CONFLITTO DI GAZA

Intervista a Nahum Barnea

«Non ci sono dubbi che le operazioni militari organizzate da Israele sono state condotte ad ampio spettro. Il punto è che sono durate anche molto più a lungo di quanto ci si aspettasse», racconta da Gerusalemme Nahum Barnea, una delle penne più autorevoli del giornalismo israeliano, intervistato in esclusiva da m@g. Barnea, che scrive per il quotidiano Yedioth Ahronoth e ha vinto il premio Israel Prize per la comunicazione, ha perso un figlio nel 1996, in un attentato kamikaze di Hamas a un autobus di linea. Al funerale ha perdonato pubblicamente l’assassino, considerandolo vittima della stessa tragedia che affligge il popolo palestinese. Da anni si spende per favorire il dialogo nell’ambito del conflitto arabo-israeliano.

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[viviana d'introno e cesare zanotto]

L'INTERVISTA

La voce della libertà

Yang Lian, nato in Svizzera nel 1955 ma cresciuto a Pechino, è oggi uno dei maggiori poeti contemporanei e una tra le voci più importanti della dissidenza cinese. Esiliato dalla Repubblica Popolare Cinese dopo avere duramente criticato nel 1989 la repressione di Piazza Tiananmen, vive all’estero da vent’anni. È stato candidato al Premio Nobel nel 2002 e le sue poesie sono state tradotte in 25 lingue. Yang Lian interpreta lo spirito della millenaria cultura cinese attraverso la sua esperienza da esule. Una riflessione sulla condizione generale dell’uomo ma anche un invito alla speranza per milioni di cinesi che chiedono democrazia.

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[marzia de giuli e luca salvi]

L'INCHIESTA

È un’emergenza che dura da oltre vent’anni. I territori tra Napoli e Caserta sono uno stato nello stato dove l’unico potere reale è quello della Camorra. Nonostante i blitz, gli arresti e l’invio di soldati e poliziotti, i clan continuano a fare affari in un cono d’ombra in cui convivono l’economia legale e la politica. Ne abbiamo parlato con Andrea Cinquegrani, direttore de La Voce della Campania (oggi La Voce delle Voci).

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[alberto tundo]

MARIO CAPANNA

Onda e '68 a confronto

Quarant’anni dopo la protesta che ha segnato un’epoca, gli studenti italiani sono ancora in piazza. Secondo alcuni osservatori, l’Onda, che contesta la riforma Gelmini, è la fotocopia del’68. Altri la pensano diversamente. Mag ha chiesto un’opinione a Mario Capanna, ex studente dell’Università Cattolica e leader del movimento nel 1968.

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[cesare zanotto]

CIBO E MEMORIA

Viaggio nel gusto italiano


La relazione tra il cibo e la memoria è uno degli aspetti più profondi e antichi della cultura italiana e internazionale. Emblema di questo nesso è la madeleine che risveglia i ricordi dell’infanzia di Marcel Proust nel romanzo Alla ricerca del tempo perduto . Che cosa pensano i gourmet più affermati e i cuochi più celebri del nostro Paese del rapporto tra lo stile di vita dei nostri tempi e i cambiamenti nel gusto culinario, sempre più lontano dalla tradizione culinaria? La risposta nel servizio.

[francesco perugini]

GIORGIO BOCCA

Intervista sulla crisi del giornalismo italiano


Nessuno meglio di Giorgio Bocca può aiutarci a riflettere sulla crisi che sta vivendo oggi la professione di giornalista. "E' la stampa, la bellezza!", il suo nuovo libro vuole essere un'occasione per riflettere sul destino di un mestiere che sembra aver perso le sue virtù. In Italia la carta stampata appare schiacciata dalle pressioni della politica e dell’economia, incapace di reagire allo strapotere della comunicazione televisiva, non più in grado di scandagliare i mutamenti reali della società. Abbiamo approfondito queste e altre questioni nell'intervista.

