CONFLITTO DI GAZA

Intervista a Nahum Barnea

«Non ci sono dubbi che le operazioni militari organizzate da Israele sono state condotte ad ampio spettro. Il punto è che sono durate anche molto più a lungo di quanto ci si aspettasse», racconta da Gerusalemme Nahum Barnea, una delle penne più autorevoli del giornalismo israeliano, intervistato in esclusiva da m@g. Barnea, che scrive per il quotidiano Yedioth Ahronoth e ha vinto il premio Israel Prize per la comunicazione, ha perso un figlio nel 1996, in un attentato kamikaze di Hamas a un autobus di linea. Al funerale ha perdonato pubblicamente l’assassino, considerandolo vittima della stessa tragedia che affligge il popolo palestinese. Da anni si spende per favorire il dialogo nell’ambito del conflitto arabo-israeliano.

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[viviana d'introno e cesare zanotto]

L'INTERVISTA

La voce della libertà

Yang Lian, nato in Svizzera nel 1955 ma cresciuto a Pechino, è oggi uno dei maggiori poeti contemporanei e una tra le voci più importanti della dissidenza cinese. Esiliato dalla Repubblica Popolare Cinese dopo avere duramente criticato nel 1989 la repressione di Piazza Tiananmen, vive all’estero da vent’anni. È stato candidato al Premio Nobel nel 2002 e le sue poesie sono state tradotte in 25 lingue. Yang Lian interpreta lo spirito della millenaria cultura cinese attraverso la sua esperienza da esule. Una riflessione sulla condizione generale dell’uomo ma anche un invito alla speranza per milioni di cinesi che chiedono democrazia.

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[marzia de giuli e luca salvi]

L'INCHIESTA

È un’emergenza che dura da oltre vent’anni. I territori tra Napoli e Caserta sono uno stato nello stato dove l’unico potere reale è quello della Camorra. Nonostante i blitz, gli arresti e l’invio di soldati e poliziotti, i clan continuano a fare affari in un cono d’ombra in cui convivono l’economia legale e la politica. Ne abbiamo parlato con Andrea Cinquegrani, direttore de La Voce della Campania (oggi La Voce delle Voci).

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[alberto tundo]

MARIO CAPANNA

Onda e '68 a confronto

Quarant’anni dopo la protesta che ha segnato un’epoca, gli studenti italiani sono ancora in piazza. Secondo alcuni osservatori, l’Onda, che contesta la riforma Gelmini, è la fotocopia del’68. Altri la pensano diversamente. Mag ha chiesto un’opinione a Mario Capanna, ex studente dell’Università Cattolica e leader del movimento nel 1968.

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[cesare zanotto]

CIBO E MEMORIA

Viaggio nel gusto italiano


La relazione tra il cibo e la memoria è uno degli aspetti più profondi e antichi della cultura italiana e internazionale. Emblema di questo nesso è la madeleine che risveglia i ricordi dell’infanzia di Marcel Proust nel romanzo Alla ricerca del tempo perduto . Che cosa pensano i gourmet più affermati e i cuochi più celebri del nostro Paese del rapporto tra lo stile di vita dei nostri tempi e i cambiamenti nel gusto culinario, sempre più lontano dalla tradizione culinaria? La risposta nel servizio.

[francesco perugini]

GIORGIO BOCCA

Intervista sulla crisi del giornalismo italiano


Nessuno meglio di Giorgio Bocca può aiutarci a riflettere sulla crisi che sta vivendo oggi la professione di giornalista. "E' la stampa, la bellezza!", il suo nuovo libro vuole essere un'occasione per riflettere sul destino di un mestiere che sembra aver perso le sue virtù. In Italia la carta stampata appare schiacciata dalle pressioni della politica e dell’economia, incapace di reagire allo strapotere della comunicazione televisiva, non più in grado di scandagliare i mutamenti reali della società. Abbiamo approfondito queste e altre questioni nell'intervista.

[gaia passerini]

CONVERSAZIONI ITALO-ISRAELIANE

Scrittura di frontiera, arare oltre i confini del dialogo

Un taglio netto nella terra, un solco che si perde alle spalle del vomere che incide il suolo. Non c’è immagine migliore dell’aratro al lavoro per individuare il concetto di confine, un’astrazione che, da che esiste l’uomo, assolve il compito difficile e innato della delimitazione dello spazio. Uno spazio che non è solo misurabile, tutt’altro. La metafisica frontiera del pensiero, così come le Colonne d’Ercole confine ultimo della φύσις (la “natura”) aristotelica e della curiositas del mondo antico. L’umanità è cresciuta di pari passo con l’impellente necessità di delimitare, porre una frontiera ultima di proprietà e quindi di misura della stessa. Ma in questo flusso dal divenire continuo, nulla è per sempre. Il limes traianeo dell’impero romano è caduto, la cortina di ferro comunista pure, così come il muro di Berlino, icona della subdola separazione dell’uomo in seno all’ideologia, si è sgretolata sotto i colpi di piccone sferrati dalle stesse persone che si augurava di separare per sempre.

Ma il concetto di confine, accompagnato da quello di frontiera - differente nel particolare ma assai simile nel principio primo – può in qualche modo divenire metafora del luogo del dialogo per eccellenza? Se non in politica, dove sembra che la ragione ultima dell’idea di guerra si esaurisca proprio dentro alla questione di spartizione territoriale, sicuramente può esserlo in letteratura. Gerusalemme è stata luogo, più che simbolico, di rappresentazione di questa possibilità. In merito all’incontro Dialoghi italo-israeliani, Claudio Magris e Abraham Yehoshua davanti a una platea illustre, composta tra l’altro da Giorgio Napolitano e Shimon Peres, hanno disquisito delle proprie esperienza di uomini e scrittori posti davanti alla linea di confine. La cortina di filo spinato che, poco a est di Trieste, separava Magris dalla Jugoslavia di Tito e dal blocco stalinista, si è incontrata con la geografia a pelle di leopardo israeliana, sinonimo della travagliata esperienza di un popolo, quello ebraico, privo di confini e frontiere per eccellenza.

Per Magris la componente mitteleuropea si traduce in una tensione continua alla ricerca di se stessi, di un uomo cresciuto «in una terra di nessuno tra due frontiere, che ha reso sempre difficile ai suoi scrittori definire un’identità». Come per l’autore de Il mio Carso, Scipio Slapater, anche per Magris «quest’incertezza, questa appartenenza plurima è succhiata nel sangue», segno del trauma che questi “confini” travagliati hanno lasciato nella coscienza letteraria di scrittori friulani, Italo Svevo compreso. La campana ebraica suona invece un’altra musica. Se per i triestini è proprio il confine il problema, per la cultura ebraica il dramma si consuma nella diaspora, ovvero la mancanza assoluta degli stessi confini. Una fortuna, verrebbe da dire a caldo, ma per il popolo errante dai tempi di Abramo, il sogno di una terra promessa, fine ultimo del sionismo di Theodor Herzl, ha trovato compimento con Israele. Secoli di spostamenti e di una cultura “take-away”, dal 1948 hanno una base territoriale in cui riconoscersi. Per Yehoshua è il sionismo che ha dato a un popolo il significato di frontiera, ma è altrettanto paradossale il corso della storia: «In fondo, è simbolico che questo popolo, abituato ad attraversare con facilità tutte le frontiere, con altrettanta facilità sia stato radunato in un non luogo come Auschwitz». Ebrei cosmopoliti quindi, intellettualmente fertili, ma a che prezzo? Olocausto a parte, le vicende dello Stato d’Israele parlano da sole.

«Come sostiene Claudio Magris esiste da sempre un’identità di frontiera, così come esiste una letteratura di frontiera – spiega Predrag Matvejevič, scrittore e docente di Slavistica all’Università La Sapienza di Roma –; la speranza è che questa serva ad avvicinare e non ad allontanare». Nell’era dell’Europa unita e dell’affermazione dello Stato d’Israele, parlare di confini e frontiere potrebbe suonare anacronistico. Non è certo così. Concepire le frontiere solo come un ostacolo fisico è qualcosa di riduttivo se non ingenuo. Abbattute le dogane europee per gli stati dell’unione, dopo Maastricht, rimangono da saltare barriere ideologiche. «Affrontando le parole di frontiera e confine bisogna considerare che l’una è circoscritta alla concezione di spazio, l’altra intende una linea. Sono i confini che generano la maggior parte dei problemi, mentre la frontiera non è che una risultante di questa azione esercitata dal confine – spiega Matvejevič –. Le tipologie di confini e frontiere possono essere molteplici: statali, nazionali, politici, religiosi e soprattutto culturali. Sono questi quelli che generano maggiori preoccupazioni. Tacito aveva compreso appieno il problema e aveva individuato (nel suo trattato La Germania ndr) una frontiera ben precisa tra romani e germani e la definiva mutuo metu, una “mutua paura”. La stessa che noi, abitanti dell’Europa dell’est, abbiamo subito involontariamente sotto il dominio staliniano». Ma l’analisi dello scrittore croato si spinge oltre e inverte i ruoli. Se prima il terrore del diverso veniva indotto dalle dittature dell’est verso ovest, ora il problema è rovesciato. Gli scettici stanno ad occidente: «Dopo il crollo del muro di Berlino, molte barriere sono cadute – conclude Matvejevič –. È rimasto però qualcosa che divide l’Europa dall’altra Europa. Che cos’è? E qual è la sua alterità? Questo si riferisce a una frontiera di cui non siamo coscienti. Noi che veniamo dal regime sovietico vediamo un atteggiamento “euroscettico”. Anche verso la Polonia, che maggiormente si era opposta al blocco comunista. Dobbiamo prendere in viva considerazione questo fenomeno in vista dell’Europa di oggi e di domani, quella che esiste e quella che dovrebbe esistere».


[francesco cremonesi]
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EDUCAZIONE E SPORT

Allenare campioni, allevare uomini

È ormai una questione di folklore: in ogni italiano medio sonnecchia da sempre un allenatore incompreso, un cittì pronto a vaticinare su marcature, diagonali e moduli ogni volta che c’è la nazionale in tivù o che si avvicina a un campetto di periferia. Ma se fare l’allenatore è un sogno, essere allenatore è invece il risultato di un lungo percorso, che non finisce con un patentino.

Il lavoro del “mister”, infatti, non è solo insegnare disposizioni tattiche e fare le giuste sostituzioni, ma implica anche saper vivere in un ambiente fatto di intricati rapporti con molti interlocutori: la società, i colleghi, le famiglie e soprattutto i propri giocatori. Si tratta di un ruolo socialmente rilevante, in un Paese che conta 720.212 tesserati Figc dai sei ai 16 anni e ben 6.880 scuole calcio. Lo ha detto anche Adriano Galliani, al termine del corso “Allenatore oggi: tra formazione e prestazione”, organizzato dal Milan presso l’università Cattolica: «L’infanzia e l’adolescenza sono età particolari: un allenatore può rappresentare una figura significativa nella crescita dei ragazzi». Che educare sia implicito nell’allenare è un fatto percepito in tutto l’ambiente. Per Alessandro Bortolotti, professore di Pedagogia presso Scienze Motorie a Bologna, «un allenatore è educatore volente o nolente. Ma per una riflessione sul proprio ruolo educativo, corsi simili sono fondamentali». Soprattutto, un allenatore non deve fare alcuni errori purtroppo frequenti: «Considerare gli atleti come mezzi per un risultato; ignorare le loro potenzialità; insegnare scorrettezze; essere rude o pretenzioso per non ingenerare frustrazione». E anche se non si arriva in serie A, lo sport può diventare una palestra per la vita, «perché insegna a sopportare la fatica, a imparare le regole e a ottenere risultati attraverso il lavoro».

