CONFLITTO DI GAZA

Intervista a Nahum Barnea

«Non ci sono dubbi che le operazioni militari organizzate da Israele sono state condotte ad ampio spettro. Il punto è che sono durate anche molto più a lungo di quanto ci si aspettasse», racconta da Gerusalemme Nahum Barnea, una delle penne più autorevoli del giornalismo israeliano, intervistato in esclusiva da m@g. Barnea, che scrive per il quotidiano Yedioth Ahronoth e ha vinto il premio Israel Prize per la comunicazione, ha perso un figlio nel 1996, in un attentato kamikaze di Hamas a un autobus di linea. Al funerale ha perdonato pubblicamente l’assassino, considerandolo vittima della stessa tragedia che affligge il popolo palestinese. Da anni si spende per favorire il dialogo nell’ambito del conflitto arabo-israeliano.

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[viviana d'introno e cesare zanotto]

L'INTERVISTA

La voce della libertà

Yang Lian, nato in Svizzera nel 1955 ma cresciuto a Pechino, è oggi uno dei maggiori poeti contemporanei e una tra le voci più importanti della dissidenza cinese. Esiliato dalla Repubblica Popolare Cinese dopo avere duramente criticato nel 1989 la repressione di Piazza Tiananmen, vive all’estero da vent’anni. È stato candidato al Premio Nobel nel 2002 e le sue poesie sono state tradotte in 25 lingue. Yang Lian interpreta lo spirito della millenaria cultura cinese attraverso la sua esperienza da esule. Una riflessione sulla condizione generale dell’uomo ma anche un invito alla speranza per milioni di cinesi che chiedono democrazia.

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[marzia de giuli e luca salvi]

L'INCHIESTA

È un’emergenza che dura da oltre vent’anni. I territori tra Napoli e Caserta sono uno stato nello stato dove l’unico potere reale è quello della Camorra. Nonostante i blitz, gli arresti e l’invio di soldati e poliziotti, i clan continuano a fare affari in un cono d’ombra in cui convivono l’economia legale e la politica. Ne abbiamo parlato con Andrea Cinquegrani, direttore de La Voce della Campania (oggi La Voce delle Voci).

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[alberto tundo]

MARIO CAPANNA

Onda e '68 a confronto

Quarant’anni dopo la protesta che ha segnato un’epoca, gli studenti italiani sono ancora in piazza. Secondo alcuni osservatori, l’Onda, che contesta la riforma Gelmini, è la fotocopia del’68. Altri la pensano diversamente. Mag ha chiesto un’opinione a Mario Capanna, ex studente dell’Università Cattolica e leader del movimento nel 1968.

Ascolta l'intervista

[cesare zanotto]

CIBO E MEMORIA

Viaggio nel gusto italiano


La relazione tra il cibo e la memoria è uno degli aspetti più profondi e antichi della cultura italiana e internazionale. Emblema di questo nesso è la madeleine che risveglia i ricordi dell’infanzia di Marcel Proust nel romanzo Alla ricerca del tempo perduto . Che cosa pensano i gourmet più affermati e i cuochi più celebri del nostro Paese del rapporto tra lo stile di vita dei nostri tempi e i cambiamenti nel gusto culinario, sempre più lontano dalla tradizione culinaria? La risposta nel servizio.

[francesco perugini]

GIORGIO BOCCA

Intervista sulla crisi del giornalismo italiano


Nessuno meglio di Giorgio Bocca può aiutarci a riflettere sulla crisi che sta vivendo oggi la professione di giornalista. "E' la stampa, la bellezza!", il suo nuovo libro vuole essere un'occasione per riflettere sul destino di un mestiere che sembra aver perso le sue virtù. In Italia la carta stampata appare schiacciata dalle pressioni della politica e dell’economia, incapace di reagire allo strapotere della comunicazione televisiva, non più in grado di scandagliare i mutamenti reali della società. Abbiamo approfondito queste e altre questioni nell'intervista.

[gaia passerini]

CONVEGNO

E' Tempo di investire in Libia

Parte dell’impero greco, romano, arabo. Già abitata in tempi antichissimi, tanto che il termine “libico” compare nelle iscrizioni del regno egiziano del 2700 ac. Bastano pochi elementi a dare un’idea delle ricchezze che fanno della Libia una mèta d’élite. Quello del turismo è solo uno dei settori industriali in forte espansione in un Paese che, indipendente dal 1951, sta attraversando un periodo di grande rinnovamento sul fronte delle relazioni commerciali internazionali. A illustrare «La Gran Giamahiria Araba Libica Popolare socialista come opportunità per le imprese italiane» sono i relatori del convegno organizzato dalla Camera di Commercio italo-libica insieme ad Assolombarda e con il contributo di Banca Ubae.

Al di là dei numeri incoraggianti che registrano un costante aumento dello scambio commerciale tra Italia e Libia, la novità emersa con forza dal convegno riguarda le graduali ma ferme conquiste di un Paese che, pur caratterizzato da un sistema economico di tipo socialista in cui l’iniziativa privata è ridotta, sta muovendo importanti passi in avanti. Il forte processo di privatizzazione in atto coinvolge oltre cento imprese. Un Paese con un ruolo leader nel continente africano «che può diventare una straordinaria piattaforma di interscambio, caratterizzato da un clima di stabilità, politica e sicurezza pubblica che consentono di operare in un clima sereno, una realtà senza pari nel mondo», come l’ha definito Antonio De Capoa, presidente della Camera italo-libica. In questo processo di rinnovamento, l’Italia gioca un ruolo di primo piano anche grazie alle buone relazioni diplomatiche che legano i due Paesi, come ha confermato la partecipazione al convegno dell’ambasciatore libico H.E. Abdulhafed Gaddur. L’Italia è il primo partner commerciale per la Libia, dalla quale importa soprattutto oli greggi di petrolio, metalli, alimenti, bevande, tabacchi e cuoio. Esporta prodotti petroliferi raffinati, macchinari e mezzi di trasporto, carta gomma e minerali non energetici. Dal 2006 al 2007 le esportazioni hanno registrato un trend crescente del 13% (1,457 miliardi di euro) e le importazioni di energetici e prodotti raffinati sono aumentate del 7% con un valore di oltre 12,4 miliardi di euro. Gli stessi dati della Camera italo-libica parlano chiaro: in un anno il numero dei soci è decuplicato da 30 a 300. Qualche mese fa la Libia ha varato un piano per 100 miliardi di dollari rivolto agli investimenti esteri. Altri 150 miliardi di dollari saranno destinati alle infrastrutture. «Ma l’Italia non deve rischiare di perdere il treno rispetto ad altri Paesi – Corea, Filippine, Cina, Francia – presenti in Libia molto più massicciamente. A dare lustro al nostro Paese ci sono aziende dinamiche come Eni, Telecom e Iveco, ma possiamo fare molto di più», continua De Capoa. I nuovi settori di investimento in Libia sono molteplici e spaziano dalle costruzioni, ai trasporti, al vasto campo agroalimentare, dalle utilities e comunicazioni ai servizi pubblici, al trattamento delle acque alla realizzazione di nuove centrali elettriche, dall’ammodernamento tecnologico delle forze armate all’informatizzazione della pubblica amministrazione. Al processo di ammodernamento che sta rilanciando il Paese, si affianca un percorso di regolamentazione normativa delle attività economiche volto soprattutto a un maggior livello di certezza e protezione legale degli investimenti stranieri. I progressi – introduzione di parametri trasparenti per l’assegnazione delle gare internazionali, normative che disciplinano l’accesso delle banche straniere e l’uso diffuso della lettera di credito - sono all’ordine dell’ultimo anno. Fra le ultime novità, il decreto 182/2008 che regolamenta – definendo anche le modalità di svolgimento dei controlli di qualità - l’esportazione dei prodotti della pesca verso i Paesi dell’Unione europea. Il primo semestre del 2007 ha visto già concludersi l’assegnazione dei primi ed importanti contratti, come i lavori per il nuovo aeroporto di Tripoli a società francesi e brasiliane. Nel corso del convegno, il direttore generale del Libyan Export Promotion Center, Mohamed Ammar Elmahmoudi, ha rivolto un caloroso appello alle aziende italiane a investire in Libia con rinnovata fiducia.

[marzia de giuli]
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EURO 2008, UNA NUOVA SVIZZERA

La croce elvetica fa tappa a Milano

I primi ospiti europei non sono ancora arrivati in Svizzera per i Campionati europei di calcio Uefa Euro 2008, ma la Confederazione Elvetica si fa già conoscere all’estero. L’Icon, la croce svizzera tridimensionale composta da cinque container navali bianco-rossi liberamente accessibili,è in viaggio attraverso l’Europa ormai da inizio marzo, e in questi giorni (dal 20 al 22 maggio 2008) è protagonista in piazza del Duomo a Milano.