[gaia passerini]

LIBRO ANTICO

Almanacco 2008 e mostra, torna l’associazione Aldus

È stata inaugurata oggi, 13 marzo 2008, la XIX mostra del Libro antico a Milano, tradizionale e prestigioso appuntamento che i bibliofili d’Italia e del mondo attendono impazienti ogni anno. L’evento promette di essere un’edizione di particolare interesse per un pubblico ancora più vasto e allargato dell’usuale, grazie all’esposizione di incunaboli, cinquecentine, stampe secolari, volumi ed opere introvabili del Seicento e Settecento, legature e rarità editoriali ed artistiche otto-novecentesche.

«In occasione della manifestazione alcuni espositori presenteranno raccolte complete di opere di celebri autori e artisti mai esposte prima d’ora – spiega Mario Scognamiglio, direttore dell'Almanacco e della rivista trimestrale di bibliofilia L'Esopo, nonché segretario dell'Aldus Club di cui è presidente Umberto Eco –, tali da richiamare l’attenzione di ogni appassionato d’arte, cultura e design, oltre che dei consueti bibliofili e collezionisti». La mostra del Libro antico presenta inoltre Pinocchio, una “mostra nella mostra” dedicata al mitico burattino, che sarà il polo d’attrazione e curiosità per grandi e piccini ma anche appuntamento culturale marcato dalla pubblicazione del saggio di Mauro Nasti, esperto di fama mondiale nella storia del libro illustrato. Fondata nel 1990, la mostra risale allo stesso di anno di nascita di Aldus, l’associazione internazionale della bibliofilia dedicata al tipografo ed editore veneziano Aldo Manuzio. «Ho fondato l’associazione con l’intento di promuovere l’attività del libro a 360 gradi – prosegue il collezionista Scognamiglio –. Contiamo circa trecento soci, un’élite di persone che amano i libri tra cui anche figure politiche di rilievo come Giulio Andreotti, Marcello dell’Utri e Oliviero Diliberto. Organizziamo incontri, teniamo conferenze periodiche, visitiamo le più importanti biblioteche al mondo: quest’anno tocca a quella di Lisbona. E accanto a tutto questo c’è la nostra rivista annuale, l’Almanacco, che illustra in generale libri antiche e moderni». Ogni Almanacco del bibliofilo è costruito attorno ad un tema, quest'anno la “biblio-nostalgia”: «Abbiamo dedicato l’antologia 2008 ai libri dell’adolescenza: i saggisti e i giornalisti che l’hanno stesa hanno ricordato le letture dei loro 13-14 anni. Qualche esempio? Eco ha analizzato Il conte di Montecristo, io ho rivisitato L’idiota di Dostojesky, Diliberto ha parlato di una collana di libri della Bur». Mario Scognamiglio è attualmente titolare della libreria antiquaria in via Rovello a Milano, tra Cairoli e Cadorna, una delle più belle e complete d’Italia. Una libreria che si distingue. «È semplicemente diversa da quelle moderne – chiosa il collezionista –. Oggi si entra alla Feltrinelli da soli, si prende il libro che piace girovagando da soli e si esce soli. Da noi invece c’è un rapporto umano vero e proprio. Una libreria antiquaria è un luogo di incontro e di dialogo tra collezionisti e bibliofili. Non sempre vi si entra per comprare. Il nostro metodo di approccio alle bellezze letterarie, ultimo baluardo contro la barbarie di oggi, è il colloquio, le relazioni interpersonali».

[francesca salsano]
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MOTOCICLISMO

Trial indoor: al Datch Forum prodezze su due ruote

Anche quest’anno Milano offre agli appassionati di motociclismo un grande spettacolo: il capoluogo lombardo ospita sabato otto marzo al Datch Forum di Assago la penultima tappa del campionato del mondo di trial indoor. Sul palco dell’ex Fila Forum i migliori piloti del mondo eseguiranno evoluzioni al limite dell’immaginazione e si misureranno con ostacoli mozzafiato. La manifestazione quest’anno ha ottenuto il patrocinio del ministero delle Politiche giovanili e dello Sport. Alla presentazione dell’evento a Palazzo Marino non poteva mancare Adam Raga, campione del mondo di trial indoor consecutivamente dal 2002 al 2006: «Il campionato di quest’anno sta andando particolarmente bene. Per ora – ha spiegato Raga – sono in terza posizione e spero che la penultima prova di sabato sera sia un successo».