Spesso però i problemi non si verificano con i ragazzini. Nell’ambiente circola una battuta feroce: «I bambini più fortunati sono gli orfani». I trainer hanno problemi comunicativi con le famiglie, che vorrebbero più attenzione per i loro pargoli. Anche di questo Bortolotti parla nel suo libro Sport addio. Perché i giovani abbandonano la pratica sportiva (La Meridiana): «Un errore che non devono fare i genitori è imporre la scelta dello sport al bambino». La sindrome da accerchiamento è in agguato per l’allenatore, che deve guardarsi anche dai colleghi. Paolo Gatti è il coordinatore tecnico dei Milan junior camp e fondatore della società Lombardia Uno, una delle più grandi Scuole calcio rossonere. «Il nostro – dice – è un lavoro artigianale e quindi c’è poca propensione al confronto fra di noi, che siamo spesso presuntuosi e cocciuti. È vero, bisogna migliorare i rapporti fra colleghi. Il corso della Cattolica è servito per aprire un confronto e una maggiore introspezione nel gestire i rapporti». Parlare di psicologia agli allenatori non è impossibile. Caterina Gozzoli della Cattolica di Brescia ce l’ha fatta e per una volta ha messo i tecnici dietro i banchi: allenare le menti per allenare i campioni.


[daniele monaco]
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CHINATOWN

Via Paolo Sarpi, ancora malumori

A 10 giorni dall’avvio della zona a traffico limitato siamo stati in via Paolo Sarpi, il cuore della Chinatown milanese. Appena lasciata via Bramante, il “regno” dell’abbigliamento cinese all’ingrosso, ci troviamo di fronte ad una strada insolitamente deserta o quasi. A transitare sono solo le auto dei residenti, i taxi e i furgoni che scaricano merci. Il tutto sotto gli occhi “vigili” di una ventina di addetti della polizia municipale, che battono la via e quelle limitrofe per fornire indicazioni ai cittadini sulle modifiche introdotte a partire dal 17 novembre. Qualcuno di loro, alla nostra vista, sembra preoccupato. Non sono autorizzati ad esprimere pareri sulla vicenda, ma alla fine riusciamo a strappare qualche impressione: «I residenti sono molto felici, quelli delle vie adiacenti e i commercianti sono imbufaliti», dice un vigile urbano.

Eh sì, perché gli abitanti sono i veri vincitori dell’“affaire Sarpi”: un tempo parcheggiavano di notte per aggirare le strisce blu a pagamento, ora sguazzano tra quelle gialle alla ricerca del parcheggio più comodo. E poi, per i meno fortunati, c’è sempre l’appendice concessa dal comune in via Albertini, via Signorelli, via Messina. Facciamo qualche metro e ci imbattiamo nei primi carrelli “sospetti”. I vigili chiedono blandamente spiegazioni, ma alla fine lasciano correre. Il provvedimento dell’amministrazione Moratti parla di scarico consentito nei giorni feriali dalle 10 alle 12,30, eppure se ne vedono di tutti i colori anche al di là della suddetta fascia oraria. Di sicuro i commercianti cinesi e i loro clienti non difettano d’ingegno: biciclette, carrelli e addirittura passeggini utilizzati per trasportare merci di ogni genere, che si tratti di bistecche, jeans o lattuga fa lo stesso. Il titolare di un negozio di pelletteria, un cinese da 40 anni a Milano, ma da poche settimane in Sarpi, è visibilmente contrariato: «Decide il sindaco e noi subiamo le sue decisioni senza poter fare nulla. Non essendoci il passaggio delle auto, le vendite calano e le persone si lamentano». A suo dire si tratterebbe di un provvedimento adottato con motivazioni «razzistiche per costringere i cinesi a lasciare la zona». Sulla stessa lunghezza d’onda due suoi connazionali che gestiscono un minimarket. « Negli anni ’90 via Bramante e via Sarpi erano spente, il nostro arrivo le ha rivitalizzate. Stanno semplicemente cercando di mandare via i cinesi, i grossisti in particolare», afferma una dei due esercenti. Per il suo compagno c’è bisogno di «maggiore dialogo con i residenti e di regole certe per i grossisti per risolvere la questione».

Decidiamo di sentire la “campana italiana” ed entriamo in un negozio di calzature. «L’isola pedonale andrebbe bene - dice il negoziante - ma così non si può andare avanti per molto». Il commerciante lancia poi una provocazione: «Mi farebbe piacere conoscere l’architetto che ha progettato i marciapiedi. Non sarebbe stato meglio inserire delle fioriere, visto che il comune parla tanto di miglioramento del decoro urbano della zona?». Secondo l’esercente l’istituzione della Ztl sarebbe «figlia dei problemi tra i residenti ed i grossisti cinesi» e i commercianti al dettaglio che hanno fatto un investimento importante allo stato attuale «rischiano di morire».

Il nostro tour nella vicenda Sarpi si conclude nell’erboristeria di Francesco Novetti, presidente di SarpiDoc, un’associazione che raccoglie circa 40 commercianti al dettaglio sia italiani che cinesi.
Novetti ci spiega che «la Ztl è stata prospettata dal comune come fase intermedia rispetto alla creazione dell’isola pedonale». «Se così fosse realmente, la situazione odierna sarebbe tollerabile altrimenti bisognerebbe rivedere l’intero progetto», sostiene l’erborista. Quanto al calo delle vendite segnalatoci dagli altri esercenti, il numero uno di Sarpidoc ci sembra più cauto: «È ancora troppo presto per esprimersi, tra una decina di giorni riunirò gli associati e avremo un quadro più chiaro». In sostanza, la sperimentazione della Ztl in via Paolo Sarpi è partita con due mesi di ritardo rispetto ai programmi della giunta Moratti e Novetti non nasconde la sua preoccupazione proprio per il lancio in prossimità del periodo natalizio, di solito “terra di conquista” per i negozianti.

[pierfrancesco loreto]
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DIGITALE TERRESTRE

Rai e Mediaset insieme con la nuova piattaforma Tivù

Rai e Mediaset a braccetto. Non è un’utopia, ma la realtà che a breve si concretizzerà con la creazione di Tivù, una piattaforma trasmissiva sul digitale che vedrà unite le due big della televisione italiana. I principali broadcaster saranno l'una accanto all'altra per diffondere il digitale, ma continueranno a farsi concorrenza sugli ascolti dei programmi. «È un’iniziativa interessante - dichiara Massimo Scaglioni, docente di storia della televisione e della radio all’Università Cattolica - che ricalca il modello inglese di Freeview avviato nel 2002. In Gran Bretagna anche alcuni canali satellitari sono passati su questa piattaforma, ampliando l’offerta formativa per l’utenza. È quello che dovrebbe accadere anche in Italia per ampliare i contenuti che, al momento, non corrispondono all’investimento tecnologico effettuato». Ma sulla nuova piattaforma Rai e Mediaset saranno ancora antagoniste. A Boing, canale per bambini lanciato dalla squadra del premier, l’emittente di stato risponderà con Rai Gulp. Per quanto riguarda il cinema, invece, Iris, nuova creatura di Mediaset, troverà la pronta risposta di Rai 4, ideato da Carlo Freccero e prodotto da RaiSat.

In generale, però, l’ascesa del digitale in Italia è piuttosto lenta. «È ancora presto per fornire dati ufficiali - prosegue Scaglioni -, ma è quantomeno paradossale che il digitale terrestre sia una piattaforma priva di nuovi contenuti gratuiti. Ciò, invece, è accaduto in Gran Bretagna con grande successo. E poi manca una politica di comunicazione persuasiva come quella che, da anni, attua Sky. Il suo fatturato è in crescita costante, ma dovrà necessariamente livellarsi con il passare degli anni. In quest’ottica le scelte politiche non sono state lungimiranti. Murdoch ha aggredito il mercato televisivo e punta a raggiungere gli 8 milioni di utenti che ha già in Inghilterra. Il decoder del dtt, invece, è presente in molte famiglie ma spesso non viene acceso».

In Sardegna, intanto, è già avvenuto lo switch off dei vecchi ripetitori analogici. Adesso il segnale viaggia soltanto attraverso la nuova ed efficiente tecnologia anche se appare quantomeno simpatico che la rivoluzione sia iniziata in una regione che di certo non eccelle nei processi di cambiamento. A metà maggio toccherà alla Valle d’Aosta ed entro il 12 dicembre 2012 (dopo una serie di rinvii) lo spegnimento dei nuovi canali dovrà avvenire in tutti i Paesi dell’Ue. Tutti gli isolani sono passati da un’offerta di 26 canali (10 nazionali e 16 locali) ad una nuova offerta sul digitale di 59 canali (29 nazionali e 30 locali). Ciò accade perché, sulla medesima frequenza, è possibile vedere cinque canali diversi. «L’obiettivo del digitale è quello di riprodurre la televisione generalista accanto ad una nicchia di canali dal consumo frammentato. Ciò sarà realmente utile quando diventerà accessibile per la maggior parte della popolazione».

C’è un ultimo (ma non per questo meno importante) aspetto da considerare. Riuscirà il dtt ad abolire il duopolio televisivo? «Sarebbe auspicabile un maggior pluralismo - conclude Scaglioni - ma è innegabile che i principali broadcaster italiani continuino a godere di alcuni privilegi. La legge Gasparri avrebbe dovuto superare questa situazione e invece lo scenario è immutato». Anche l’associazione Altroconsumo è convinta che lo scenario non cambierà. Compresa la questione di Rete 4 che, dal 1999, occupa abusivamente la frequenza assegnata a Europa 7.


[fabio di todaro]
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IL CONSOLE AMERICANO

«Le relazioni tra Usa ed Europa? Ve le spiego io»

Capire le attuali condizioni dei rapporti tra Stati Uniti e Europa, parlare dei punti chiave del conflitto con uno sguardo al cambiamento al vertice nell’amministrazione americana. Questo lo scopo della tavola rotonda sul tema Negoziare il futuro. Stati Uniti ed Europa tra Bush e Obama organizzata all’università Iulm di Milano, e che vedeva come ospite John Hillmeyer, console Usa per le relazioni con la stampa. Durante l’incontro tra il diplomatico statunitense e gli studenti si sono toccati diversi aspetti delle relazioni tra vecchio e nuovo continente: la tensione al confine tra Russia e Georgia, la leadership europea, la crisi economica e la ricerca di una posizione comune da tenere sul piano internazionale.

Hillmeyer esordisce su Bush e sugli otto anni di mandato dell’ex presidente; non tace alcuni sentimenti tipicamente americani, e non tace nemmeno su come vengano recepiti dagli europei: «Sia in America che in Europa si parla moltissimo di cosa succederà dal 20 gennaio in poi (data di insediamento di Barak Obama, ndr) ma quasi nessuno si è fermato a riflettere sugli otto anni appena passati, bollandoli come negativi. L’amministrazione Bush si era provata, inizialmente, in un periodo in cui c’erano delle prospettive sul mondo diverse da quelle attuali: si avvertiva una maggiore fiducia e si era nel mezzo della bolla della new economy».