Si tratta di un modo originale per rendere accessibile a tutti la Svizzera e i suoi aspetti economici, scientifici, innovativi, culturali e turistici in vista del grande evento calcistico previsto per giugno. «Abbiamo un sogno comune – spiega l’ambasciatore della Svizzera in Italia, Bruno Spinner –, condividere la grande festa sportiva del 2008 con i campioni del mondo, che in fondo vivranno una competizione casalinga quanto lo è per noi». Lieta di ospitare i circa cinque milioni di visitatori previsti è anche Doris Leuthard, ministro dell’economia del Governo federale svizzero: «A Milano vogliamo presentare la Svizzera, non solo come paese ospitante, ma anche come piazza economica in evoluzione, in cui la comunità italiana e le relazioni economico-sociali tra i due Paesi si fanno sempre più importanti. Dopo la Germania, l’Italia è il nostro secondo partner economico: dall’Italia importiamo più che da Stati Uniti, Giappone e Cina messi insieme; la Svizzera è il sesto investitore in Italia e l’Italia è l’ottavo investitore in Svizzera. C’è un notevole dinamismo, un volume di scambi che indica un forte apprezzamento del “made in Italy” da noi». Ci si prepara dunque a una festa del calcio in grande, che oltre a garantire uno spettacolo sportivo indimenticabile vuole promuovere una Svizzera nuova. «La Svizzera saprà sorprendere, non è più lo stereotipo della monotonia e “dell’orologio” – dichiara Marco Solari, consigliere del Comitato direttivo di Svizzera Turismo –. Abbiamo affidato a trainer professionisti l’addestramento del personale, oltre 50mila addetti alla sicurezza e alle varie infrastrutture del territorio: prevediamo, come effetto positivo degli Europei di calcio, introiti pari a 600-800 milioni di franchi svizzeri». All’inaugurazione dell’Icon a Milano era presente anche il sindaco della città, Letizia Moratti, onorata di rappresentare «l’unica città italiana in cui la croce svizzera ha fatto tappa nel suo tour, a testimonianza degli ottimi rapporti tra i due Paesi».

[francesca salsano]
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ATLETICA

Intervista a Oscar Pistorius


Soprannominato the fastest thing on no legs, Oscar Pistorius è un amputato bilaterale detentore del record del mondo sui 100, 200 e 400 metri piani. Nasce in Sudafrica con una grave malformazione (non aveva i talloni), che all’età di 11 mesi lo costringe all’amputazione delle gambe. Gioca a pallanuoto e rugby, fino a quando un grave infortunio gli impone di dedicarsi all’atletica per motivi di riabilitazione. Oggi l’atletica è la sua vita.


«La gente mi chiede spesso come sia avere due protesi al posto delle gambe, com’è avere qualcosa che mi rende un disabile – dice Oscar –, la risposta più sincera è che non lo so. Primo perché non ho mai avuto gambe normali, secondo perché non mi sento in alcun modo un disabile. Ogni disabilità può trasformarsi in vantaggio: questo è quanto ho imparato e ciò in cui continuo a credere». Classe ’86, Pistorius corre grazie a particolari protesi in fibra di carbonio: dopo i tanti successi ottenuti dal suo primo appuntamento ufficiale di rilievo, le Paraolimpiadi di Atene del 2004, lo scorso 16 maggio arriva quello più importante, l’ammissione da parte del Tas (Tribunale arbitrale sportivo) a gareggiare con i normodotati. Una battaglia che il giovane 21enne porta avanti dal 2005, lottando contro quanti ritengono che le sue protesi costituiscono un vantaggio meccanico dimostrabile, in termini di resa, rispetto a chi non ne usi. Ora i giudici sportivi hanno emesso il verdetto: Oscar può correre tra i normodotati. Il prossimo sogno da inseguire diventa un altro: fare il tempo minimo per accedere alle Olimpiadi di Pechino 2008.

È arrivata la sentenza del Tas tanto attesa, la più sperata.
«Sì, è uno dei giorni più felici della mia vita, non vorrei essere scambiato per un idiota se sorrido per tutto il pomeriggio ma non riesco a farne a meno. Sono contento che la mia battaglia sia finita in questo modo».

Richiede più determinazione correre sul campo o contro la federazione?
«Decisamente contro la federazione! Correre per me non è un lavoro, è qualcosa che amo. Quando mi sveglio la mattina e vado al campo, spengo il telefonino e dimentico tutto il resto: l’atletica è una passione, è la mia vita. Certe volte costa sacrifici, ma se sai perché li stai facendo e se sei motivato dentro, una battaglia contro i giudici sportivi assorbe di sicuro molta più energia!».

Quando hai capito che l’atletica ti avrebbe dato tante soddisfazioni?
«Devo dire che già al mio esordio ero molto emozionato. Ero lì ai blocchi, di fianco a me un francese che mi innervosiva, sputava, imprecava. Mi chiedevo se avessi lavorato abbastanza, se mi fossi allenato come dovevo. Ero un po’ confuso, non riuscivo a concentrarmi, era la mia prima gara internazionale e per due volte è stata falsa partenza. Dentro di me pensavo a mille cose, avevo lavorato all’obiettivo, ma al terzo sparo sono rimasto fermo sui blocchi. A quel punto mi sono chiesto: dopo tutti i sacrifici che hai fatto per arrivare qui cosa vuoi fare? Conviene non partire proprio oppure vale la pena alzarsi e correre comunque? Ho scelto la seconda. E nelle finali ho vinto l’oro sui 200. Da quel giorno ho corso con passione sempre maggiore, sicuro che non avrei fatto sacrifici per niente».

Hai mai pensato che saresti stato più o meno contento se la tua vita fosse stata diversa?
«Sicuramente sarei stato più veloce con le gambe ma probabilmente non ci avrei dato l’anima come sto facendo ora. Non sarei l’atleta determinato che sono. Forse non sarei addirittura un atleta. In fondo, tutta la mia personalità è maturata grazie a questa disabilità».

A cosa pensi prima di entrare in gara? Credi in Dio?
«Credo in Dio e credo in tutte le persone che sento vicine, in primo luogo i miei genitori e mio fratello. Ma se devo essere onesto, la tensione prima di una gara è grande e cerco di concentrarmi solo sulla corsa. Poi, se arrivano le vittorie le dedico senza dubbio a loro».

I tuoi punti fermi, dunque.
«Sì, sono cresciuto in una famiglia splendida e normale sotto tutti i punti di vista. Non mi hanno mai impedito di fare ciò che volevo, anzi mi spronavano in qualsiasi cosa volessi fare. Avevo come modello mio fratello, volevo sempre imitarlo. Mi ricordo di quando mi ha fatto salire sulla sua macchinina per farmi provare una discesa di 350 metri che lui faceva sempre con gli amici. Solo che, dopo 50, 100, 150 metri ancora non si fermava, la macchina aveva preso velocità e io già mi vedevo spiaccicato al muro in fondo alla strada! Invece, quando ormai mancavano 50 metri, mio fratello ha preso una delle mie gambe e l’ha infilata tra le ruote della macchine usandola come freno: da lì ho capito che le protesi potevano anche essere un vantaggio».

Un ricordo della tua infanzia?
«Le mie protesi di quando ero bambino. Non erano moderne come quelle che ci sono oggi; però avevano la faccia di Topolino».

Ripeti sempre che non ti senti un disabile. In che senso? Cosa significa per te disabilità?
«Nella vita ci sono abilità e disabilità, che possono essere fisiche, mentali, barriere psicologiche che ci si crea. Ma dietro ogni condizione di disabilità ci sono le mille abilità che si sfruttano per compensare ciò che manca; ci sono vantaggi e svantaggi, come esistono pro e contro nella vita di tutte le persone normodotate, che in tante cose – in realtà – sono più disabili dei disabili. Per quanto mi riguarda, uno dei lati positivi delle protesi è puramente materiale. Per fare un esempio: sono andato in motocicletta e ho preso dentro un sasso che mi si è scagliato sulla gamba. Ora ho un buco sul polpaccio, eppure non ho sentito nulla, e l’ho tolto come se niente fosse. Il più grande svantaggio? Quando sei fuori a cena con una ragazza carina che ti fa il piedino: caspita, non sento nulla!».

Il fatto di raggiungere un obiettivo particolare, si stabilisce a priori o è qualcosa che matura strada facendo?
«Sicuramente lo decidi prima, poi si lavora per gradi. Per me il “big goal” è correre alle Olimpiadi di Pechino; poi ci sono tanti piccoli obiettivi da raggiungere per realizzare quello finale: prendere i giusti momenti di riposo, seguire un’alimentazione regolare, allenarmi con costanza».

Quanto conta la tenacia nella vita di Oscar Pistorius?
«Tantissimo. Il mio più grande sacrificio? Non poter mangiare certe cose, purtroppo…Ma quando credi davvero in qualcosa, è questa stessa tenacia e i sacrifici che sai di aver fatto che rendono quello che hai ottenuto ancora più apprezzabile e soddisfacente ».

E l’ironia?
«Averla è indispensabile, per uno come me. Sarebbe meglio non intristirsi per una disabilità; piuttosto bisognerebbe essere contenti per tutte le altre abilità che si hanno».

Pensi di riuscire a fare i tempi minimi di partecipazione per Pechino?
«Sto migliorando lentamente. Per arrivare ai 45.5 secondi devi essere costante; purtroppo quest’anno ho speso tanto tempo lontano dal campo per le mie questioni legali. Ma ora mi hanno aperto le porte alle Olimpiadi e farò di tutto per entrarci. Comunque, il vero senso di questa storia, al di là di Pechino, è l’essere stato incluso tra i normodotati: non era solo la mia battaglia, adesso è la battaglia di tutti quelli come me».

[francesca salsano]
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WEB

Blog e sport: connubio possibile

Il fenomeno dei blog invade ormai anche il mondo dello sport. Sono circa duemila i blog indicizzati da Blogitalia, il più importante motore di ricerca per i blog italiani che parlano di sport. Il calcio naturalmente la fa da padrone, ma su Internet si può trovare veramente di tutto. Un esempio è Operazione Gasparotto, blog per gli appassionati di atletica e di maratona.