Il mondiale si concluderà a Madrid sabato 15 marzo. Luca Colombo del gruppo Attiila ha dichiarato con orgoglio: «La nostra organizzazione si propone di portare gli eventi sportivi internazionali a Milano. È molto importante, dunque, che anche quest’anno Milano ospiti una tappa del trial indoor. La manifestazione, oltre ad avere un interessante aspetto tecnico, è soprattutto un grande spettacolo che vorremmo far conoscere anche alle famiglie. Per questo – ha continuato Colombo –, sabato pomeriggio i bambini da sette a quindici anni potranno provare le moto con l’assistenza dei formatori della Federazione motociclisti». Quest’anno la manifestazione avrà degli ospiti speciali: «I campioni di superbike che gareggeranno a Monza il prossimo Maggio. Così – ha spiegato Colombo – il superbike promuove il trial e viceversa. Inoltre, stiamo lavorando per portare in Italia il bike trial». Alessandro Lovati, rappresentante della Federazione motociclistica italiana, ha sottolineato: «La Lombardia è ai vertici del motociclismo italiano ed europeo: la grande passione della nostra regione per il trial è testimoniata dal fatto che l’anno scorso abbiamo ospitato ben nove tappe del campionato mondiale. I nostri sono impianti d’eccellenza». Anche il Moto Club di Lazzate, in Brianza, la più grande struttura dedicata al trial in Italia, ha preso parte all’organizzazione dell’evento: «Il nostro obiettivo – ha spiegato il presidente Donato Monti – è da oltre cinquant’anni insegnare ai giovani il motociclismo. È importante che i ragazzi si avvicinino alle moto responsabilmente. Sono sicuro che i nostri giovani piloti sono più prudenti degli altri sulla strada. Il fatto che teniamo molto all’attività promozionale è dimostrato dal nostro campo scuola permanente. I genitori seguono costantemente i ragazzi che si allenano presso la nostra struttura e mettono la propria esperienza a disposizione di chi sale in moto per la prima volta». Monti ha portato con sé alla presentazione del trial indoor il piccolo Manuel Copetti che a nove anni ha già vinto l’ultima edizione della gara internazionale “Due giorni della Brianza”: «Ho iniziato a correre in moto due anni fa – racconta divertito Manuel – perché mi piaceva saltare in montagna». E a chi gli chiede se abbia mai avuto paura, il giovanissimo pilota risponde saltando in sella al suo leggero due ruote e incantando i passanti in piazza della Scala con le sue prodezze.

[giovanni luca montanino]
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SPORT

“Rugby a scuola”: il Chicken Rozzano incontra gli studenti

Il Chicken Rozzano, la squadra di rugby in testa alla classifica di serie C-girone Lombardia, porta avanti da tre anni il progetto “Rugby a scuola”: «Il nostro obiettivo – spiega Fabrizio Villa, l’allenatore – è accrescere la popolarità del rugby tra le nuove generazioni portandolo nelle scuole. Quest’anno abbiamo finalmente il sostegno del comune di Rozzano e della società Ama Sport che si occupa della gestione di impianti sportivi».

Il progetto coinvolge quattro scuole elementari e due medie di Rozzano e Opera: «I ragazzi sono complessivamente seicento – dichiara Villa, che sta preparando gli attestati di frequenza per tutti i partecipanti ai corsi – e sono misti: anche le bambine si lasciano coinvolgere e si divertono molto». La società Chicken Rugby tiene nelle scuole mini corsi che comprendono da quattro a dieci lezioni: «Incontriamo gli studenti nelle palestre dei rispettivi istituti e insegniamo loro le regole fondamentali del gioco. Invitiamo a Rozzano i ragazzi particolarmente interessati o divertiti, offrendo loro l’opportunità di continuare a giocare e allenarsi». Gli alunni coinvolti, dalla terza elementare alla terza media, vengono seguiti da istruttori professionisti: «Si tratta di diplomati o diplomandi in Scienze motorie – spiega Fabrizio Villa – che in più hanno conseguito presso la “Federazione italiana rugby” il tesserino di preparatore». Villa sottolinea di poter contare sulla collaborazione dei docenti: «I professori hanno capito che nel rugby il rispetto dell’avversario è fondamentale. Nelle scuole insegniamo ad osservare le regole basilari per la sicurezza di noi stessi e di chi ci circonda». I Chicken, primi classificati in campionato, vivono un presente radioso e sono proiettati in un futuro pieno di novità: «L’anno prossimo partiremo con la giovanile – anticipa Fabrizio Villa –, visto l’interesse che suscitiamo tra gli adolescenti e le richieste di iscrizione che riceviamo. Presto il comune di Rozzano ci darà il nuovo centro sportivo, una struttura ideale per le attività di promozione».