Il diplomatico statunitense, però, individua il momento dal quale tutto è cambiato, l’11 settembre. «Il senso di frustrazione degli americani, nel 2001, era altissimo: da una parte l’Onu non era efficace, dall’altra c’era una forte necessità di reagire all’attacco. Necessità non avvertita dall’Unione Europea. Ed è stato per questo che George Bush ha deciso di adottare delle azioni unilaterali». Chiusa la parentesi sul cambio al governo americano il console entra a gamba tesa sull’attuale nuovo gelo tra Usa e Russia sottolineando che «a tratti si avverte una nuova aria da guerra fredda. Ma dobbiamo ribaltare il punto di vista in quanto gli Stati Uniti non guardano più la Russia come un nemico. Mentre questa è rimasta negli ultimi 20 anni comunque guardinga. La Russia deve prendere una decisione netta: o integrarsi nella comunità delle nazioni democratiche o arroccarsi in una posizione isolata, forte delle sue risorse naturali ed energetiche». Dalla crisi energetica alla crisi economica il passo è breve. John Hillmeyer: «La vera guerra in corso al momento non si svolge ne in Iraq ne altrove. L’unico fronte attualmente impegnato in battaglia è quello economico: è la prima crisi mondiale di questa portata da quando esiste la storia dell’uomo. Io abbasserei le aspettative che gli europei hanno nei confronti degli Usa per quanto riguarda un loro intervento massiccio a livello globale per franare la caduta dei mercati. Essenzialmente perché si penserà sì a far fronte alla crisi, ma guardando innanzitutto l’interno del paese. Crisi dei prezzi, disoccupazione e produzione sono problemi che vanno risolti per prima per gli americani e solo il governo potrà pensare al resto del mondo. La crisi è stata causata da un eccesso di deregolamentazione e bisogna studiare per capirne i limiti».

E a uno uno studente, che si chiedeva come Ue ed Usa potessero agire assieme, Hillmeyer da il “la” per parlare dei rapporti politici tra la nazione americana, i singoli stati europei singolarmente prima e nel loro insieme poi: «Gli americani vorrebbero sempre che l’unione europea avesse una posizione comune. Non sapete quanto sia frustrante avere a che fare con 27 interlocutori che dicono cose diverse. La politica americana ha accolto piacevolmente sia la presa di posizione sulla questione georgiana che sulla risposta alla crisi economica. È sempre meglio avere un unico interlocutore forte con cui dialogare, senza dimenticare che agli americani piace mantenere la propria leadership sul mondo».


[raffaele buscemi]
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VENEZUELA

Chavez, vittoria incompleta

Se guardiamo la cartina del Venezuela non ci sono dubbi: a livello numerico Chavez si riconferma vincitore assoluto anche nelle elezioni amministrative del 2008. Con la conquista di 17 stati su 22, il Partido socialista unido de Venezuela, fondato da Chavez nel 2006, sembra garantire al comandante un sostegno popolare diffuso e solido. Nello specifico, dei 326 municipi in gioco, il Psuv ne ha conquistati 263, mentre l’opposizione solo 48. Gli altri posti se li sono spartiti le formazioni minori.

In realtà, l’opposizione conquista posti importanti, riuscendo a strappare al partito del presidente cinque stati, tre in più rispetto alle amministrative del 2004: Zulia, Nueva Esparta, Tàchira, Carabobo e Miranda. In queste zone si concentra la metà della popolazione del Paese, la maggior parte dell’industria petrolifera e il grosso delle attività industriali. Un brutto colpo per la compagine governativa, che si scopre meno gradita tra le fasce più ricche della nazione. Senza dubbio, però, il risultato che più fa scalpore è il trionfo dell’opposizione nella zona di Caracas. La capitale è divisa in cinque municipi ed è guidata da un alcalde mayor . Dopo queste elezioni, quattro dei cinque sindaci, insieme al “sindaco maggiore”, sono dell’opposizione. A Chavez rimane solo il municipio di Libertador.

Nonostante questi dati, Chavez ribadisce la netta vittoria del suo partito. E non a torto. Il partito socialista, infatti, si aggiudica il 77% delle preferenze, grazie a 1,5 milioni di voti in più rispetto agli avversari. La differenza c’è e si vede, ma il passo avanti compiuto dall’opposizione non lascia indifferente Chavez: «Come capo del governo e presidente del partito socialista unito, riconosco la sconfitta in alcuni stati e faccio i complimenti ai vincitori. A loro lancio un invito affinché mantengano un comportamento democratico. Eppure – continua il presidente – il voto è chiaro. Il Venezuela vuole continuare sulla strada del socialismo». Completamente opposta l’opinione di Teodoro Petkoff, direttore del giornale Tal Cual, dichiarato oppositore di Chavez: «I risultati di queste elezioni segnano la sconfitta della prepotenza, dell’arroganza della politica intesa come aggressione, insulto e offesa all’avversario».

Queste elezioni si ricorderanno anche per la massiccia partecipazione popolare. Secondo i dati ufficiali del Cne, Consiglio elettorale nazionale, si è recato alle urne il 65,45% degli aventi diritto al voto. Secondo Tibisay Lucena, presidente del Cne, questo è stato «il tasso di partecipazione a elezioni regionali più alto degli ultimi anni». Prevedibile la soddisfazione di Chavez di fronte a questi dati. Il comandante non si è lasciato sfuggire l’occasione per togliersi qualche sassolino dalla scarpa: «Questo è la vittoria della nostra democrazia, della costituzione. È un risultato storico e ratifica il grande trionfo del sistema politico che regna in Venezuela». Impossibile però dimenticare il comportamento non proprio corretto che Chavez ha tenuto durante la campagna elettorale. Il presidente, infatti, si è più volte rivolto al suo principale nemico Manuel Rosales minacciandolo di rinchiuderlo in carcere per una sospetta evasione fiscale. Inoltre, Chavez ha promosso come candidato per Carabobo, un presentatore di un programma televisivo il cui punto di forza era la denigrazione dell’avversario. Per concludere in bellezza, il presidente aveva promesso l’uso dell’esercito in caso di vittoria dell’opposizione a Carabobo. Accuse e minacce dimenticate una volta usciti i risultati definitivi.

E adesso cosa succederà? Gli avversari del governo temono un nuovo tentativo di Chavez di cambiare le regole del gioco e diventare così presidente a vita. Ora la costituzione consente la rielezione per un massimo di due mandati consecutivi, limite che Chavez ha già raggiunto. Il presidente ci aveva già tentato lo scorso anno, ma un referendum popolare aveva bloccato i suoi piani. Il capo del governo affronta di petto la questione assicurando di non voler riproporre una norma del genere, anche se il suo partito potrebbe riproporla nel 2009. «Anche se un emendamento del genere dovesse essere approvato dall’Assemblea nazionale – si è affrettato a dichiarare Chavez – il via libera definitivo dovrà essere sancito attraverso un nuovo referendum popolare». Di sicuro, comunque, il Partido socialista unido de Venezuela tenterà di far diventare il Paese uno stato sempre più socialista.


[daniela maggi]
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TEATRO FILODRAMMATICI

Fellini, tra un ciak e uno scarabocchio

Rivoltato come un calzino: il Teatro Filodrammatici inverte la scena e sposta il tendone rosso su un “dietro le quinte”. E che “dietro le quinte”, se di mezzo c’è la mano di Federico Fellini. Sono aperte da lunedì – e lo rimarranno fino al 14 di dicembre – le danze della mostra Fellini e la sua musa: disegni inediti della collezione Liliana Betti. Una rassegna di un centinaio di schizzi del maestro realizzati nelle retrovie del set cinematografico, fra un ciak e l’altro, secondo quella che Fellini stesso descriveva come una mania per lo scarabocchio, un “riflesso incondizionato” tutte le volte che gli capitava un qualsiasi pezzo di carta sottomano.

Fumetti e vignette, dunque, in bianco e nero e a colori. Che raccontano le pieghe più o meno nascoste della realtà artistica felliniana, svelando personaggi che erano ancora solo nell’immaginario del regista e che poi avremmo ritrovato nelle sue pellicole. Ma anche filo rosso di un rapporto durato anni: la maggior parte dei disegni è infatti dedicato a Liliana Betti, colei che lavorò fianco a fianco con Fellini per anni, come aiuto regista, addetta stampa, direttrice di casting e, quando serviva, autista. Fu lei – presenza silenziosa che l’autore della Dolce vita amava definire “la boss” – la mano sinistra di capolavori come (1963), Giulietta degli spiriti (1965), Fellini Satyricon (1969), Amarcord (1973) e Casanova (1976). E ancora lei, dunque, nella matita del regista. In tante vesti, caricature sempre affettuose, specchio del rapporto quasi simbiotico che li legava: Liliana alla scrivania con un enorme sigaro; Liliana immaginata ai piedi del letto del regista, a sussurrargli nel sonno idee per i suoi film; e ancora: Liliana, piccola piccola, rannicchiata sulla testa di Fellini con l’occhio al cinematografo, intenta a prendere nota di tutti i suoi pensieri.

La mostra – curata da Enrico Ghezzi e Domenico Montalto – è stata resa possibile grazie a Giuseppe Betti, fratello di Liliana, e su concessione del comune di Adro, nel cuore della Franciacorta, dove è andata di scena in luglio la prima fase dell’esposizione, riscuotendo un inaspettato successo a livello internazionale. Patrocinata dal comune e dalla fondazione Federico Fellini, l’edizione milanese rappresenta, per il Teatro Filodrammatici, il primo atto del “Progetto atelier”, curato da Fabrizio Visconti: un bouquet di mostre ad ingresso gratuito pensate con l’obiettivo di «rendere il teatro come un luogo di sostegno e promozione dell’arte in senso lato – spiega Visconti – per farne un luogo vivo e vissuto a disposizione dei cittadini, e per stimolare la commistione non solo fra il pubblico occasionale e quello abituale, ma anche fra il pubblico di teatro e quello che ama l’arte figurativa».


[tiziana de giorgio]
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ACCOGLIENZA

Regione Toscana, nuova frontiera per l’immigrazione

Di 319mila immigrati regolari, 55mila sono albanesi, 52mila romeni e quasi 26mila cinesi, con un aumento del 10,2% nel 2007. Sono questi i numeri che fotografano la situazione degli stranieri regolari residenti in Toscana. E la Regione che fa? Anziché ribellarsi e prendere contromisure, presenta una proposta di legge (approvata il 17 novembre) che punta a costruire un modello di convivenza fra i cittadini. Il testo si compone di nove capi e 37 articoli: speciale attenzione viene riservata a tutte quelle azioni positive che mirano a facilitare le relazioni tra cittadino straniero e servizi del territorio (come quelli sanitari, dell’istruzione, del lavoro, della casa). Come? Con interventi tesi a superare le barriere linguistiche e culturali che impediscono l’accesso ai diritti più elementari di chi soggiorna in Italia. Ecco alcuni punti della legge: mediante specifici accordi, le competenze acquisite nel Paese d’origine potranno essere valorizzate; grazie alle tessere Stp (straniero temporaneamente presente) verrà favorito agli extracomunitari irregolari (senza che questi vengano denunciati) pieno accesso ai servizi sanitari; attenzione particolare sarà riservata ai soggetti richiedenti asilo, rifugiati, minori e donne vittime di violenza; e in coerenza con la legge n.7 del 2006 è prevista inoltre la promozione di attività di sensibilizzazione e informazione per contrastare le pratiche di mutilazione femminile, con la partecipazione in particolare delle comunità di cittadini stranieri provenienti dai paesi dove sono esercitate. Senza contare che l’insegnamento della lingua italiana sarà di primaria importanza.

«L’aspetto più importante sta nella logica che guida la legge: ovvero una logica di integrazione partecipe, basata sul principio di uguaglianza», spiega Gianni Salvadori, assessore alle politiche sociali della Regione Toscana. «Questo testo di legge – continua l’assessore – è stato il frutto di un percorso concertato e partecipato, durato tre anni, al quale ha contribuito tutta la società toscana. In questi anni abbiamo promosso 76 incontri pubblici in tutta la regione per discutere di immigrazione e spiegare questa legge». Ancora Salvadori: «Se dovesse essere approvata, mi auguro che questa legge possa varcare i confini regionali, magari aprendo un dibattito all’interno del nostro Paese. In alcuni casi ho riscontrato un clima difficile nei confronti di questa proposta a tutela degli immigrati, perché abbiamo stimolato paure vere, ma in realtà questa è una legge fondamentale». Gli articoli che “più stanno a cuore” all’assessore sono quello anti-discriminazione (art.34) e quello a promozione della comunicazione interculturale, che riguarda soprattutto l’insegnamento della lingua italiana (art. 14): «L’obiettivo è far parlare l’italiano, in modo corretto, agli immigrati, in modo che ci sia un’integrazione completa». Conclude l’assessore: «Devono essere loro i protagonisti attivi della comunità in cui hanno scelto di vivere. Una delle condizioni principali per far sì che ciò si realizzi è informarli delle opportunità a loro disposizione».