Oleole.it, network internazionale, si propone come la più grande community di appassionati di calcio in Italia. Incredibile a dirsi, ma buona parte dei blogger sono donne: tra le più scatenate Kiarina109 di Mantova, informatissima sulla Liga spagnola. Non si contano i blog sulle grandi squadre della Serie A: i tifosi bianconeri possono trovare informazioni interessanti allo Juventus blogger’s corner , mentre il tifo interista trova gli altri «bauscia» su bauscia.splinder.com, nato a metà del 2007 come erede di bauscia.org che ha registrato oltre 200mila contatti nei primi sei mesi di vita.
Sull’altra sponda del calcio milanese impazzano i blog sugli idoli del popolo rossonero. Naturalmente c’è Kakà, ma non mancano le pagine sul nuovo idolo dei milanisti: Pato. Nonostante abbia giocato solo quattro partite, Alexandre Pato è già il protagonista di alexandrepato.blogspot.com e alexandrerodriguesdasilva.blogspot.com.
Non mancano le pagine sui campioni nostrani come Alessandro Del Piero e Antonio Cassano, già giocatore del Real Madrid e che per questo è galacticoantonio.spaces.live.com, ma anche quelle dedicate a giovani calciatori emergenti come Marek Hamsik.
Per i tanti tifosi delle squadre minori un sicuro punto di riferimento può essere seriec1.ilcannocchiale.it, «portale» completissimo sulla C1. Anche il calcio amatoriale è protagonista in rete: i calciatori della domenica si ritrovano su internet, organizzano i match e pubblicano i risultati. Per avere un’idea guardate calcioinbocca.blogspot.com, una finestra sui tornei di calcetto aziendali.
Ma il calcio non è solo quello giocato. I tanti appassionati del fantacalcio mettono online i risultati delle loro leghe. Un esempio è lo Joga bonito fantasy league di Maggiora, provincia di Novara, giunto all’ottava stagione, o tuttodipiu.blogspot.com della Web radio Ittiri.
Anche le tifoserie usano il web per mettersi in mostra: i calciofili partenopei non possono non visitare l’informatissimo www.napolifans.com. I simpatici tifosi del Savona Calcio parlano della loro squadra del cuore su biancoblutimes.blogspot.com. Da vedere anche bustoarsiziovolley.myblog.it, il blog dei supporter della Yamamay Busto Arsizio Volley.
Il blog è infatti spesso luogo di ritrovo per i tanti appassionati degli sport più diversi, ma anche una fucina di consigli per i principianti. Formula 1, motociclismo e motori in generale la fanno da padrone, ma si può trovare molto sulle arti marziali e il fitness.
Segnaliamo anche qualche curiosa iniziativa del popolo del rugby: per sapere tutto del mondo della palla ovale andate su rugby1823.blogosfere.it, ma se volete conoscere il lato goliardico di questo sport visitate la pagina della Rugby Fest, il torneo dei bar della città di Feltre.

Scopri l'Operazione Gasparotto. Chi pensa che i blogger stiano sempre seduti davanti a uno schermo non conosce Manlio Gasparotto. Giornalista della Gazzetta dello sport, ha dato il via all'Operazione Gasparotto, che lo ha portato in pochi mesi da calciatore della domenica alla maratona di New York.

[francesco perugini]
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SICUREZZA

Il pacchetto Maroni e i suoi "nodi"

Il pacchetto di sicurezza delineato dal ministro dell’Interno, Roberto Maroni, e presentato oggi al capo del Governo, Silvio Berlusconi, dal titolare del Viminale e dal Guardasigilli, Angelino Alfano, è ormai quasi pronto. Tocca però al Consiglio dei ministri, in programma a Napoli il 21 maggio, approvare il documento. Il 13 maggio, in una riunione interministeriale tenutasi a Palazzo Chigi e durata circa due ore, Maroni ha presentato il pacchetto ai colleghi Franco Frattini (Esteri), Ignazio La Russa (Difesa), Angelino Alfano (Giustizia) e Andrea Ronchi (Politiche comunitarie).

Durante la riunione, si è deciso che sarebbero stati proprio i ministri dell’Interno e della Giustizia a definire il testo da portare venerdì a Palazzo Chigi all’attenzione del premier.
Il pacchetto si compone di cinque punti. Il primo, secondo le parole del titolare del Viminale, “è il contrasto all’immigrazione clandestina; ci sarà poi la gestione dei rapporti con i Paesi comunitari, Romania in testa, sulla base della direttiva Ue che prevede rimpatri dei cittadini comunitari che non hanno reddito o delinquono; il terzo punto riguarda la definizione del ruolo degli enti locali nella prevenzione e contrasto della criminalità; ci saranno quindi le sanzioni penali, con l’individuazione di nuovi reati; infine, la lotta alla criminalità organizzata”. Tra le misure che potrebbero essere messe in atto vi sono il reato di immigrazione clandestina, l’allungamento a 18 mesi dei tempi di trattenimento degli immigrati nei Cpt, l’apertura di un Cpt per regione e l’esame del dna per i ricongiungimenti familiari.
Naturalmente, prima di essere adottate, tali misure dovranno essere giudicate compatibili con le norme europee e con i dettati costituzionali, nonché essere approvate dal presidente della Repubblica.
A destare delle perplessità è soprattutto l’introduzione del reato di immigrazione clandestina, che comporterebbe l’arresto in flagranza e il processo per direttissima dei clandestini individuati, con conseguente ulteriori sovraffollamento delle carceri e allungamento dei tempi di permanenza per i processi.
Per quanto riguarda la pena, l’ipotesi è quella di un periodo di carcere oscillante tra i sei mesi e i quattro anni e l’espulsione immediata dal Paese.
Dal canto suo, la Commissione europea ha fatto sapere che, non essendo la materia penale una politica comune Ue, esistono ampi margini di manovra per i legislatori nazionali.
Per consentire ai Comuni di avere le risorse necessarie a coprire i costi previsti dal pacchetto, il Governo pensa di escludere le spese per la sicurezza dal patto di stabilità interna.

[giuseppe agliastro]
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LAVORO

Gli uomini ragno

Da una piazzetta di via Restelli, di fronte all’entrata principale del cantiere, si vedono grossi blocchi di tavole che penzolano imbracati ai cavi d’acciaio delle gru. Scheletriche, sovrastano tre torrioni di cemento cinturati dai ponteggi. Sotto, ronzano 300 caschetti bianchi. Manovali, carpentieri, geometri. Italiani e stranieri che dal 2006 costruiscono la nuova sede della Regione Lombardia. Il progetto prevede una torre di vetro alta 161 metri, 30 in più del Pirellone, e un polo istituzionale spalmato su un trapezio di 30mila metri quadrati incastonato fra cinque arterie stradali: Melchiorre Gioia, Pola, Algarotti, largo De Benedetti e Restelli. Centri direzionali, spazi espositivi aree pedonali e giardini ornamentali, dove per ora sbuffa un via vai di camion e betoniere.

Alle 17.30 cominciano a sciamare i primi operai. Un ragazzo attraversa facendo slalom tra le auto; pinze che ciondolano dalla cintura e maniche corte: «Sono di Capo Verde. È dura, i capi sono esigenti, ma mi trovo bene. Prima di arrivare qui vivevo a Napoli. Facevo di tutto, anche in nero». Albertino è un ferraiolo della Davino Costruzioni di Chiari, una delle imprese edili che ha ottenuto in appalto una parte dei lavori da Impregilo, la capofila del Consorzio la Torre. Chiusi fra le paratie di metallo si vive 9 ore al giorno. Due turni, dalle 6 a mezzanotte. Come lui ne passano a frotte: egiziani, tunisini, marocchini, ma anche italiani, soprattutto del sud. E di tutte le età. Un drappello di bergamaschi va di fretta, facce stropicciate dalla fatica. Un pulmino della FerCarbo li riporta a casa: «Domani alle 6 si riparte». Alle 18.30 un’altra ondata di giubbotti arancio. Pausa di un’ora e cena in una delle mense convenzionate. «Vivo in un appartamentino a Parabiago, fuori Milano. Mezz’ora di mezzi pubblici per arrivare. La paga è buona ma la metà (600 euro) va a mia moglie a Tunisi», racconta Boussetta, carpentiere per Igc-edile di Gela. Gli chiedo se si sente sicuro. «Guarda qua» si sporge dal tavolo mostrandomi caschetto e scarponi induriti dalla calce. «La maggioranza viene dalla Sicilia. Tutte le settimane organizziamo corsi di formazione sulla sicurezza», spiega un capocantiere di Igc, che coordina 105 uomini ogni giorno. «Ci occupiamo del 40% dei lavori. Dove viviamo? In un residence a Pero, spese pagate dall’azienda. A girare, i ragazzi scendono a casa una volta al mese». Il costo per la realizzazione dell’opera è di 400 milioni di euro, finanziati per intero dalla Regione. «Tutti gli operai sono assunti a tempo indeterminato e full time – spiegano dall’ufficio stampa – Il salario medio è di 1600 euro, come da protocollo siglato con i sindacati». Per far colpo sugli ispettori del Bie, Formigoni fece proiettare fasci di luce azzurra dove sarebbero sorte le perle della riqualificazione urbanistica di Porta Nuova: 230mila mq di verde e grattacieli. E naturalmente, la torre della Regione. Un’epifania virtuale della Milano che si trasforma in vista dell’Expo 2015. Un evento che alimenta le speranze di chi cerca lavor. Come Tonino, che si è affacciato alla guardiola di via Gioia: «I giornali parlavano di un boom dei cantieri a Milano. Qui avete posto?»

