. Ma le cifre erano state duramente contestate dall’Osservatorio militare che faceva riferimento ad almeno 2.500 malati e 150 morti.


Sulla questione abbiamo sentito Falco Accame, presidente dell’Anavafaf, un’associazione che assiste le vittime arruolate nelle Forze armate. «La sentenza taglia corto sulla disputa sull’uranio impoverito», dichiara l’ex presidente della commissione Difesa della Camera dei Deputati. «Fino ad oggi ci si è persi in chiacchiere, senza mai arrivare a risultati concreti. Sia le commissioni parlamentari che la commissione d’indagine istituita nel 2000 e guidata dal professor Franco Mandelli si sono limitate a ridurre la questione ad un ambito prettamente scientifico», aggiunge Accame. Secondo il leader dell’Anavafaf «i nostri militari sono stati mandati allo sbaraglio sin dai tempi della missione Ibis ma i nostri politici, invece di dare un segnale forte, si sono sempre inginocchiati dinanzi ai generali e l’uranio ha continuato a mietere vittime tra i soldati».


Di diverso avviso Lorenzo Forcieri, sottosegretario alla Difesa nell’ultimo governo Prodi e vicepresidente della commissione parlamentare d’inchiesta nella quattordicesima legislatura. «Come governo abbiamo adottato la massima trasparenza in tutti i nostri atti – afferma l’ex parlamentare –. Abbiamo anche invitato i responsabili delle missioni a mettere in atto tutte le precauzioni necessarie, fornendo tutti i dati alla magistratura per le indagini del caso». Per Forcieri, primo firmatario del disegno di legge sull’istituzione della commissione d’inchiesta già dalla fine degli anni ‘90, bisognerebbe riattivare la commissione stessa che, a suo dire, «stava iniziando a produrre risultati interessanti». Forcieri ribadisce comunque i problemi incontrati nella sua attività parlamentare in merito all’uranio: «C’è sempre stato un tentativo di “frenare” sull’uranio impoverito, sia a causa della sottovalutazione del rischio a cui andavano incontro i nostri militari, sia per interessi di natura industriale e commerciale come accaduto per l’amianto».


Per il senatore Mauro Del Vecchio, esponente del Partito Democratico in commissione Difesa al Senato, «l’attenzione è alta non solo sui casi di neoplasie collegati alle missioni all’estero, ma anche su quelli riconducibili ai militari impegnati nel nostro Paese. Tant’è che le varie forze politiche sono concordi sulla necessità di far ripartire al più presto i lavori della commissione d’inchiesta con l’intento di arrivare a risultati concreti al massimo entro un paio d’anni». Il parlamentare democratico, già generale di corpo d’armata e comandante dell’operazione Isaf in Afghanistan, nega fermamente l’esistenza di un atteggiamento negligente da parte dei vertici militari, ricordando la sua esperienza nelle varie operazioni all’estero in cui ha esercitato funzioni di comando: «In Kosovo, ad esempio, sapevamo del pericolo che c’era in corrispondenza delle carcasse dei carri armati serbi distrutti e i nostri militari erano tenuti a non avvicinarsi. Non solo avevamo tutto l’equipaggiamento necessario, ma, a differenza degli altri contingenti, disponevamo anche di un reparto tecnico che verificava la radioattvità e la pericolosità dei territori in cui prestavano la loro opera i nostri soldati».


[pierfrancesco loreto]
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