Un esempio concreto è quello che riguarda la cittadina di Prato, il comune che in Italia ha il più alto tasso percentuale di immigrati rispetto alla popolazione autoctona residente: ben il 13%. Sono infatti circa 24 mila gli stranieri a fronte dei 180 mila abitanti della città. Oltre la metà degli immigrati proviene dalla Cina, poi ci sono albanesi, maghrebini, pakistani e romeni. Ma, nonostante questi dati, non c’è emergenza: «Qui la situazione non è esplosiva soprattutto grazie a due motivi – spiega Andrea Frattani, assessore alla multiculturalità, integrazione e partecipazione del comune di Prato –: innanzitutto questa è per sua natura una città distrettuale con una miriade di imprese, la migrazione è molto accolta in questi microcosmi». «In secondo luogo – prosegue Frattani – abbiamo scelto di rompere uno schema etico offrendo alla città servizi pratici. Prato, insieme a poche altre città (tra le quali Firenze, Brindisi, Bolzano), è il primo sperimentatore a livello nazionale di trasferimento di alcune competenze dalle questure ai comuni: a quest’ultimo vengono infatti assegnate, ad esempio, le pratiche per le cause di soggiorno degli immigrati». Frattani si dimostra decisamente favorevole alla proposta di legge toscana: «La legge regionale lancia un modello per il futuro, propone una nuova idea della società con molti spunti interessanti». Aggiunge l’assessore: «È la prima volta nella storia della Repubblica che non si fa una legge “auspicio”, con la speranza cioè che possa risolvere dei problemi». Spiega Frattani: «Questa legge è bensì mirata, qualcosa si è già verificato prima, dunque è chiaro che possa risolvere dei problemi. Ad esempio, la regione Toscana, prima di stendere la pdl, ha supervisionato il nostro protocollo di accoglienza per i bambini». Un protocollo che a Prato esiste da diversi anni e che prevede la suddivisione dei bambini frequentanti le scuole dell’obbligo in tre diverse classi, a seconda del grado di conoscenza dell’italiano: «A chi sa parlare già bene l’italiano proponiamo solamente attività di laboratorio per la lingua, in classe – racconta l’assessore pratese –; chi appartiene al grado intermedio alterna attività di laboratorio specifiche alla frequenza delle lezioni in classe; per chi invece non sa l’italiano, viene fatta una vera e propria full immersion nella nostra lingua». Frattani lancia infine una frecciata alla Lega Nord: «Altro che classi ponte: il bambino straniero deve potersi relazionare con il bambino italiano, in interazione reciproca; in caso contrario, un figlio di immigrati non arriverà mai a possedere pienamente la nostra lingua». Poi, Andrea Frattani lancia l’ultima stoccata: «Che venga, il ministro Maroni, qui a Prato, a vedere quello che noi facciamo già da anni».

La Caritas di Firenze, in Toscana, è un’organizzazione tra le più attive in aiuto degli immigrati: 18 strutture (dove appunto possono accedere anche stranieri), alcune per le donne, altre per gli uomini, due mense per gli stranieri, quaranta centri di ascolto e circa 6 mila contatti l’anno. «Tra le tante attività – ci dice Alessandro Martini, direttore della Caritas di Firenze –, ci occupiamo di chi ha bisogno del permesso di soggiorno e, unici a Firenze, gestiamo dei servizi per i richiedenti asilo politico e profughi». Il direttore si mostra decisamente favorevole alla proposta di legge varata dalla Regione: «È una legge molto positiva che vede l’integrazione come elemento fondante, l’obiettivo che si prefigge è alto». «È un chiaro messaggio della volontà di arrivare a far vivere l’immigrazione come un percorso di normalità. Perché ormai questo è un processo di non ritorno. L’immigrazione – conclude Martini – è molto utile, è una risorsa: è solo un bene che si sia arrivati a questa legge».
Come dargli torto.


[cesare zanotto]
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ARTE IN MOSTRA

Caravaggio, il mistero delle Conversioni

Questa non è Damasco. È Milano, con tanto di gonfalone, e con un santo, Ambrogio, a rappresentare la città ospite. Ma La conversione di Saulo del Caravaggio folgora lo stesso chi passa dalle vie del centro. E qui, nel salone Alessi di Palazzo Marino, dopo un accurato restauro, è in mostra la pala di Michelangelo Merisi, grazie anche al patrocinio dall’Eni.

La storia della pala è nota: di proprietà della famiglia Odescalchi, venne commissionata a Caravaggio nel 1570 da Tiberio Cerasi per decorare la cappella di famiglia a Santa Maria del Popolo a Roma, dedicata ai Santi Pietro e Paolo. Cerasi, però, morirà pochi mesi dopo. Caravaggio, nel frattempo, aveva consegnato due tele: La crocifissione di San Pietro e La conversione di San Paolo. Ma la pala de La conversione di Saulo, destinata a Santa Maria del Popolo, e commissionata dal Cerasi, in quella chiesa non arriverà mai. Le cause del cambio non sono note e le ipotesi si sprecano. Quel che è certo è che, dopo essere passata dalle mani della nobiltà di mezza Europa, la pala entra in possesso della famiglia Odescalchi che la possiede tuttora.

Il Saulo di questa pala è un uomo adulto, al contrario del giovane Paolo protagonista della tela di Santa Maria del Popolo. Nell’angolo in alto a destra un angelo sostiene con le braccia Gesù a braccia aperte nell’atto di ricevere Saulo a sé. Questi due personaggi sono assenti nell’edizione della tela romana dedicata al santo. La scena centrale è occupata da un vecchio soldato che cerca di scacciare con la sua lancia la fonte del turbamento di Saulo, mentre sullo sfondo un cavallo bianco scarta violentemente. Nella tela di Santa Maria del Popolo, invece, un servo disarmato che sembra disinteressarsi dell’azione tiene le redini di un tranquillo cavallo baio a disarcionamento ormai avvenuto. Questo è un Caravaggio dalle influenze fiamminghe e leonardesche per la calligrafia nella pittura di armi e decorazioni, e per l’attenzione al paesaggio naturale. Dal raffronto generale, però, l’atmosfera del dipinto è distante dalle opere esposte a Roma soprattutto per i colori vivaci, che richiamano alcuni dipinti della prima fase della pittura del Merisi, come I bari o La buona ventura. Le due tele di Santa Maria del Popolo, invece, rappresentano appieno lo stile caravaggesco, fatto di scarna essenzialità e di colori scuri. Un processo del tutto simile porterà alla rielaborazione della Cena in Emmaus, di cui la prima versione datata 1601, più colorata e meno drammatica, nel 2009 verrà prestata dalla National Gallery di Londra, dov’è esposta, alla Pinacoteca di Brera per essere accostata alla sorella, La cena in Emmaus del 1607.

In questa tourneè milanese, la pala viene esposta in una teca di cristallo che la protegge e permette una perfetta illuminazione. Questa sistemazione, tra l’altro, permette ai visitatori di ammirare il supporto in cipresso realizzato da alcuni artigiani romani nel diciassettesimo secolo per il dipinto del Merisi. Il primo fine settimana della mostra è stato fulminante: code all’ingresso (libero), molti turisti, molte scolaresche, pochi milanesi. E, passata la tempesta dei primi giorni, si spera che il fuoco dell’arte attecchisca in questa città. Magari accendendo l’attenzione sulla Cena in Emmaus, attesa tra qualche mese, a Brera.


[alessia scurati]
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CRISI OCCUPAZIONALE

I miei primi 40 anni (di lavoro)

Qualcuno la definisce midlife-crisis, qualcuno la chiama semplicemente “crisi dei 40 anni”. La perdita del lavoro tra chi transita nella cosiddetta “mezza età” in Italia è un fenomeno diffuso, che spesso trascina con sé implicazioni ben più gravi e non necessariamente riconducibili alla sola dimensione salariale. Chi si ritrova senza un’occupazione in questa fascia d’età deve fare i conti con realtà lavorative non sempre disposte ad accogliere e ricollocare i soggetti che vivono questa fase di transizione. Gli esperti ritengono che la tendenza all’espulsione di figure professionali ritenute ormai “obsolete” sia assimilabile ad aspetti macro, spesso riconducibili anche agli assetti politico-economici e alla situazione di instabilità generale, che fa respirare precarietà un po’ ovunque. E l’esperienza pregressa non basta a giustificare la permanenza in azienda di figure che il mercato del lavoro addita come pezzi d’antiquariato.

Il passaggio dall’età della giovinezza a quella della maturità implica di per sé una crisi che è prima di tutto personale. La svalutazione professionale è spesso direttamente proporzionale a una svalutazione di sé connessa a situazioni che possono sfociare, nei casi più gravi, in forme depressive. Ai drammi esistenziali dei soggetti in questa fascia d’età si aggiungono anche quelli che gli esperti chiamano stereotipi cognitivi. Uno tra tutti è quello dell’ageism, secondo il quale il lavoratore anziano diventa obsoleto e perde di efficienza. Alla stregua di un qualsiasi oggetto high-tech, dopo un periodo di utilizzo, inevitabilmente il lavoratore va sostituito. E, in quest’ottica, il gran numero di laureati sfornati quotidianamente dalle università risulta funzionale a un ricambio costante di personale, con un notevole risparmio economico e la resa ottimale di chi si approccia con entusiasmo alla professione. Tutto sembra, insomma, andare contro al 40enne che, per i motivi più disparati, si ritrova senza un’occupazione. Sentore, questo, che sembra essere anche piuttosto condiviso. Otto persone su 10 pensano, infatti, che un over 40 abbia meno opportunità di trovare lavoro rispetto ai candidati più giovani. Ed è questo uno dei motivi per il quale si tende a puntare sui cosiddetti talenti, che le nuove realtà lavorative ricercano e selezionano con accuratezza.

Se per le donne ritrovarsi a 40 anni senza un lavoro costituisce anche un espediente per concentrare maggiori energie sulla famiglia, dedicandosi per periodi più o meno lunghi ai figli e alla casa. Per l’uomo, invece, spesso non esiste un ripiego in grado di giustificare il proprio fallimento e la conseguente uscita dal processo produttivo. Il 40enne che, suo malgrado, rinuncia alla carriera deve mettersi in discussione in prima persona per trovare una nuova collocazione personale, anche all’interno degli spazi domestici. Sentirsi d’intralcio e percepirsi come “di troppo”: sono questi i sentimenti più diffusi tra gli uomini licenziati appartenenti a questa fascia d’età che stazionano in una sorta di paralisi. Il desiderio di carriera nella donna è spesso scatenato da esperienze personali deludenti. Così, il fallimento di un matrimonio può essere letto in chiave positiva dal punto di vista professionale: la donna che non si sente realizzata attraverso la famiglia trova nel lavoro nuove occasioni per esprimere sé stessa.

La mancanza del lavoro implica anche la perdita di riferimenti legati alla dimensione quotidiana. Uno degli aspetti più evidenti è la progressiva carenza della strutturazione del tempo quotidiano. Abituato ai ritmi scanditi dalla giornata lavorativa, il licenziato perde la cognizione del tempo e progressivamente rinuncia alle forme di socialità e aggregazione, tipicamente da ufficio. A partire dalla metà degli anni ’90 le stime parlano di migliaia di espulsioni di lavoratori considerati “maturi” e il dato attuale individua oltre 600mila disoccupati tra gli over 40, che cercano di ricollocarsi professionalmente. In una società che ricerca teste giovani e dove sembrano trovare posto solo i presunti talenti, trovare una nuova posizione in ambito lavorativo può presentare non poche insidie. Riprendere in mano il proprio curriculum vitae e affrontare un colloquio dopo anni di inattività è per molti uno scoglio difficile da superare. Investire in formazione, imparando anche a proporsi in maniera diversa può rappresentare il vero punto di svolta.