[mario neri]
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SPETTACOLO

Silvia Martinoli, vivere di sceneggiatura

Guadagnarsi da vivere scrivendo sceneggiature. Creare nuovi personaggi o ri-adattare quelli dei più celebri homme de lettres nella speranza che prendano davvero vita al cinema, in tv o a teatro. Silvia Martinoli è una carinissima ragazza di 28 anni che ha intrapreso la difficile strada della sceneggiatura e a quanto pare non sembra essersi pentita. “E’ sicuramente una scelta che rifarei, in fondo, sto cercando di diventare quello che ho sempre voluto essere: una sceneggiatrice”.

Dopo essersi laureata in Lingue all’Università Cattolica, ha deciso di iscriversi al Master in Scrittura e Produzione per la Fiction e il Cinema presieduto dal Prof. Armando Fumagalli. Superare i test d’ingresso non è stato facile ma Silvia, come altri 27 colleghi, ce l’ha fatta . “Le prove sono state dure – ammette – ma ne è valsa la pena, il Master mi ha dato molto a livello formativo e mi ha permesso di conoscere delle persone che lavorano in questo ambiente”. Ma cos’è che l’affascina di questo mondo? “Tante cose. E’ un mestiere bellissimo. Primo perché io ho sempre amato scrivere e con gli sceneggiati si scrive tantissimo. Poi è un lavoro che stimola la creatività. Si è sempre alla ricerca di personaggi e situazioni nuove, si cura ogni dettaglio, ci si deve sforzare di dare un seguito a quella che può essere una buona idea”.

Evidentemente le sue idee e i suoi progetti piacciono. In Italia e non solo. Nonostante ammetta che entrare nel mondo degli sceneggiatori sia molto difficile quando non si ha ancora un “nome”, Silvia è riuscita a vendere la sceneggiatura per un cartone animato pensato per bambini in età pre-scolare. Gliel’ha acquistato la Calon Tv una casa di produzione per cartoni animati. La serie dal titolo Hana’s Helpline è stata trasmessa dalla Bbc, la storica emittente inglese. “E’ stato tutto molto semplice – afferma con un certo stupore -, gli ho spedito alcuni pezzi dello sceneggiato che avevo in mente, loro lo hanno letto e lo hanno valutato positivamente. Così..senza neppure conoscermi!”.

Anche se l’estero sembra offrire più possibilità e una maggiore apertura verso chi usa la sua creatività e il suo talento per vivere, Silvia non ha rinunciato a cercare di “piazzare” i suoi lavori anche in Italia. Recentemente, ha partecipato al concorso internazionale di sceneggiatura intitolato a Salvatore Quasimodo, portando a casa il premio di terza classificata con un riadattamento del romanzo La pietra di luna dello scrittore inglese Wilkie Collins, già allievo di Charles Dickens. “E’ stata una bella soddisfazione – soddisfazione che le brilla anche negli occhi mentre mostra l’imponente manoscritto – anche se per trasformarlo in sceneggiato io e la mia collega abbiamo dovuto stravolgere un po’ il romanzo. D’altra parte questo è il nostro lavoro!”.

Strutturare uno sceneggiatura non è semplice. Figuriamoci quando su un testo si lavora in gruppo.“Lavorare ad una storia con un’altra persona – prosegue Silvia – è tutt’altro che facile. Ognuno ha le sue idee e si rischia di discutere a lungo per dei dettagli che forse sembreranno delle banalità ma che nell’economia di uno sceneggiato sono fondamentali. E poi c’è da considerare la componente egotistica. Tutti siamo gelosi di quello che pensiamo e creiamo”.
Silvia comunque non vuole limitare la sua attività di sceneggiatrice solo alla tivù o ai cartoni animati. E’ una grande appassionata di fumetti e le piacerebbe scrivere testi per la Walt Disney e anche pièce teatrali. A giudicare dalla dedizione con cui si è buttata in questo mestiere non ci sono ragioni per cui non diventi una sceneggiatrice di successo. A volte per realizzare un sogno basta solo volerlo fortemente.


Daniele Meloni
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EXPO

Sì al verde, no alle cattedrali nel deserto

«Oggi ero al bar con un amico. A un certo punto è entrato un egiziano, probabilmente in amicizia col proprietario, e col sorriso sulle labbra ha chiesto di poter leggere il giornale. “Expo expo – diceva -. Tanto lavoro per tutti. Anche per me”. Non c’era verso di farlo smettere di sorridere, di essere felice». Ma per un egiziano che gioisce c’è un italiano che rimane perplesso. Enrico Prevedello, docente di Pianificazione delle infrastrutture al Politecnico di Milano, è l’uomo che stamattina era allo stesso bar a prendersi un caffè e teme che l’Expo 2015 possa tradire le attese di molti.

«Pensiamo ai Mondiali ’90 – dice –. In eredità ci hanno lasciato alberghi mai completati, che ora giacciono come ruderi alle porte di Milano. Oppure ricordiamoci degli investimenti stanziati per il Giubileo del 2000: la Casa del pellegrino, un edificio costruito in Bovisa per ospitare i fedeli che da Milano viaggiavano verso Roma, è oggi una gigantesca struttura d’acciaio arrugginita». Attenzione dunque agli entusiasmi: bisogna puntare sulla costruzione di opere di cui Milano ha un reale bisogno, come edifici pubblici (piscine, palazzi dell’arte e auditorium) che siano di interesse collettivo. È uno sbaglio secondo il professore puntare tutto sui grattacieli, perché così Milano rischierebbe di fare concorrenza a città come Shangai, quando è invece a città come Lione, Monaco o Parigi a cui si dovrebbe guardare. Ma soprattutto Milano ha bisogno di verde urbano.
A tal proposito, il responsabile della sezione Lombardia di Aiap (Associazione italiana architetti del paesaggio), Paolo Villa, giudica positivamente il piano “Raggi verdi”, il progetto promosso dal Comune di Milano che prevede la realizzazione di otto raggi di verde, che partendo dal centro della città portano ai grandi parchi della cintura milanese. Questo dovrebbe rendere la città più vivibile e meno schiava dell’auto. Per quanto riguarda gli altri progetti in cantiere sulle aree verdi, il paesaggista appare scettico. Si parla tanto ultimamente dell’area City Life, l’ex quartiere fieristico della città che si prepara ad essere radicalmente trasformato, ma Villa mette in guardia: «Su 255mila metri quadrati dell’area City Life, lo spazio dedicato al verde è di appena la metà. Mentre esistono già spazi verdi come il Bosco in città o parco Cerba che constano rispettivamente di 50 e 31 ettari, ma non sono minimamente pubblicizzati».
Un progetto alternativo per l’area City Life è stato presentato dall’architetto Giuseppe Boatti, docente del Politecnico, che vorrebbe lasciare il parco e i giardini all’esterno, verso la città, in modo che siano facilmente accessibili a tutti e non solo ai privilegiati che potranno permettersi un appartamento nel quartiere. Solo in questo modo, spiega Boatti, sarebbe possibile avere un’urbanizzazione meno egoistica, che di fatto favorisce gli interessi degli immobiliaristi anziché dei milanesi.


[beatrice scardi barducci]
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EXPO 2015

Nuovi “Magütt”

Milano cresce. Anzi, sta già crescendo. Merito anche della recente assegnazione dell’Expo 2015 che permetterà alla città di diventare più grande, più verde e più accogliente. Cresce anche il numero dei cantieri e aumenta quello degli operai. Ma quanti sono attualmente a Milano? Francesco Aresu del Sindacato Edili Fillea Cgil: «Sono circa 15.000 mila i cantieri aperti a Milano e provincia, e vi lavorano 70.000 manovali». Un numero significativo che, però, non rispecchia la realtà. «A questa cifra – continua Aresu –, va aggiunto almeno un 30-40% di operai che lavorano in nero». Si tratta per la maggior parte di italiani ma una buona fetta dei 70.000 è formata da manovali stranieri. Gli extracomunitari nei cantieri sono in continuo aumento: nel 2000 la percentuale di questi lavoratori si aggirava intorno al 25%; oggi, invece, si attesta al 40%.