[roberto usai]
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SAGHE CULT

Quando guardavamo Dallas

Cosa resterà degli anni Ottanta? Qualche migliaio di bambine nate dopo il 1981 vi mostrerebbero la carta d’identità per farvi vedere come i loro esterofili genitori abbiano deciso di perpretrare la propria affezione televisiva battezzandole nel nome di Sue Ellen, quella first lady dei petrolieri televisivi e moglie del mitico John Ross Ewing, noto in tutto il globo terracqueo come JR (Geiar in maccheronico corrente). Un nome che molte donne (e di sicuro quasi tutte le nonne) hanno imparato a pronunciare senza aver avuto una lezione d’inglese prima d’allora. Tutto questo nonostante Geiar sia il cattivo per antonomasia dopo l’Innominato e prima dell’innominabile Voldemort.

La questione è che Dallas è tornata a far parlare di sé nel trentesimo anniversario della messa in onda della sua prima puntata. In questi giorni i primissimi episodi della prima stagione vengono trasmessi da Hallmark Channel, visibile sulla piattaforma Sky. Per questo all’Università Cattolica di Milano si sono ritrovati a parlarne Aldo Grasso, docente di storia della televisione, Maria Rosa Mancuso, giornalista della terza pagina del Foglio, e Luca Federico Cadura, responsabile di Hallmark Channel in Italia. Era, appunto, il 1981. In quel tempo la Rai acquistò le prime cinque puntate di una soap opera dal nome evocativo di Dallas, il luogo noto al mondo per l’attentato al presidente Kennedy. Nel 1981 la televisione aveva trasmesso le immagini di altri due attentati, quello a Reagan e quello a papa Giovanni Paolo II. Successivamente c’era stata la tragedia mediatica di Vermicino che aveva tenuto incollato il pubblico allo schermo. Arriva dunque Dallas e sconvolge la concezione italiana della tv didascalica che deve educare. Silvio Berlusconi ne approfitta: vola a Los Angeles con il libretto degli assegni alla mano, compra tutte le puntate della soap e inventa la controprogrammazione. Dallas, programmato bisettimanalmente nelle giornate in cui la Rai trasmette programmi a modesta audience, fa decollare gli ascolti della neonata Canale 5, inaugurando l’era del duopolio televisivo.

La sceneggiatura introduce due novità destinate a fare la storia della televisione: una vicenda imperniata su personaggi cattivi e una rivalità familiare riconducibile all’archetipo di Caino e Abele (nella fattispecie, il noto JR e Bobby Ewing). I personaggi fondamentali sono cristallizzati nella loro cattiveria immutabile per 13 serie e 357 episodi, riversata su personaggi- vittima: in primis, Pamela, la moglie di Bobby. I modelli dei personaggi sono da rintracciare nella tradizione melodrammatica, che, secondo una definizione di Fassbinder, mette in scena un cattivo molto cattivo e un innocente molto innocente. Le trame rispondono all’estetica dello stupore, diversa dall’estetica dell’immedesimazione da romanzo. Il melodramma, infatti, è quel genere che fa gridare allo spettatore «Stai attento!» quando l’innocente è in pericolo. JR è la personificazione anni Ottanta del tiranno da melodramma: un personaggio crudele, perfido e abominevole il cui ruolo è solo quello di mettere alla prova la pazienza e la virtù delle vittime. Più che una soap, insomma, Dallas è diventato un caso e un cult, al punto tale da avere risvegliato gli interessi degli accademici da entrambi i lati dell’Atlantico. Professori universitari in Francia e negli Stati Uniti pubblicano ricerche sulla serie.

E in Italia? Il modello televisivo prefererito resta la fiction in due parti, più facile da realizzare per le case di produzione prive del potere economico delle corrispondenti americane. Negli Usa, invece, saghe come Beautiful riprendono il modello della famiglia problematica che incolla lo spettatore allo schermo per migliaia di puntate. La televisione italiana ha così spostato il filone melodrammatico nei talk show, dove la cattiveria e l’indugio nella crudeltà fanno schizzare gli ascolti. Gli eredi di Dallas sono, insomma, Matrix e Porta a Porta. Senza, purtroppo, un mattatore infame come JR Ewing, l’uomo che amiamo ancora odiare.


[alessia scurati]
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AIDS E PREVENZIONE

Hiv, gli italiani abbassano la guardia

In vista della giornata mondiale contro l’Aids, in Lombardia, si dà inizio a uno studio pilota per far fronte alla lotta alla malattia. Le nuove cure hanno permesso, nel giro di pochi anni, di abbassare la mortalità per Hiv dal 100% al 6-7%. In pratica, oggi, in Italia, si muore più per una complicazione dell’influenza che per Aids. Ma la mancanza di mortalità per Hiv ha portato gli italiani ad abbassare la guardia: anche i sieropositivi sono in costante aumento. Secondo le stime dell’Unaids nel nostro paese ci sono 110-130mila pazienti Hiv positivi e, il prossimo anno, diventeranno 120-140mila. Di questi, 25mila risiedono in Lombardia. Il crescente numero di infetti pesa sulla spesa pubblica. Proprio per questo lo studio-pilota si prefigge, oltre che di migliorare la qualità delle cure, anche di ottimizzare le risorse per risparmiare sugli investimenti.

Con il federalismo fiscale c’è il rischio che alcune regioni non possano più permettersi di curare tutti quelli che ne fanno richiesta. Rosaria Lardino, presidente del Network persone sieropositive, ha denunciato che «alcune regioni hanno invitato i propri ospedali a posticipare l’ arruolamento di nuovi pazienti a fine anno per ragioni di budget; non sono arrivate, invece, segnalazioni dalla Lombardia ma me ne sono arrivate molte dalla Campania e dall’Emilia Romagna». Rosaria Lardino è preoccupata anche per le conseguenze della norma del pacchetto sicurezza presentato dal governo che, se verrà approvata, obbligherà i medici a segnalare gli immigrati clandestini che chiedono aiuto al sistema sanitario: «Se sarà così, gli ambulatori di pronto soccorso diventeranno quasi delle questure. Verrà meno il diritto alla salute per tutti. I clandestini eviteranno le strutture sanitarie e questo permetterà alla malattia di diffondersi ancora più rapidamente».

Lo studio pilota, supportato dalla regione Lombardia, è promosso dall’Ospedale Sacco e dal San Raffaele con il supporto scientifico del Cergas dell’Università Bocconi. Confrontando i dati misurabili, da raccogliere con l’aiuto di 9 centri di malattie infettive lombardi, sarà possibile ricostruire i percorsi di cura dei pazienti che hanno avuto una buona risposta e di quelli che non l’hanno avuta. Poi si dovrà creare una sorta di strumento di supporto, non vincolante, che aiuterà i medici di tutta Italia a curare i loro pazienti spendendo meno e ottenendo risultati migliori.

L’identikit del siero-positivo è cambiato: ha un’età che va dai 16 ai 50 anni, è omosessuale e spesso dipendente da droghe. Ultimamente stanno risalendo i casi di contagio anche per la presenza di immigrati provenienti dell’Europa dell’Est e dai paesi africani. Ma sono anche in aumento i casi di donne contagiate da rapporti eterosessuali: di solito ricevono il virus dal proprio partner, che è stato infettato durante rapporti occasionali. Per questo Carlo Lucchina, direttore generale dell’Assessorato alla sanità, invita tutti a farsi un esame di coscienza, la sera, prima di andare a letto.


[andrea torrente]
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FOTOGRAFIA

Sguardo d’autore sulla pianura Padana

“Se mai torni a veder lo dolce piano che da Vercelli a Marcabò dichina”. Il grande fotoreporter Ferdinando Scianna ha scelto questo verso di Dante per aprire la sua ultima opera: la “dolce pianura” è quella del nord del Paese, che lui, siciliano di nascita, conosce bene. Da quando, a soli 23 anni, decise di lasciare la sua Bagheria per venire a Milano. «La prima cosa che mi colpì quando arrivai qui in Lombardia fu la nebbia: questa immensa distesa che ricopriva valli e pianure. Eppure notai presto che il paesaggio non era piatto, grigio, sempre uguale come veniva descritto. Era piuttosto una partitura articolatissima, fatta di grandi variazioni e fughe. Le figure affioravano incerte, ritagliate e trasparenti, come sinopie di una scena ancora da dipingere, da precisare». Scianna, classe 1943, a 21 anni incontra Leonardo Sciascia, con cui intreccia una relazione amicale e professionale che prende forma attraverso la prima pubblicazione a quattro mani: Feste religiose in Sicilia, che vince il premio Nadar.

Nel 1966 il giovane fotografo decide di lasciare la sua terra. «Il mio nord era diverso da chi aveva lasciato l’isola spinto dalla fame, verso l’Europa o altri continenti. Il mio nord era italiano, lombardo. Volevo fare il fotografo». Dal 1967 Scianna lavora per il settimanale L’Europeo da inviato speciale, come fotoreporter. L’Europa la raggiungerà in seguito, quando si stabilirà a Parigi, da cui sarà corrispondente per un decennio. È il maestro Henri Cartier-Bresson che, affascinato dal suo talento, lo introduce nell’agenzia Magnum, la più prestigiosa a livello internazionale. La sua capacità di trasformare le immagini in narrazione fa del reportage la sua più prolifica produzione espressiva. La sua creatività e originalità lo rende un artista eclettico e versatile, permettendogli di realizzare ritratti di estrema intensità e campagne innovative nei campi della moda e della pubblicità.

L’ultima creazione di Scianna è stata presentata al Museo Poldi Pezzoli, nel cuore di Milano. Una realtà museale in crisi che, come altri simili luoghi d’arte, merita attenzione da parte di pubblico e istituzioni, in quanto in grado di conservare opere che costituiscono il patrimonio produttivo delle generazioni passate. Il fotografo siciliano aveva già collaborato in passato con il museo e quest’anno la realizzazione del volume gli è stata commissionata da Snam Rete Gas. L’azienda voleva che il maestro desse la propria lettura visiva dei territori della Val Padana e Scianna ha deciso di dedicare un capitolo del suo libro alla realtà dei metanodotti. Il suo incontro con il nord negli anni Sessanta passò attraverso la meraviglia di fronte a questa rete invisibile che «come il reticolo del nostro apparato venoso e arterioso, permette di riscaldare le nostre case e di cucinare. Ho voluto dedicare parte dei miei scatti al paesaggio trasformato dalla metanizzazione, e a coloro che lavorano perché essa sia possibile».

Il volume è un vero e proprio racconto, un flusso narrativo suddiviso in capitoli: storie di cieli, storie di nuvole, storie di fiumi, storie di lavoro, storie di persone, storie di Storia, storie di energia. Per Scianna, la relazione tra uomo e natura è indissolubile: «Il paesaggio è sempre “fatto”, disegnato e costruito dall’uomo». La dimensione del viaggio è indispensabile per chi vuole fare una professione come la sua. «Il mondo perché dia fotografia bisogna percorrerlo. Il paesaggio parla, dice la sua verità, si rivela. La materia prima del fotografo si può considerare il “caso”, ma è un caso “cercato”. Il mio lavoro è simile a quello del cercatore d’oro che non si stanca di setacciare per trovare una pepita. Il fotoreporter non smette di camminare e guardare. E nel guardare, ogni tanto crede di “vedere”. È in quel momento che nasce lo scatto».

Da grande osservatore, Scianna ha esposto quelli che possono essere i punti in comune tra due regioni così apparentemente lontane e diverse: la sua terra d’origine e quella che ha immortalato per quest’opera. «Lombardia e Sicilia hanno in comune la testardaggine, uomini e donne di tenace concetto. Le unisce inoltre un sentimento di bellezza e il senso di una produzione che nasce dal perché delle cose. La funzionalità si esprime in maniera estetica ed esprime l’autenticità della vita».


[vesna zujovic]
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REGIONE LOMBARDIA

Coldiretti punta sulla filiera alimentare corta

Accorciare la filiera alimentare, favorire il commercio pulito e gratificare il consumatore. È questo il piano nazionale della Coldiretti, forza sociale che rappresenta le imprese agricole e valorizza l’agricoltura come risorsa economica, umana ed ambientale, riunitasi in assemblea il 24 novembre a Milano per eleggere i nuovi vertici regionali lombardi. Nino Andena è stato confermato alla presidenza fino al 2012. Inoltre, in base alle recenti innovazioni statutarie, è stato eletto il nuovo consiglio direttivo che prevede la presenza in consiglio anche di quattro rappresentanti del territorio indicati dalle stesse federazioni provinciali. A questi si vanno ad aggiungere i presidenti provinciali, il delegato di Coldiretti giovani impresa, la responsabile di Coldiretti donne impresa e il presidente dell’associazione pensionati.

«La politica deve fare le regole del gioco senza entrare nel mercato – ha dichiarato Sergio Marini, presidente nazionale di Coldiretti – perché il mercato si muove da solo e i provvedimenti straordinari servono da paracadute per evitare che una azienda fallisca solo perché un inverno è stato gelido. Per questo siamo favorevoli alla legge 69 per l’utilizzo dei fondi comunitari a tutela del mercato. La Ue ha aumentato dell’1% per cinque anni le quote latte agli stati membri mentre all’Italia è stato concesso di avere subito il 5%. Questa grande opportunità deve farci crescere e farci riorganizzare in modo da gestire le nuove quote per prezzi e ripartizione, evitando così di andare in piazza a strillare senza avere ragioni forti e tentando il più possibile di rispettare la legge 119 del 2003 per la ripartizione delle quote latte».

Per Nino Andena, Presidente lombardo di Coldiretti «bisogna rilanciare l’industria sementiera e scegliere sulla questione Ogm, cercando di evitare che il prodotto diventi omologato. La Lombardia fa bene a puntare su agricoltura biologica e prodotti tipici. Chi ci critica ci chiama “scimmiette gialle” ma con la nostra presenza sul territorio aiutiamo la cultura del consumatore mettendo a sua disposizione la nostra esperienza e le nostre competenze. L’Expo in questo senso è una grande occasione per mettere in mostra l’efficienza e il saper fare lombardo. Ogni componente della filiera –ha concluso Andena – deve rispettare le regole, essere completamente trasparente e assumersi le proprie responsabilità».

Il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni ha informato la platea riguardo ai numeri di Coldiretti Lombardia. «Il settore primario nella nostra regione – ha detto Formigoni – svolge un ruolo da protagonista. Il mercato alimentare produce il 4% di Pil regionale, fa lavorare stabilmente 150mila persone e frutta undici miliardi di euro». Soldi che Coldiretti vorrebbe investire affiancando il suo piano a quello dello statuto regionale lombardo. Durante l’assemblea tenutasi all’auditorium Gaber del Pirellone è intervenuto anche il Vescovo di Milano Dionigi Tettamanzi, che dopo i saluti non ha perso tempo per ricordare che «l’acqua è un bene primario dell’uomo e la sua gestione non dovrebbe passare attraverso mani private perché la condivisione di beni, lo sviluppo dell’agricoltura e l’attenzione al mondo rurale sono la base del bene comune. Fine più importante del lusso di pochi».


[roberto dupplicato]
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DECRETO FLUSSI

Cgil Lombardia contro lo stop agli immigrati

Il decreto flussi 2008 per l’ingresso di 170.000 immigrati sta per essere approvato dal Governo. Sul campo resta tuttavia la polemica suscitata dall’idea della Lega Nord di bloccare per due anni gli arrivi degli extracomunitari. La proposta, respinta dalla Fiom, è stata appoggiata dal ministro dell’Interno Roberto Maroni ed è piaciuta anche al segretario della Cgil di Treviso, Paolino Barbiero. In tempi di crisi, il provvedimento servirebbe a riassorbire i disoccupati, italiani e stranieri, già presenti in Italia: il 5,6% del totale, il 6,2% degli immigrati nel 2007.

Nel 2008 in Veneto la crisi si è fatta sentire con un aumento da 11.035 lavoratori in mobilità a 13.243, di cui un quinto immigrati. Tuttavia, il responsabile del dipartimento immigrazione della Cgil lombarda, Giorgio Roversi, commenta: «Sarebbe inopportuna una gestione regionale dell’immigrazione. I lavoratori stranieri si spostano molto e le regioni contribuiscono a definire il fabbisogno nazionale di manodopera». E sul blocco: «Siamo assolutamente contrari, farebbe solo aumentare gli irregolari, il lavoro nero e la necessità di sanatorie. Già ora l’80% degli stranieri passa dall’irregolarità». Proprio il segretario Cgil Guglielmo Epifani aveva proposto la sospensione della Bossi-Fini, vista come una legge che crea clandestinità. Una volta perso il lavoro infatti, l’immigrato ha sei mesi per trovare un’altra occupazione, prima che scada il permesso di soggiorno. Roversi propone allora di «concedere un anno di soggiorno a chiunque voglia cercare in Italia lavoro o un’esperienza di formazione. Così l’immigrato si registra al confine, non paga le mafie dell’immigrazione, dichiara la residenza e finalmente non ha più paura delle istituzioni».

Ad ogni modo, se la moratoria di due anni ci sarà, potrà iniziare solo dal 2009. Al momento non si può prescindere dal fatto che, secondo i dati dell’Eures, i lavoratori stranieri in Italia sono oltre 2,5 milioni, il cui contributo è pari al 9,2% del Pil, ovvero 122 miliardi di euro. Svolgono spesso lavori abbandonati dagli italiani e hanno ampie presenze in agricoltura (20,9%), nell’alberghiero (20,9%) e nell’edilizia (19,7%). Si tratta comunque di valori medi, visto che in molte Casse edili il numero di iscritti stranieri raggiunge il 40% del totale. Secondo l’Associazione nazionale dei costruttori edili della Lombardia, con il calo di produzione l’acquisizione di lavoratori comuni è destinata a ridimensionarsi: serviranno più specializzati. Vista la situazione Maurizio Bovo, responsabile per le politiche dell’immigrazione della Cisl di Milano, dice: «Il decreto flussi oggi potrebbe tutelare solo i lavoratori specializzati e ad alto livello tecnico, che sono meno numerosi». Solo l’11,4% degli stranieri svolge lavori impiegatizi, tecnici o direttivi. Bovo ne ha anche per il decreto flussi: «È una mascherata per regolarizzare gli immigrati già sul territorio e soprattutto è uno strumento scomodo e costoso, perché impone che il lavoratore richiesto si trovi all’estero». Ma non basta. Per Bovo, al danno si aggiunge anche la beffa: «Basti pensare al costo del biglietto aereo andata e ritorno per il paese di origine; il rischio al rientro di essere espulsi sul confine e la perdita di un mese di lavoro, rimpiazzato spesso con un altro lavoratore in nero». L’idea di un blocco degli ingressi è quindi come il fumo negli occhi: «Non bisogna bloccare gli ingressi, né spingere verso una irregolarità di ritorno, ma normalizzare i casi difficili».

Il decreto all’esame del Governo prevede l’ingresso di 120.000 colf escluse dalla graduatoria del click day del 18 dicembre scorso, la giornata indetta dal ministero dell’Interno per l’invio delle domande di assunzione. Le badanti straniere rappresentano il 67,4% del totale e sono un aiuto fondamentale per molte donne italiane. Luigi Carriero, presidente dell’Associazione datori di lavoro domestico afferma: «Al momento niente è deciso e non sappiamo come muoverci, ma l’importante è che non rimandino tutti in patria per poi farli tornare qua». Se tutto dovesse andare in porto, molte famiglie italiane tirerebbero un sospiro di sollievo.


[daniele monaco]
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TUTELA DEI CITTADINI

Alla scoperta del difensore civico

La tutela dei cittadini, in Italia, è inferiore rispetto a quella degli altri paesi europei. Per questo motivo il difensore civico di Milano, Alessandro Barbetta, ha voluto confrontare la realtà del capoluogo meneghino con quella di altre 12 città europee (Lisbona, Birmingham, Dublino, Glasgow, Vienna, Rotterdam, Amsterdam, Anversa, Atene, Copenaghen, Barcellona e Valencia) nell’ottica di migliorare la propria strategia operativa. Difesa civica nelle aree metropolitane è il titolo dell’incontro in cui sono stati presentati i dati di una ricerca dell’Irer (istituto di ricerca regione Lombardia) da cui è emerso che l’Italia è l’unico paese dell’Ue a non avere un difensore civico nazionale. Perciò, come ha dichiarato subito Barbetta, «guardiamo con interesse ai modelli spagnoli e olandesi. Barcellona, ad esempio, gode di un’autonomia locale forte, mentre Rotterdam è stata una delle prime città ad avere un difensore civico. Ci siamo riuniti per diffondere la nostra figura e renderla comprensibile al cittadino. Vogliamo tutelarlo e promuovere nuove iniziative nei confronti dell’amministrazione comunale».

In estrema sintesi il difensore civico è un garante della pubblica amministrazione locale. Non è, invece, un organo politico del comune di Milano né può assistere i cittadini in giudizio. «Con l’insediamento di Barbetta abbiamo dato concretezza a questa carica - ha affermato Stefano Pillitteri, assessore comunale alla qualità e ai servizi civici -. La richiedevano i cittadini perché il difensore civico garantisce trasparenza nel rapporto tra le parti. Soprattutto in una metropoli, gli abitanti esigono un continuo miglioramento nei servizi offerti». Ad aggravare la situazione del nostro paese c’è la decisione del Friuli di abolire la figura del difensore civico. «È stata una mossa inattesa - ha dichiarato il mediatore europeo Nikiforos Diamandouros - e mi auguro si tratti di un caso isolato. Dal 2003 ad oggi abbiamo ricevuto già 30mila reclami, adesso intendiamo definire il ruolo e la portata di questa struttura basata sui legami tra stati e lo spirito di iniziativa individuale».

Ulrich Galle, difensore civico della Renania Palatinato dal 2005 e presidente in carica dell’European ombudsman institute (Eoi), ha ribadito quanto «sia importante raccordarsi a vari livelli» (locale, metropolitano, regionale e statale, ndr). «E poi – ha concluso Galle – è importante sostenere i colleghi dell’Europa dell’est dove i difensori civici si sono insediati da poco. La mossa del Friuli? Rappresenta uno svuotamento del significato di democrazia».

Nel pomeriggio, invece, gli ombudsman hanno discusso dell’efficacia della difesa civica. Alla tavola rotonda hanno partecipato Seex (Birmingham), Blomme (Anversa), Van Kinderen (Rotterdam e altre città del circondario), Escofet (Barcellona) e Barbetta (Milano).


[fabio di todaro]
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PALAZZO REALE

Il mistero di Magritte

Chi tra noi non ha mai visto il famoso quadro rappresentante una pipa, sotto cui compare la scritta Ceci n’est pas une pipe? All’autore di questo capolavoro, Renè Magritte, Milano dedica una grande esposizione, unica nel suo genere.