Secondo i dati offerti dall’Osservatorio Regionale per l’integrazione e la multietnicità, circa la metà dei manovali presenti oggi in Lombardia è formata da cittadini provenienti dall’est Europa. Elevata anche la percentuale di nord africani, in particolare di egiziani e marocchini che, già operai nel proprio Paese, si trasferiscono in Italia nella speranza di trovare un lavoro consono alle proprie capacità. «Quest’ultima categoria è molto apprezzata dai datori di lavoro che tendono ad assumere manodopera specializzata invece che affidarsi ai canali principali come le agenzie interinali – spiega Francesco Marcaletti, professore di statistiche e tecniche nel settore del mercato del lavoro dell’Università Cattolica –. Per il settore edile funziona molto meglio la cosiddetta “catena migratoria”, un passaparola tra gli operai che, in caso di richiesta di manodopera, tende a chiamare amici e parenti». Ma come arrivano qui tutti questi lavoratori? «Gli stranieri arrivano in due modi – continua Marcaletti –. C’è chi, anche grazie alle procedure del suo futuro datore di lavoro, arriva nel nostro Paese attraverso i canali autorizzati. Accade anche – conclude Marcaletti – che le persone arrivino senza permesso di soggiorno e, per i primi mesi, lavorino senza un regolare contratto». Vista la crescente richiesta di manodopera a livello edile, quanti saranno i nuovi manovali che arriveranno nel nostro territorio? «È difficile fare una previsione su quello che accadrà da qui al 2015 – continua Francesco Aresu –. È probabile che ci sarà un notevole aumento del numero degli operai ma è ancora presto per dire quanti saranno e da quali Paesi verranno». E’ comunque possibile fare una stima. Basti pensare che per la realizzazione del Nuovo Polo della Fiera (progetto inaugurato nell’aprile del 2005), per una superficie totale di 2 milioni di metri quadri sono servite 2000 persone che, tra maestranze, architetti ed ingegneri, hanno lavorato e vissuto assieme per circa tre anni. E’ facile pensare che per la realizzazione dei nuovi progetti come il parco scientifico e tecnologico della Bovisa (il cui inizio dei lavori è previsto per il 2009) ed il sito “Expo 2015” (che si svilupperà per un’area di circa 1 milione di metri quadrati) servirà un gran numero di nuovi lavoratori. Ma da dove verrà tutta questa manodopera? Laura Zanfrini, docente di Sociologia delle migrazioni e delle relazioni interetniche dell’Università Cattolica: «Per diversi anni la maggior parte di immigrati è giunta qui dal Nord Africa; oggi, però, il maggior numero di lavoratori proviene da Paesi dell’est come Albania e Romania». Una tendenza che, anche a causa della sempre minor crescita demografica dei paesi dell’est, nei prossimi anni porterà nuovamente l’Africa al primo posto per numero di immigrati. Ci saranno quindi sempre meno operai italiani? Probabilmente sì, «Recentemente l’edilizia ha subito una forte trasformazione verso l’autoimpiego – sottolinea la prof.ssa Zanfrini –. Anche a causa delle mancate assunzioni, sempre più operai stranieri si mettono in proprio fondando piccole imprese edili. Si tratta di ditte formate da poche persone ma che in futuro potrebbero anche aumentare le loro dimensioni con l’assunzione di altri operai connazionali». E per migliaia di operai che arriveranno poco prima, di sicuro migliaia saranno i visitatori e i lavoratori da tutto il mondo che l’Expo porterà nel capoluogo lombardo (i dati ufficiali parlano di 70.000 nuovi posti di lavoro). Toccherà alla città-cantiere il compito di saper integrare in forme e modalità nuove questo grande flusso migratorio. La posta in gioco: confermarsi come una fra le migliori città d’Europa.

[matteo mombelli]
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LAVORO

«Siamo in 200, 9 su 10 sono stranieri»

Via Volturno, viale Zara e l’interminabile viale Fulvio Testi da mesi sono percorse da un lungo serpentone arancione. Nell’aprile 2012 il colore delle recinzioni che circondano i cantieri si trasformerà in magenta. Sarà il colore della linea 5 della metropolitana di Milano. Sei chilometri di tracciato che lungo l'asse stradale Zara-Testi collegherà, con nove fermate, la stazione Garibaldi con Bignami. Questo quello che sarà. Adesso ci sono solo recinzioni, ruspe e tanti operai.
Sono le sei del pomeriggio quando ne avviciniamo due. Uno sulla cinquantina, l'altro leggermente più giovane. A parlare è soprattutto il primo. Il tono è quello di chi ne ha viste tante e forse non ha più molto da perdere. Il suo volto è il ritratto del disincanto. La rassegnazione di chi è insoddisfatto del proprio lavoro consapevole però che c'è chi se la passa decisamente peggio.
In fondo, ci spiega, «non c’è tanto da lamentarsi. I contratti sono regolari e i controlli sulla sicurezza non mancano, anzi forse sono pure troppi». Come gran parte degli altri operai che vivono lontano da qui, abita per 15 giorni al campo base del cantiere, in via Racconigi. Torna a casa solo per tre giorni. Poi, altre due settimane fra le ruspe. Italiani ma soprattutto stranieri. In un cantiere immenso che fa da siepe col mondo esterno, da pane per mangiare, da letto per dormire.
Che è una casa a tutti gli effetti, quando la vera casa è già lontana.
Sono in duecento, secondo lui, la maggior parte dei quali stranieri «soprattutto slavi e maghrebini, sono un buon 90% » prova ad azzardare. Una stima precisa del resto non la si può dare, l'addetto al personale della società che si occupa dei cantieri, la Garbi, da noi interpellato taglia corto: «Gli operai sono assunti regolarmente secondo il contratto nazionale degli edili. Sono di nazionalità italiana e non». Di più non è dato sapere.
La fiducia nel sindacato è ai minimi storici: «Pensano solo ai fatti loro. Io sono stato iscritto sia alla Cisl che alla Cgil ma sono rimasto deluso da entrambe».
Per la realizzazione della nuova metropolitana il Comune di Milano,che nelle intenzioni dei progettisti dovrebbe estendersi fino a Monza e San Siro, ha affidato i lavori a una società nata ad hoc: la Metro5 Spa. Un cartello di imprese formato da Astaldi, Ansaldo Sistemi, Ansaldo Breda, Alstom, Atm e Torno. La prima azienda si occuperà dell’armamento, la seconda dell’automazione e del materiale rotabile, mentre alle altre sarà affidata la costruzione dei veicoli (Ansaldo Breda), l’elettrificazione (Alstom) e gli scavi (Torno).
Il costo dell’operazione, secondo i dati forniti da Metro5, è pari a 554 milioni di euro coperti per il 59% da contributi pubblici, per il 34% da finanziamenti bancari e per il 7% dai capitali privati dei soci. Gli investitori hanno già calcolato anche il ritorno economico. I ricavi che la linea 5 della Metro garantirà saranno infatti pari a 724 milioni di euro, provenienti dalle tasche dei 22,5 milioni di passeggeri che, secondo le previsioni, ogni anno utilizzeranno i convogli.
Metro 5 non è però solo un progetto che coinvolge le sei aziende citate. I lavori sono infatti subappaltati a numerose ditte che a loro volta smistano il lavoro ad altre imprese. Praticamente, una matrioska. Un rischio per la trasparenza e la regolarità dei lavori? Metro5, attraverso l’ingegnere Ildefonso Siliconi, rassicura e spiega: «In un grande progetto come questo è naturale che ci sia una redistribuzione degli incarichi. Soprattutto perché si tratta di lavori che vanno a toccare campi diversi fra loro, come quello puramente tecnologico. Va detto, però che ogni subappalto viene monitorato e controllato».

[luca aprea e alberto tundo]
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IMMIGRAZIONE

Etnico, speziato, romano

«Qui funziona che io incarto, tu paghi e poi porti via», spiega con spiccato accento romano il banchista (bengalese) al cliente (italiano) di un chiosco di macelleria (gestito da romeni). Mercato stabile dell’Esquilino, primo municipio di Roma: qui i rivenditori italiani sono la minoranza e la nazionalità dei commercianti e delle loro merci rispecchia la composizione etnica dell’intera città.

Così, di fronte al chiosco di alimentari cinesi c’è il venditore di funghi, italiano con aiutante bengalese, e a pochi banchi dallo stand africano c’è quello di conserve romene, e poi quello di alimentari latinoamericani. Ma a fare la parte del leone sono i box dei bengalesi, che vendono a bangladeshi, indiani e pakistani spezie e risi profumati, e tutti i giorni fanno concorrenza ai negozi di alimentari fuori dal perimetro delle bancarelle.
A dirla tutta, il mercato dell’Esquilino è sempre stato un luogo di commistione: fino al 2003 era in piazza Vittorio Emanuele, fulcro del quartiere umbertino, e le bancarelle convivevano con i ruderi e la “porta magica”, dove è incisa l’indecifrabile formula alchemica per fabbricare l’oro. Poi ha cambiato sede e coinquilini: gli alimentari sono nella ex caserma Pepe e nella ex caserma Sani ci sono abbigliamento e calzature, nonché le aule dell’università “La Sapienza”. E da dipendenti, gli immigrati sono diventati poco per volta titolari delle licenze: oggi, secondo i dati del Corime (il coordinamento dei rivenditori del mercato Esquilino), circa metà delle 170 rivendite è gestita da stranieri e il 60% di loro è titolare di licenza.
La commistione dell’Esquilino è un caso unico nel panorama della capitale: nell’intero municipio, che include altri quartieri del centro, vive la più numerosa comunità straniera della città (22,9% dei residenti), e di questa oltre il 32% è di origine asiatica, riporta l’Osservatorio Romano sulle Migrazioni della Caritas diocesana. Ma in generale, spiega un altro studio della Caritas, le comunità immigrate prediligono l’imprenditoria: nei primi anni Ottanta gli stranieri iscritti alla Camera di commercio come titolari d’impresa o associati erano il 3,4%, dopo 20 anni, grazie anche al mutamento delle politiche per l’immigrazione, il numero è salito al 45%. Insomma, nel luogo dove più è concentrata la presenza di stranieri si concentra anche il mercato internazionale delle merci.
Nonostante la progressiva integrazione nel sistema imprenditoriale, però, permangono difficoltà nella comunicazione. Non mancano casi di immigrati che parlano perfettamente in italiano e padroneggiano un'ironia tipica romanesca; ma molte volte la barriera linguistica e culturale è impenetrabile. Finché si tratta di pagare o chiedere un chilo o due di rape non c'è problema, ma per sapere se è in vendita menta fresca è necessario ricorrere all'inglese dopo un paio di tentativi in italiano. E se si tratta di parlare di loro stessi, dei loro clienti, di come vivono il mercato, i banchisti, soprattutto i bengalesi, dicono di non capire neanche l’inglese. Alla sartoria “Vhai vhai”, un box con un ampio bancone e due piani per la stiratura dei capi, nessuno sembra conoscere il proprietario. Qualche volta c’è chi si sbottona, e racconta degli affari: il gestore di “Indian shop”, uno stand di stoffe, dice che da quando si è trasferito nel mercato coperto le sue clienti, «di tutti i Paesi, non solo indiane», sono diminuite perché non sanno dove trovarlo.
Per facilitare le relazioni tra le comunità straniere e tra queste e quella italiana, dal 2005 il Comune di Roma ha allestito una sede del progetto “Mediazione sociale” proprio all’interno del mercato. «È uno strumento di progettualità territoriale e di costruzione di reti sociali con il quale reagiamo alle questioni che la popolazione ci pone», spiega Leonardo Carocci, responsabile del progetto per l’Esquilino. «Con la campagna “Esquilindo”, per esempio, abbiamo sensibilizzato la popolazione sull’importanza della pulizia delle strade, realizzando tra l’altro cartelli in otto lingue. Il prossimo passo – anticipa Carocci – sarà utilizzare la filodiffusione interna al mercato come canale comunicativo per avvicinare le culture e rendere sempre di più il mercato dell’Esquilino un mercato della socialità».