Dal 22 novembre 2008 al 29 marzo 2009, a Palazzo Reale si potranno osservare più di cento opere di questo artista, uno dei più grandi esponenti del surrealismo del ‘900. Il titolo della mostra, Magritte.Il mistero della natura, spiega bene il criterio di selezione adottato nella scelta dei dipinti, che ruotano tutti intorno al rapporto tra uomo e natura. «Quando mi è stato proposto questo progetto – dice Michel Draguet, direttore dei Musees Royaux des Beaux Arts de Belgique e organizzatore della mostra – ero molto scettico sul tema. Lavorandoci, però, mi sono dovuto ricredere. Natura e mistero sono i due veri cardini attorno a cui ruota l’arte di Magritte».

Nato nel 1898 a Lessiness, in Belgio, Magritte scopre ben presto la pittura. Nel 1919 pubblica la sua prima tela futurista dal titolo Trois Femmes. Le sue iniziali esperienze pittoriche affondano le loro radici nel futurismo e nel cubismo. Già nei suoi primi esperimenti, emerge la tematica della natura, che si ritrova anche nei celeberrimi dipinti realizzati negli anni Cinquanta. Tra questi basti citare Souvenir de voyage, del 1961, in cui una mela verde si maschera per il carnevale. Negli ultimi periodi della sua vita, si cimenterà anche nel campo della scultura. L’autore morirà nel 1967 a Bruxelles.

Intervenuto alla conferenza d’inaugurazione dell’esposizione, il sindaco di Milano Letizia Moratti tesse le lodi di questo grande artista: «Magritte è stato forse l’unico autore avanguardista a riflettere sul rapporto che lega l’uomo alla natura. Per questo visiterete una mostra in cui sono esposti anche pezzi di gallerie private, che normalmente non sono visibili nei musei».

Un viaggio attraverso più di cento dipinti, sculture e tempere in cui il visitatore potrà capire la filosofia che sta dietro le opere di Magritte. Tramite l’inserimento di oggetti e personaggi della vita quotidiana in ambienti a loro estranei, il pittore riesce a suscitare, in colui che osserva, un senso di smarrimento difficile da interpretare. «Per Magritte il mistero era lo strumento più idoneo per distruggere le abitudini visive e la logica dei luoghi comuni», dice lo storico dell’arte Arturo Schwarz. Per raggiungere questo scopo, quindi, Magritte trasforma un oggetto, o una situazione, sia a livello fisico che semantico.

La preparazione della mostra ha richiesto ai due organizzatori, Michel Draguet e Claudia Beltramo Ceppi, due anni di intenso lavoro per trovare il filo rosso che riuscisse a legare tutte le opere in un flusso continuo. La spiegazione dei quadri esposti è affidata alle parole dello stesso Magritte, tramite delle brevi e precise didascalie affiancate ai dipinti stessi.

L’esposizione di Palazzo Reale è stata scelta anche come l’occasione per sponsorizzare l’apertura del Museo Magritte, prevista per il giugno 2009 a Bruxelles. Il museo sarà l’unico edificio in tutto il mondo interamente dedicato a questo artista geniale.

Magritte. Il mistero della Natura
Dal 22 novembre 2008 al 29 marzo 2009
Milano - Palazzo Reale
Piazza Duomo 12
Aperta tutti i giorni
Biglietto 9 euro



[daniela maggi]
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CENTRI SOCIALI

Il Leoncavallo rischia di chiudere per la 17esima volta

Sarebbe la 17esima volta. L’ufficiale giudiziario sta per rinviare lo sgombero del Leoncavallo, storico centro sociale milanese. In questi giorni, però, un gruppo bipartisan di consiglieri si è impegnato affinché il Comune porti finalmente a termine le trattative già avviate da tempo.

L’opposizione apprezza l’atteggiamento che la giunta Moratti ha assunto per affrontare la faccenda. Per Francesco Rizzati, presidente del gruppo consiliare dei Comunisti italiani, “con il sindaco Moratti si è passati dal muro contro muro al dialogo”. Una soluzione condivisa da quasi tutte le parti in causa è già stata depositata sul tavolo del Comune. Se verrà attuata, le chiavi del centro sociale andranno a La città che vogliamo: una fondazione che mette insieme rappresentanti istituzionali, sindacali e accademici. La fondazione pagherà 120 mila euro l’anno di affitto alla famiglia Cabassi, proprietaria dell’immobile occupato. Si tratta di un canone assai basso ma, in compenso, i proprietari otterranno dal Comune il permesso di costruire su qualche altro terreno.

Aldo Brandirali, consigliere comunale di Forza Italia, ha spiegato che “la priorità della maggioranza è quella di ripristinare la legalità. Il Leoncavallo dovrà diventare un centro sociale polivalente a norma di legge e che paghi le tasse”. Ma una parte del centrodestra non è d’accordo con questa soluzione. Il perché ce lo spiega Pierfrancesco Majorino, capogruppo del Pd al Consiglio comunale: «Il ministro degli Interni e quello della Difesa dell’attuale governo, purtroppo, hanno più volte impedito alle trattative di concludersi con un accordo».

Il gruppo di consiglieri, quindi, chiede alla Moratti di prendere una posizione chiara riguardo alla sorte del Leoncavallo. Anche perché la vicenda si inserisce nella necessità generale di rivedere le modalità di attuazione del piano di servizi: il progetto di sviluppo dell’assetto urbano dal punto di vista umano e culturale, portato avanti dall’assessore Masseroli. Il consigliere del Pd, David Gentili: «L’assegnazione per gara si è rivelata inefficace. Ormai tutti siamo convinti che, per lavorare alla crescita civile del territorio, bisogna dialogare con le realtà già esistenti».

Lo storico centro sociale milanese, nel bene e nel male, è diventato ormai una realtà caratteristica del capoluogo lombardo. E, dalla sua fondazione, ha fatto molti passi verso la legalità. L’ultimo è stato quello di entrare nella Sinistra Europea, movimento fondato all’Europarlamento da Rifondazione Comunista, che ha la nonviolenza nel suo dna. L’associazione “Mamme del Leoncavallo”, uno dei soggetti più attivi nelle trattative, è stata anche proposta per l’Ambrogino D’Oro. Il centro, inoltre, contribuisce allo sviluppo civile della città, organizzando diverse attività sociali e culturali, come laboratori teatrali, concerti, convegni, progetti di integrazione per i nuovi italiani e così via. Anche per questo Francesco Rizzati, come tutta la sinistra radicale milanese, si augura che a Milano possano nascere almeno altre 30 realtà come quella del Leoncavallo.


[andrea torrente]
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PROTESTA STUDENTESCA

L'Onda e il ’68: più differenze che analogie

La storia (non) si ripete. Quarant’anni dopo un movimento che ha segnato un’epoca, gli studenti italiani scendono di nuovo in piazza. Per molti, istantaneamente, l’Onda studentesca anti Gelmini è apparsa come la fotocopia perfetta del nostro ’68: un anno in cui le grandi contestazioni furono il risultato di un malessere sociale profondo, accumulato nel corso degli anni. La protesta degli studenti attaccava i contenuti arretrati e parziali dell’istruzione e rivendicava l’estensione del diritto allo studio anche ai giovani di condizione economica disagiata; se analizziamo i contenuti e la forma di questa protesta, si capisce però che chi ha investito sul paragone tra ieri ed oggi sembra ormai destinato a restar deluso.

«Credo che il confronto fra la protesta di oggi e il ’68 sia in qualche modo fuorviante», sostiene Fausto Colombo, docente ordinario di Teoria e tecniche dei media alla Cattolica di Milano. «È vero che ci sono ragioni di comparazione (per esempio il cammino parallelo della destra e della sinistra giovanili, salvo distinguo e separazioni), ma le radici sono molto diverse: prima di tutto – spiega il docente – il ’68 è un movimento globale agito dalla prima generazione mondiale di giovani che abitano un mondo popolato dalla televisione. Un movimento che coinvolge tutto il mondo, mentre questa protesta è invece un caso italiano, dovuto a ragioni nazionali». Prosegue Colombo: «In Italia il ’68 scoppia per la crisi di una scuola e di una università che l’esplosione demografica ha reso inadeguate e superate. Mentre ciò di cui ci si lamenta oggi è il degrado di quell’università di massa che dal ’68 è nata. Un degrado che non consiste nell’essere di massa, ma nell’avere smarrito il senso di una costruzione di cultura per larghe fasce della popolazione, proprio ora che questa è l’unica strada per affrontare le sfide dell’innovazione». «Infine – conclude il docente – in quell’università gli studenti vedevano i professori sostanzialmente dall’altra parte della barricata, e i genitori attoniti; mentre qui si ha la sensazione che tutti coloro che sono interessati a vario titolo nel sistema formativo, siano schierati insieme almeno nella critica e nella preoccupazione».

Enrico Deaglio, direttore di Lotta Continua dal 1977 al 1982 nonché ex direttore di Diario, ha vissuto il ’68 in prima linea: quell’anno era infatti iscritto alla facoltà di Medicina a Torino, dove si è laureato nel 1971. Lo scrittore, favorevole e solidale con l’attuale onda studentesca, non vede però troppe analogie tra la sua protesta e quella di oggi: «Il ’68 fu un movimento ideologico, che aveva come protagonisti persone che si rifacevano alla filosofia marxista. Noi inizialmente eravamo una cinquantina – racconta –, poi occupammo la facoltà e, addirittura, arrivammo ad occupare per sei mesi l’ospedale le Molinette di Torino». «Combattevamo contro l’autoritarismo degli accademici che avevano potere su tutto, volevamo abbattere quella realtà, volevamo poter crescere come medici». Deaglio, nonostante sostenga la diversità tra i due movimenti, trova però un punto in comune: «Anche se adesso la molla scatenante è il taglio dei fondi alle università, oggi come allora è la gioventù a ribellarsi: comune ai due movimenti è questa sorta di attivismo, dove persone giovani si uniscono per contestare un cammino preordinato per loro». L’ex direttore di Diario si scaglia infine contro la realtà attuale degli atenei italiani: «Gli studenti vengono trattate come persone inutili. La realtà è che il governo non ha alcun interesse nei confronti dell’università ed anziché investire del denaro, taglia i fondi. Oggi – conclude – per chi proviene da uno stato sociale non elevato, per chi non ha “santi in paradiso”, è difficile diventare ricercatore e fare carriera all’interno delle università».

All’interno della Chiesa la voglia di rinnovamento sfociata nel ’68 era già cominciata qualche anno prima, come spiega Vittorio Bellavite, ex studente della Cattolica e portavoce di Noi siamo Chiesa, un ordine indipendente sia dalle strutture gerarchiche della Chiesa, sia da ordini o congregazioni religiose: «Il cambiamento della Chiesa è cominciato prima, con il Concilio Vaticano II indetto da papa Giovanni XXIII nel 1959 e aperto a partire dal 1962. Il movimento del ’68 si è dunque inserito in una riforma della Chiesa già avviata. Con l’avvento di Paolo VI però – continua Bellavite – questo rinnovamento si è arrestato; in particolare, a partire dagli anni ’70 e, più precisamente, dopo il sì al referendum sul divorzio del ’74». In Cattolica i primi episodi di malcontento scoppiano già a partire dal 1962/63: «Bloccammo l’inaugurazione dell’anno accademico e per la realtà di allora era una cosa impensabile e scandalosa», spiega Bellavite, che conclude: «Gli insegnamenti erano tradizionali, accademici, i docenti distanti da noi e poco comunicativi. Noi ci identificavamo nei cattolici-democratici e cozzavamo contro una struttura gerarchica e una cultura clericale che era propria della nostra università». E, a proposito dell’Onda, lo giudica un movimento per certi versi simile al ‘68, che conta sulla voglia di protagonismo degli under 30.

E, a dare una ulteriore scossa all’Onda, uno studente di 17 anni muore a scuola per il crollo di un controsoffitto, in classe. Subito infuria la polemica, tra l’opposizione che accusa il governo e Berlusconi che definisce il crollo «una drammatica fatalità». Subito il ministro Gelmini mette una toppa a un sistema che fa acqua da tutte le parti: «Di fronte ai 10mila edifici scolastici non sicuri, il governo ha il dovere di rivedere i meccanismi di spesa e spostare risorse sugli investimenti». Doveroso intervenire subito o l’Onda diventerà una frana inarrestabile.


[cesare zanotto]
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URBAN CENTER

Gli orizzonti paralleli dell’architettura giapponese

Il Giappone non è solo Tokyo, con il suo stalattitico skyline di grattacieli. E i nuovi edifici non sono solo all’insegna dei colori sgargianti, da cartone animato. Infatti, sebbene il Giappone sia uno stato a popolazione prevalentemente urbana, le cittadine di provincia si stanno dotando di edifici pubblici all’avanguardia sia dal punto di vista del design sia per ciò che riguarda la tecnologia, ma soprattutto stanno recuperando l’essenzialità della tradizione giapponese. La mostra fotografica Parallel Nippon allo Urban Center di Milano presenta alcuni esempi virtuosi delle nuove tendenze dell’architettura del Sol Levante, realizzati sia in Giappone che all’estero, e si focalizza sul rapporto tra strutture sociali e architettura.


Da un lato ci sono Tokyo, Osaka e Nagoya, gli agglomerati urbani più densamente popolati che riflettono l’immagine del Giappone cosmopolita e globalizzato; dall’altro ci sono le realtà di provincia che soffrono dello spopolamento e sono alla ricerca di un’organizzazione territoriale a misura d’uomo. La nuova architettura viene mostrata nelle quattro sezioni tematiche relative alla città (Urban Cycles), alla vita quotidiana (Life Cycles), ai centri culturali (Culture Cycles) e agli spazi abitativi (Life Cycles).

A partire da Tokyo, oggi le grandi città puntano ad essere spazi a misura d’uomo senza perdere la loro vocazione internazionale. In sostanza, il modello ideale della metropoli in espansione è ormai legato al passato decennio. Questo perché - a prevalere - sono i piccoli nuclei urbani, distribuiti equamente sul territorio, favoriti anche dallo sviluppo dell’edilizia privata. L’importante è che i nuovi micro-nuclei urbani siano collegati tra loro dalle nuove ferrovie ad alta velocità. Ecco che i nuovi edifici cercano di rispondere, prima di tutto, alle esigenze degli utenti. Come? Innanzi tutto tenendo conto dei valori paesaggistici complessivi, anche se la casa resta l’unità essenziale. Largo, quindi, ai materiali riciclabili per la costruzione, alla rivalutazione degli spazi tradizionali, alla reinterpretazione - con nuovi materiali - della tradizionale architettura sukiya, basata sull’uso del legno. Fondamentale resta la fiolosofia del fushin doraku, la realizazione del sé attraverso la costruzione della dimora intesa come villa, giardino e padiglione del tè.

Così, Parallel Nippon ci fa vedere un Giappone diverso. E questa è solo la prima di una serie di mostre sulla cultura giapponese che saranno realizzate a Milano nell’arco del 2009 con la collaborazione della Japan Foundation: e già da qui possiamo intuire come il Paese stia vivendo il ritorno al futuro. Le linee architettoniche vengono sempre più asciugate, ridotte a forme essenziali, linee rette e cerchi, i colori degli edifici sono il bianco o il nero, mitigati dal colore del legno onnipresente e dal verde di parchi e giardini, quando non dall’azzurro da piccoli stagni antistanti le strutture. Questo non è più un Giappone fluo, plasticato in stile manga, con la soffocante onnipresenza di Hello Kitty. La verità è che il Sol Levante non si gira più verso Banana Yoshimoto, ma torna all’essenzialità degli haiku di Bansho, il poeta del banano, e dei medievali templi di Kyoto, la sua città natale.


[alessia scurati]
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COMMERCIANTI IN CRISI

Saldi anticipati in tutta Italia

I tradizionali saldi post-Epifania, quest’anno sembrano essere già arrivati. La crisi economica è partita da Oltreoceano e ha investito anche l’economia italiana, già duramente provata a livello interno. I primi ad essere colpiti sono stati i lavoratori, i giovani precari, le famiglie. Più in generale, i consumatori e i risparmiatori a tutti i livelli. A lamentarsi della situazione ora si sono aggiunti i commercianti, che denunciano una grave crisi in diversi settori: abbigliamento, calzature, accessori. Gli esercenti hanno così deciso di anticipare gli sconti. I dati pubblicati dal Corriere della Sera parlano di un calo dei prezzi che va dal 20 al 40 per cento, anche se gli acquirenti non sembrano essere soddisfatti: se è vero che il trend vede ipermercati e negozi sempre piuttosto affollati, non si può negare che siano in molti i consumatori ad uscire con i sacchetti vuoti.

La legge però parla chiaro: fino ai primi di gennaio, i saldi sono fuorilegge: chi contravviene a questa regola, può essere multato da 500 a 3000 euro. Per sfuggire a questa spiacevole evenienza, gli esercenti hanno aggirato l’ostacolo, sostituendo la scritta “saldi” con il cartello “vendita promozionale”. Il Corriere afferma che quest’anticipo di sconti è voluto soprattutto dai negozi dei centri cittadini e delle grandi catene, mentre in periferia e in provincia si cerca di andare avanti mantenendo gli stessi prezzi. I settori più colpiti dalla crisi sono abbigliamento, calzature, accessori, oreficeria. Anche i marchi di alta moda non sono stati esclusi da questo andamento negativo, arrivando ad indebitarsi per pagare le collezioni della stagione successiva. Gli unici che sembrano resistere sono gli outlet: gli italiani sono ancora molto condizionati dalla “firma” e questi spacci aziendali offrono un rapporto offerta-prezzo equilibrato.

Andrea Di Stefano, direttore della rivista economica Valori sostiene che il fenomeno dei “saldi mascherati” sia «una delle minime strategie di reazione dei commercianti, anche se probabilmente non avrà effetti immediati». Le cause sono molteplici, perché questa crisi nasce in un momento storico complesso. «Manca la presenza di segnali chiari da parte del Governo sul tema dei tagli fiscali e sulla detassazione della tredicesima. Un altro elemento fortemente negativo per i piccoli e medi esercenti è il confronto, spesso schiacciante, con le grandi piattaforme commerciali, che rendono difficile una competizione equilibrata. Non bisogna poi dimenticare che le quote di affitto sono sempre più elevate».

L’ufficio studi della Confcommercio prevede che quest’anno le famiglie ridurranno la spesa dello 0,7%. Secondo Di Stefano, «la caduta del potere d’acquisto dei consumatori italiani ha anche una motivazione psicologica, che negli studi economici del passato era poco considerata. C’è una prospettiva sulla reale disponibilità di reddito, che fa diffondere un vortice negativo, in un clima di crescente pessimismo». Anche i dati pubblicati su La Repubblica confermano il ridimensionamento dei consumi nazionali e la crisi delle aziende, con un saldo negativo per le imprese. Per quanto riguarda alberghi e ristoranti, nel 2008 gli esercizi cancellati sono stati 4474. Confcommercio ha chiesto la correzione degli studi di settore, cioè l’operazione concordata tra associazioni di categoria e Governo per pagare le tasse in base a indici presuntivi di reddito. Una richiesta ragionevole perché deve tener conto dell’impatto della crisi sui ricavi delle imprese. Per arginare questo andamento negativo, Di Stefano ritiene che «si dovrebbero sviluppare iniziative pubbliche a sostegno delle attività commerciali, partendo dalle piccole realtà. Nei consumatori c’è un desiderio di collaborazione che necessita di una diffusione di conoscenza, iniziando dalle amministrazioni locali. I mercati comunali sono, ad esempio, una realtà del passato che dovrebbe essere adattata alla situazione attuale. Occorre inoltre una politica di regolamentazione dei costi calmierati e la promozione di iniziative come il farmers market, che prevede la collaborazione con gli agricoltori per progetti a basso impatto ambientale e le campagne di consumo sostenibile».


[vesna zujovic]
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TURISMO

Dove vanno in vacanza i giovani italiani?

Cresce la passione dei ragazzi italiani per i viaggi. Culturale, on the road o “responsabile”, il turismo giovanile attrae l’80% dei laureati tra i 20 e i 30 anni. Quali mete prediligono? Dove alloggiano? Cosa cercano quando decidono di partire? Le risposte a queste e a molte altre domande nel dossier di M@g.

Nuovi Indiana Jones alla riscossa


Dal turista fai da te al turista "fai per gli altri"


[daniela maggi] continua

INQUINAMENTO

Diossine e Pm 10, gravidanza a rischio

Sapevamo già che l’inquinamento da materiale particolato (Pm) è responsabile di danni alla salute umana sia acuti che cronici. A molti, invece, erano sconosciute le differenti attività delle polveri sottili nell’alternarsi delle stagioni. A Milano, in inverno, la concentrazione dei Pm si allinea a quelle raggiunte in Padania e nelle Fiandre, quasi quotidianamente superiore ai 40 μg/cm3 (valore limite annuale per la protezione della salute umana). Le analisi cliniche, trasversali e longitudinali, hanno permesso di correlare gli studi “in vivo” con quelli “in vitro”. Dai ricoveri, risulta che i bambini sono influenzati in maniera significativa dalla stagionalità, dalla concentrazione e dal tipo di inquinante, con degenze a carico delle vie respiratorie superiori (31,5%) o di quelle inferiori (55,5%) più frequenti nel periodo invernale. La popolazione dei bambini è altamente suscettibile perché il sistema respiratorio non ha ancora completato il suo sviluppo definitivo. Tutte le componenti (composizione chimica, tossicità intrinseca, stagionalità, concentrazione particelle) sono ugualmente importanti.

«Perciò è importante ridurle tutte proporzionalmente - ha dichiarato Francesco Cetta, primario dell’unità operativa di chirurgia epatobiliopancreatica del policlinico di Siena -, perché la gente sappia che non ci siano fattori più o meno incidenti. Il materiale particolato racchiude 18.000 sostanze che inducono una risposta diversa in ogni organismo. Nell’ultimo periodo si tende a semplificare la questione, ma non vorrei che questa strategia possa distorcere la rilevanza del problema». Il rovescio positivo della medaglia riguarda la riduzione dei numeri di ricoveri di bambini per malattie respiratorie nel primo semestre del 2008 (rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente). Il calo è legato alla diminuzione dei veleni dell’aria passati da livelli medi di 52,7 μg/m3 a 42, 4.

Le particelle di maggiori dimensioni predispongono l’ospite non solo mediante inalazione, ma anche mediante la via cutanea e digerente. Quelle dotate di maggiore cito e genotossicità, invece, sono le particelle fini (Pm 2,5) che riuscirebbero ad alterare e interrompere la membrana cellulare. In gravidanza, un’elevata concentrazione di Pm 10 provoca aumento della viscosità ematica e successiva riduzione di trasporto dei nutrienti alla placenta (dovuta alla formazione di carbossiemoglobina). Ma i rischi dell’inquinamento atmosferico durante la gestazione riguardano soprattutto le diossine, composti di origine umana (fabbricazione di pesticidi, acciaio, pitture) o derivati da fenomeni naturali (eruzioni vulcaniche, incendi boschivi) che, pertanto, non possono essere «proibiti». Le diossine, la cui cancerogenicità è stata dimostrata in seguito a dei test su animali di laboratorio, possono provocare endometriosi, alterazione del ciclo mestruale, aumento della percentuale di aborti e del rischio di parto pretermine.

Una notizia non nuova, questa, ma che conferma quanto l’inquinamento atmosferico sia nocivo alla nostra salute e a quella dei più piccoli in particolare. E, nella Giornata internazionale dell’Infanzia, non è proprio quello che avremmo voluto sentire a proposito di ambiente.


[fabio di todaro]
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