[ornella sinigaglia]
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CINEMA

Era la pellicola, ora è digitale

Edward D. Wood Jr., il peggior regista di tutti i tempi, non avrebbe più di che esaltarsi. Nella cinematografia mondiale il digitale sta avanzando, e il file comincia a bramare gloria a discapito della polverosa e mitica pellicola. A che punto è l’avanzata della tecnologia digitale? L’abbiamo chiesto a Elisabetta Brunella, segretario generale di MEDIA Salles, un progetto eureopeo sostenuto dal governo italiano, che fornisce servizi di informazione e di formazione sul cinema in Europa. A quanto pare Ed Wood può stare tranquillo ancora per un po’.

Nota del 5/6: l'articolo è stato modificato per inserire nuovi dati forniti da MEDIA Salles.


Come nasce il progetto MEDIA Salles?
«MEDIA Salles nasce nel 1991, come parte del Programma MEDIA dell’Unione Europea, di fatto il primo intervento di Bruxelles a favore dell’industria audiovisiva, colta nelle sue valenze sia economiche sia culturali. MEDIA Salles, che ha sede in Italia, rivolge la sua attività al settore delle sale di tutta Europa, nei campi della promozione, della formazione e dell’informazione. Tra i suoi obiettivi c’è la rilevazione del consumo di cinema nelle sale europee, cosa che risponde all’esigenza di avere un riscontro statistico utile sia ai professionisti del settore sia alle istituzioni. Ad esempio, fino al 1992 non si riusciva nemmeno a sapere quanti milioni di biglietti si vendessero in Europa. Tanto meno esistevano concrete iniziative di informazione sull’economia del settore e di formazione degli esercenti a livello internazionale. In questi anni, grazie all’attività di MEDIA Salles, che ha membri e corrispondenti in tutta Europa, la conoscenza del ruolo che le sale giocano nell’insieme dell’industria cinematografica è costantemente aumentata».

Quali sono le iniziative di MEDIA Salles?
«Cardine dell’attività di informazione è l’annuario European Cinema Yearbook, giunto ora alla sedicesima edizione, con una copertura geografica che si è via via ampliata, fino a toccare i 34 paesi attuali. Inoltre MEDIA Salles ha l’obiettivo di contribuire a preparare gli esercenti cinematografici europei alle nuove sfide, in particolare quelle della transizione al digitale.
Sul nostro sito divulghiamo informazione sul cinema digitale in tutto il mondo, in particolare con il il DGT Online Informer e attraverso l’annuario stesso, che rileva l’affermazione delle sale digitali praticamente dalla loro nascita. Nel 2004 abbiamo ideato il primo corso internazionale di formazione sulle nuove tecnologie per gli esercenti europei. Proprio lo scorso mese di aprile si è completata la quinta edizione in Gran Bretagna».

In che cosa consiste la transizione digitale delle sale?
«La risposta è semplice: si sostituisce un file alla pellicola 35mm. Si proietta quindi l’immagine proveniente da un supporto digitale. In pratica si effettua una smaterializzazione del prodotto cinematografico. È un fenomeno che sta prendendo piede in questi anni, seppur lentamente: le sale commerciali del mondo sono oltre centomila, di queste seimila sono ad oggi dotate di proiettori digitali. Ci vorrà del tempo, ma il digitale sia avrà un impatto su tutta la filiera cinematografica sia modificherà la fruizione. Tra i fautori della nuova tecnologia c’è stato un “vecchio maestro” come Ingmar Bergman che non solo ha girato “Saraband” in digitale ma ha anche voluto che fosse proiettato esclusivamente su schermi digitali».

Quali sono i vantaggi concreti, economici e non, derivanti dal digitale?
«Un aspetto fondamentale è la qualità costante dell’immagine che non è più sottoposta al degrado di un mezzo fisico come il 35mm che soffre dell’usura del tempo. Ciò che si vede sullo schermo digitale inoltre non “balla”. Allo sfarfallio del 35mm si sostituisce un’immagine che sembra quasi dipinta. Qualcuno dice che l’emozione che dà la purezza del 35mm è inarrivabile, ma bisogna anche dire che quella purezza è ottenibile solo dalla pellicola originale, mentre al grande pubblico arrivano le copie.
Altro aspetto importante sono i vantaggi logistici. Col digitale c’è maggiore flessibilità nella programmazione: i file consentono all’esercente di proporre, nell’arco della stessa giornata, più titoli sul medesimo schermo. Con la trasmissione via satellite o via cavo scompariranno i camioncini della distribuzione, cosa da cui ci si può aspettare una riduzione dei costi. Tra i vantaggi attesi anche una distribuzione più mirata: si potrà più rapidamente adattare l’offerta alla domanda. Ci sarà anche un altro fattore importante, quella della diversificazione dell’offerta: col digitale potranno essere proiettati, oltre ai film, anche i cosiddetti contenuti alternativi come eventi sportivi, concerti e anche cerimonie religiose. Il collegamento satellitare ne consente, per di più, la proiezione “in diretta”.
La varietà dei contenuti valorizzerà l’aspetto socializzante della sala cinematografica. Allo stesso tempo la visione collettiva regala delle emozioni non sostituibili da una fruizione tipo home theatre. L’aspetto ancora da chiarire riguarda l’entità degli investimenti necessari e la quantificazione dei vantaggi economici reali».

Qual è la posizione degli esercenti del settore nei confronti del digitale?
«Gli esercenti sono sicuramente interessati, anche se nutrono preoccupazioni in merito al costo delle nuove attrezzature necessarie per la proiezione digitale e alle possibili modifiche dei rapporti all’interno della filiera tradizionale. Negli Stati Uniti, che negli ultimi anni sono diventati leader nella transizione al digitale, è stato adottato un business model chiamato “Vpf” (Virtual print fee). Questo consente che le società di distribuzione, alle quali andranno i maggiori risparmi derivanti dalla nuova tecnologia, contribuiscano finanziariamente all’acquisto dei proiettori e dei server digitali, che è a carico dell’esercente.
Questo modello dovrebbe ridurre le resistenze che derivano dal disequilibrio tra chi si aspetta dei benefici (i distributori) e chi deve sostenere i costi dell’adeguamento tecnologico (gli esercenti). Un limite del modello statunitense è la sua difficile adattabilità a mercati contrassegnati da un elevato numero di players e, in molti casi, da un limitato bacino d’utenza, come quelli europei».

In Europa quali sono i Paesi all’avanguardia? E negli altri continenti?
«Degli Stati Uniti abbiamo detto: sono ora il capofila del movimento che promuove il digitale con quasi 5.000 schermi su un totale di circa 6.000 in tutto il mondo. L’Europa segue con oltre 800 schermi, l’Asia con poco meno di 400. In Italia attualmente gli schermi dotati della tecnologia DLP cinema sono 38. Tra gli early adopters europei figurano soprattutto piccole e medie imprese, mentre, pur con qualche eccezione, le grandi catene hanno una posizione di attesa. In Italia il primo proiettore digitale è stato installato presso il Cinema Arcadia a Melzo. Un Paese europeo che sta facendo grossi passi in avanti è la Gran Bretagna, dove un’istituzione pubblica come lo UK Film Council ha finanziato l’installazione di circa 250 schermi digitali, con lo scopo di favorire una maggiore diversificazione dell’offerta. Anche in mercati emergenti come la Russia e la Cina l’interesse per il cinema digitale e il 3D sta crescendo. Per queste proiezioni all’avanguardia della tecnologia, gli spettatori sono disposti a pagare prezzi più elevati».

Quali sono invece gli ultimi dati sulla vendita dei biglietti?
«Gli ultimi 15 anni hanno visto aumentare il numero degli spettatori in Europa occidentale. Si è passati da poco più di 600 milioni di biglietti a circa 900. Per quanto riguarda il 2007 si rileva una battuta d’arresto dell’insieme dell’Europa. I biglietti venduti in Europa occidentale sono stati 847 milioni, con un calo del 2,6% rispetto all’anno prima. Analizzando i dati paese per paese, a cominciare dai cinque principali mercati, emergono risultati decisamente difformi. Francia, Spagna e Germania chiudono il 2007 con decrementi importanti, mentre il Regno Unito cresce e l’Italia vola. La Francia continua ad essere il primo mercato europeo. Pur perdendo oltre 11 milioni di spettatori (da 188,7 milioni a 177,5) ottiene un risultato migliore che nel 2005. La Germania si lascia alle spalle 11 milioni di biglietti venduti, scendendo a 125,4 milioni e ritornando alla situazione del 2005. Sei milioni di spettatori in meno anche in Spagna, che si ferma a 117 milioni. Chiude invece felicemente il Regno Unito che recupera buona parte del pubblico perso nel 2006 e, con 162,4 milioni di spettatori, si conferma secondo mercato europeo. L’Italia cresce addirittura quasi del 12%, stando alle stime basate sulle rivelazioni di Cinetel che coprono circa il 90% del mercato, portandosi a oltre 114 milioni di spettatori. Questo lusinghiero risultato è il migliore dal 1986 ed è in parte dovuto al successo dei film “made in Italy”, che rappresentano circa un terzo del mercato. Sostanziale stabilità o lievi decrementi caratterizzano Portogallo (-0,3%), Danimarca (-0,8%), Svezia (-0.9%) e Finlandia (-1,3%). Sensibili invece i cali nel Nord Europa, dal -6,2% del Belgio al -10,4% della Norvegia. Anche l’Europa centro orientale e il bacino del Mediterraneo vedono una riduzione del 3,5% nel 2007. In calo in particolare il peso della Turchia, che scende da quasi 35 milioni di biglietti a 31».

È vero che sta prendendo piede il cinema 3D?
«Certo, in particolare perché la proiezione digitale consente una resa del 3D migliore. Si ottiene un’immagine più luminosa. La Dreamworks ad esempio sta investendo molto nella produzione di film in 3D. Ci si attende che l’incontro fra 3D e digitale produca risultati significativi».

Quali sono le sue speranze per il futuro?
«Credo che le nuove tecnologie possano dare più chances distributive ai film che non sono sostenuti da grandi budget né di produzione né di promozione ma che molto spesso sono di grande qualità. Con una distribuzione più flessibile e capillare se ne potrebbe facilitare l’incontro con il pubblico. Un’altra speranza è legata alla flessibilità dell’offerta, per la proiezione di contenuti alternativi che potrebbero attirare nelle sale un pubblico più diversificato: lo si è già visto, per esempio, con le proiezioni dell’opera da prestigiosi teatri italiani avvenute negli Stati Uniti. In sintesi credo che in un’epoca in cui da una parte aumentano le modalità di consumo di prodotti audiovisivi di tipo individuale, sia tra le pareti domestiche sia portatili, e dall’altra cresce il bisogno di socializzazione, la sala abbia un ruolo specifico da giocare, se saprà rispondere a tale tipo di bisogno con spirito innovativo».

Link utili:
www.mediasalles.it
European Cinema Yearbook:
http://www.mediasalles.it/ybk07fin/
Newsletters:
http://www.mediasalles.it/dgt_online/index.htm
http://www.mediasalles.it/journal/ecj1_08ing.pdf

Omaggio di un grande cineasta al cinema classico: Ed Wood incontra Bela Lugosi nel film "Ed Wood" di Tim Burton.



[paolo rosato]
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AGRICOLTURA

A Battipaglia braccianti con le carte in regola

Le cinque del mattino: albeggia appena. Il signor Antonio e sua figlia Maria Pina prendono il caffè in piedi: hanno fretta di uscire. Ognuno va a prendere con la sua macchina gli operai: i quattro dipendenti uomini (due ucraini e due romeni) e le donne, una decina, tutte stagionali. Le signore di solito viaggiano a bordo dell’auto di Maria Pina. Le operaie hanno un’età compresa tra i 35 e i 50 anni; sono regolarmente iscritte all’elenco dei braccianti agricoli, vengono retribuite a giornata e percepiscono l’assegno di disoccupazione quando sono a riposo (lavorano in media 51 giorni all’anno).

Alle sei di mattina hanno voglia di cantare, ma alla fine della giornata, verso le tre e mezza del pomeriggio, si lasceranno andare sui sedili col solo desiderio di riposare. Una scena che si ripete ogni anno, verso la fine di aprile, quando inizia la raccolta delle ciliegie nei terreni dell’azienda di Antonio, a Battipaglia, in provincia di Salerno, a 50km da casa.
Se questo non è il mulino bianco, è di certo un’isola felice. In Campania i lavoratori del comparto agricolo sono 97.700 (dati Inps 2006), di cui ben 68.500 donne. Solo settemila hanno un contratto a tempo indeterminato. C’è poi l’esercito dei lavoratori in nero: secondo una stima di Confagricoltura Campania, sono quasi 200mila (il doppio quindi di quelli in regola), quasi tutti immigrati che guadagnano, se sono fortunati, 25 euro al giorno. «I nostri operai – puntualizza Maria Pina – hanno tutti un contratto regolare: ricevono la paga giornaliera di 35 euro; quelli specializzati arrivano anche a 50 euro». L’azienda di Antonio è a conduzione familiare: coltivano a frutteto tre ettari (che hanno in affitto) e acquistano i raccolti di altre aziende, che poi confezionano per la vendita. Gli operai (uomini e donne, italiani e stranieri) faticano fianco a fianco con il proprietario che abita in campagna con sua moglie e i quattro figli.
«La base delle attività è casa nostra – dice Antonio –: nel cortile confezioniamo la frutta e spesso gli operai restano a mangiare insieme a noi». Antonio non sembra stanco, eppure la sua giornata è iniziata alle tre e mezza del mattino, quando è andato al mercato all’ingrosso a vendere la frutta. I suoi orari non sono fissi, ma si adeguano al corso delle stagioni, così come quelli degli operai: ogni frutto richiede tempi diversi per la raccolta, e il calendario di un’azienda agricola non conosce vacanze. «Dalla metà di gennaio – spiega Maria Pina –, mio padre si dedica al frutteto: insieme agli operai sradica gli alberi secchi e li sostituisce con i nuovi arbusti ». Il resto segue a ruota nei mesi successivi.
Le donne si occupano di volta in volta della raccolta oppure del confezionamento della frutta. Maria Pina conosce le fatiche dei braccianti e non si stupisce di fronte alla stanchezza e alle difficoltà delle sue lavoranti. Anzi. Al ritorno dalla campagna devono sbrigare le faccende domestiche – spiega – . Non so come facciano a ricominciare da capo e dove trovino la forza di gestire casa, marito e figli».



[giovanni luca montanino]
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CALCIO E VIOLENZA

Gli ultras veronesi: non siamo assassini

L’omicidio di Nicola Tommasoli, pestato a morte da cinque ragazzi cui aveva negato una sigaretta, ha scioccato la città di Verona. Gli assassini frequentavano lo stadio: tanto basta perché la tifoseria veronese, nota per episodi di violenza e razzismo, venga messa di nuovo sotto processo. Ma i veri tifosi, le storiche Brigate Gialloblu, non ci stanno: «Quei ragazzi in curva non li abbiamo mai visti – racconta A. L., 25 anni –. Ci conosciamo tutti bene e ci chiamiamo per soprannome». A. L. è in curva sud da ventidue anni: «Mio nonno mi ha portato allo stadio per la prima volta nel 1985, l’anno dello scudetto».

Vive a Milano da sei anni, ma torna a casa ogni fine settimana per seguire la squadra del cuore: «Negli ultimi tempi – racconta – i controlli allo stadio sono più severi: ai tornelli serve almeno mezz’ora tra documenti, metal detector e perquisizione. Siedo sempre al centro della curva sud con gli ultras più tosti, le grandiose Brigate Gialloblu». I tifosi dell’Hellas sono accomunati da un senso di appartenenza forte: «In curva siamo tutti veronesi: parliamo e cantiamo in dialetto. Non tifiamo solo per gli undici in campo, ma per i colori della nostra città». A. L. sa della fama della curva sud e in particolare delle Brigate Gialloblu: «Ci conoscono come una delle tifoserie più violente e intolleranti d’Italia. L’appartenenza politica della curva non è solo una leggenda – ammette –: le Brigate sono di destra estrema, ma in quest’ultimo anno non ci sono stati episodi di violenza o razzismo. Il nostro comportamento corretto è frutto dei controlli delle forze dell’ordine e della Lega Calcio. Non vogliamo creare problemi alla società: la sola cosa che conta è continuare a vedere la squadra in campo e sostenerla. In passato – prosegue – le Brigate Gialloblu hanno compiuto gesti clamorosi: mi viene in mente, ad esempio, il manichino raffigurante un giocatore di colore che venne impiccato sotto la curva. Ma oggi è tutto diverso: i buu razzisti che gridavano una volta contro i giocatori di colore non ci sono più». A. L. respinge le accuse della gente: «Sono fiero di essere un tifoso dell’Hellas. Per noi butei – ragazzi in dialetto veronese – in curva è sempre una festa. Anche adesso che lottiamo per restare in C1 sappiamo prenderci in giro. Inventiamo sfottò sempre nuovi per gli avversari, ma non gli manchiamo di rispetto». A. L. torna serio sull’omicidio Tommasoli: «Cinque deficienti non rappresentano una città. Verona è civile e tollerante. Non è giusto distruggerne l’immagine per riempire le pagine dei giornali: l’omicidio di un giovane basta a suscitare indignazione». «Cinque cretini – prosegue – hanno compiuto un gesto ignobile, e uno di loro frequentava la curva: forse questa è una ragione sufficiente per far passare l’omicidio in secondo piano e condannare tutti i tifosi?».

[giovanni luca montanino]
continua

LIBRI

“Voglia di cambiare”

Tutto comincia con una statistica dell’Università di Cambridge: l’Italia è il paese meno felice d’Europa. Dove le morti sul lavoro, il precariato, le case sempre più costose, i trasporti, l'energia, la sicurezza stradale, lo smaltimento dei rifiuti, la parità tra i sessi sembrano problemi impossibili da risolvere.Salvatore Giannella con il libro “Voglia di cambiare” dimostra che i problemi, anche quelli grandi, si possono affrontare e superare, basta guardare ai modelli di eccellenza degli altri paesi europei.

Un viaggio complesso all’interno della buona politica, quella vera, concreta, lontana dagli slogan cui siamo abituati. Strade, case per tutti, aria pulita e città vivibili non sono un’utopia, ma una realtà che i nostri vicini europei possono sbandierarci sotto il naso senza problemi. La Svezia ha quasi azzerato le morti bianche, conquistando il primato mondiale della sicurezza sul lavoro con l’introduzione di un delegato per la salute e la sicurezza. E guai a fare i furbi: due ministri, infatti, sono stati costretti alle dimissioni per aver retribuito in nero la babysitter e non aver pagato il canone tv. Con l'invenzione della corsia dinamica, in Spagna non si vedono più ingorghi in entrata e in uscita dall'autostrada, mentre i treni corrono superveloci. A Friburgo, in Germania, i cittadini hanno detto no al nucleare, ma contemporaneamente hanno detto sì alle energie pulite e trasformato l'energia solare in un formidabile business. L'Inghilterra ha scelto i migliori architetti per progettare case popolari di pregio e quartieri a misura d'uomo, e con controlli severi ha dimezzato le stragi sulle strade. I danesi non hanno più l'incubo della precarietà grazie alla "flessicurezza", mentre a Copenhagen i rifiuti vengono bruciati nel cuore della città, in regola con le leggi (e con tecnologia made in Italy). Una valanga di esempi concreti che inducono sensazioni contraddittorie: da un lato delusione per la triste situazione italiana, dall’altro fiducia nella possibilità di migliorare le cose. I problemi non sono né di destra né di sinistra. Non è importante se ad affrontare un problema sia un governo di un certo colore: quello che conta è distinguere tra i politici che fanno le conferenze stampa per annunziare l'inizio di un progetto e quelli che lo fanno dopo. Quelli che lavorano col pensiero della prossima campagna elettorale e quelli che lavorano pensando alle prossime generazioni, al futuro. Con la voglia e la risolutezza, con regole precise, condivise e rispettate da tutti risolvere i problemi si può e le soluzioni sono di una semplicità sconfortante. La buona politica è anche alla nostra portata.

[gaia passerini]
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IMMIGRAZIONE

Mamadou va a morire e noi non lo impediamo

Mamadou ha 34 anni, è nato in Mali e cresciuto in Gambia. Parla correntemente inglese, francese, bambara e wolof, due dialetti dell’Africa nera. Ha conosciuto la guerra e la povertà e perso il padre e cinque fratelli per malattia. Lui rappresenta le migliaia di giovani che ogni anno muoiono durante i viaggi della speranza tra le coste africane e la terra promessa europea. Mamadou va a morire – La strage dei clandestini nel Mediterraneo è il titolo di un reportage che proietta gli abitanti del cosiddetto Primo Mondo sui barconi dei migranti più disperati, quelli disposti a pagare 500 euro per delle traversate il più delle volte senza ritorno.

Gabriele Del Grande, un giovane giornalista dell’agenzia di stampa Redattore sociale, ha trascorso un anno nel Maghreb, seguendo le rotte dei clandestini in Turchia, Grecia, Tunisia, Marocco, Sahara Occidentale, Mauritania, Mali e Senegal. Le loro storie sono state raccolte nelle 150pagine di un saggio portato nelle librerie qualche mese fa da Infinito Edizioni e ora giunto alla prima ristampa.
Del Grande, particolarmente sensibile al tema dell’immigrazione, ha fondato nel 2006 il blog Fortress Europe (Fortezza Europa), un osservatorio che monitora costantemente l’invasione che non c'è, riportando verità distanti anni luce da quelle strombazzate dai media ufficiali. «Nel 2006 almeno 1.024 giovani africani sono morti lungo le rotte atlantiche verso le isole Canarie, nella totale indifferenza della Spagna, dell’Unione europea e dei Paesi di origine delle vittime, capaci soltanto di rinnovare vetusti proclami contro l’immigrazione clandestina e di militarizzare ancora di più le frontiere – si legge nel reportage –. Ma, al di là degli allarmismi, i dati parlano chiaro: nel 2005 il governo spagnolo regolarizzò 690mila immigrati irregolari: il 20% erano ecuadoregni, il 17% rumeni e il 12% marocchini, seguiti a ruota da colombiani, boliviani e bulgari. Le richieste provenienti dall’Africa sub-sahariana, da cui tutti temono l’invasione della penisola iberica, non superavano il 4% del totale». I ragazzi come Mamadou, che decidono di bruciare le frontiere, ovvero di abbandonare patria e famiglia per ritrovare la speranza, parlano della loro vita come di un continuo combattimento per l’avvenire. Romeo è nato nel 1981 e in Camerun faceva il calciatore in una squadra della prima divisione. È partito con una videocassetta delle sue migliori partite in valigia e un sogno: la Liga, la serie A spagnola. Oggi, dopo tre anni di vita buttati, ha fondato Aracem, l’associazione dei deportati dell’Africa centrale in Mali. Quando qualcuno gli chiede perché ha lasciato il suo Paese, risponde così: «Se ci tuffiamo nel deserto è per cercare qualcosa. Siamo tutti soldati perché lottiamo contro la nostra miseria. Non la stiamo fuggendo, la combattiamo. Tutti quelli che oggi si trovano nel Sahara sono dei combattenti, come quelli che ci sono già passati e quelli che presto partiranno». Alle speranze di chi lotta per garantirsi un domani, fanno da contraltare le reazioni di chi non vuole rinunciare alle certezze del presente e le vede insidiate. Nell’ultima categoria rientra anche l’Italia, di cui il lavoro di Del Grande mette impietosamente in luce le colpe: dall’agosto 2003 al dicembre 2004 il nostro governo ha finanziato 47 voli della Air Libya Tibesti e della Buraq Air, per un totale di oltre 5mila passeggeri rispediti nei Paesi d’origine. Tra loro, 55 sono stati costretti a tornare in Sudan e 109 in Eritrea: 164 potenziali rifugiati politici deportati in Stati in guerra, contro ogni convenzione internazionale sul diritto d’asilo. Dati alla mano, il reportage punta il dito anche contro i media: «A raccontare l’immigrazione clandestina è sempre più un giornalismo lontano dai numeri e viziato dalla spettacolarizzazione, che vede solo extracomunitari, assalti a Lampedusa, invasioni, ondate e maxisbarchi». Mamadou va a morire è un pugno nello stomaco, ma anche un ottimo spunto di riflessione.

[lucia landoni]
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CULTURA

Il Sogno senza tempo

Confrontarsi con un macigno creativo come il Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare è una prova di coraggio e avventatezza, specialmente se a provarci è una compagnia giovane. Colpa del numero e la qualità dei precedenti. Ed è per questo che portare in scena il Sogno vuol dire tentare di entrare in comunicazione con un pubblico che, in misura diversa, ha già dentro qualcosa di quell’opera.

È più facile raccontare una storia confinata in un recinto spazio-temporale preciso, invece che evocare le atmosfere eterne del “Sogno”, da cui ogni sensibilità si attende di provare certe sensazioni. La compagnia Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa riesce a mantenere intatte le tre anime dell’opera: natura, magia e passione, facendole percepire alla platea quasi come elementi fisici presenti sul palco. Il testo, rivisto da Mirca Rivieri, si concentra maggiormente sugli amori alterati da sostanze capricciose, ed è un bene perché esalta le capacità degli attori, più a loro agio nel rappresentare dinamiche affini alla loro età. Le interpretazioni più efficaci sono proprio quelle dei giovani Elena (Silvia Masotti), Ermia (Giulia Valenti), Demetrio (Matteo Romoli) e Lisandro (Giorgio Sangati). A conquistare il pubblico è in particolare l’interpretazione di Silvia Masotti, così stralunata, spaesata, tenera e buffa. Ben più complesso il compito di Caterina Simonelli e Fausto Cabra che, impegnati nei ruoli di Titania e Oberon, faticano a incarnare la drammaticità dei loro personaggi, adulti e regnanti. Vive invece un crescendo interpretativo durante la rappresentazione Giorgio Consoli che, nei panni del giullare Puck, fa da tramite tra personaggi e pubblico, custodisce l’essenza del teatro e strappa più di una risata. Alice Bachi e Rosanna Sparapano, con un accorgimento semplice e d’effetto, rendono imponenti e scenografici i costumi del re e della regina delle fate, lasciando invece minimali gli abiti degli altri personaggi. Visioni di Shakespeare ha il pregio di riuscire a tratteggiare il volto di quell’amore proprio degli amanti giovani, sciocco e carnale, ironico e delicato, incontrando l’apprezzamento nostalgico o la fremente aspettativa di buona parte del pubblico. Lo spettacolo ha una marcata componente corporea fatta di inseguimenti e cadute, di lotte e di arrampicate che, oltre ad essere ben riuscite, danno ritmo e vitalità all’andamento della storia.

[emidia melideo]
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