[giovanni luca montanino]
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LIRICA

Addio a Giuseppe Di Stefano

Tosca di Puccini: una delle opere più amate e rappresentate al mondo. Per quante esecuzioni potremo ascoltare ancora in futuro, esiste dal 1953 una interpretazione per la quale l’aggettivo “perfetta” non è sproporzionato. In essa, sotto la direzione di Victor De Sabata e in compagnia di un grande Tito Gobbi, compare la coppia più famosa dell’opera lirica: Maria Callas e Giuseppe Di Stefano. Trent’anni dopo la Callas, ora anche Di Stefano se ne è andato e raggiunge un pantheon di artisti degli anni d’oro dell’opera lirica che ci hanno lasciato negli ultimi anni (Franco Corelli, Renata Tebaldi, Birgit Nilsson, Elisabeth Schwarzkopf, Anna Moffo).

Giuseppe Di Stefano è morto ieri nella sua casa di Santa Maria Hoè (Lecco), ma aveva cominciato a spegnersi tre anni fa, quando era stato ferito durante una rapina nella sua casa in Kenya. Era stato ricoverato all’ospedale di Mombasa e poi trasferito in Italia, in un ospedale milanese. Dove è rimasto in coma fino agli ultimi giorni.
Giuseppe Di Stefano, nato a Motta Sant’Anastasia (Catania) nel 1921, dopo un inizio come cantante di musica leggera, e dopo avere seguito l’insegnamento del baritono Montesanto, debutta nella Manon di Massenet nel 1946 a Reggio Emilia e l’anno dopo è già alla Scala. Da lì ha inizio una carriera folgorante, in cui si distingue per il suo timbro vellutato e la grande presenza scenica, legando presto il suo nome a quello della Callas, dalla prima apparizione insieme (La Traviata di Verdi nel 1951 a San Paolo del Brasile) fino all’ultima nel 1973, tra l’altro ultima tournée della cantante greco-americana. Di Stefano ha tenuto poi ancora alcuni concerti fino in tempi più recenti, tenendo dagli anni ’70 alcuni seminari e stage di canto. Suoi cavalli di battaglia sono stati il Duca di Mantova (nel Rigoletto verdiano), Cavaradossi (nella Tosca), Edgardo (nella Lucia di Lammermoor donizzettiana e Don Alvaro nella Forza del destino. Ha cantato con i più grandi cantanti e direttori: dalla “divina” alla Tebaldi, da Taddei a Christoff, dalla Simionato alla Scotto, da Victor De Sabata a Tullio Serafin, da Antonino Votto a Herbert von Karajan.
Di Stefano è stato quindi un grande esempio e lo è tuttora. «È stato un pilastro dell’opera e della discografia – dichiara a Magmagazine la soprano Cecilia Gasdia che, dopo averlo conosciuto a un concorso, ne era divenuta grande amica –. L’ultimo della scuola italiana che va dagli anni ’40 agli anni ’70. Ancora oggi i suoi dischi si vendono più di tanti contemporanei». Una scia di tenori ha cercato di carpirne i segreti timbrici e il suo stile di canto veniva contrapposto a quello di Mario Del Monaco. Anche se, come ricorda Cecilia Gasdia, «i due non erano affatto nemici, come si diceva allora: anzi si trovavano insieme per imparare l’uno dall’altro. Per quanto riguarda i cantanti odierni, si può dire che Carreras abbia seguito il modo di cantare di Di Stefano. Persino Pavarotti, che aveva un tipo di timbro diverso, ne ha seguito l’esempio: l’apertura della voce nei suoni di passaggio e la chiarezza di dizione rimandano sicuramente allo stile di Giuseppe». Il tenore Marcello Giordani, anche lui siciliano, cresciuto ascoltando i dischi di Di Stefano, lo considera un mentore: «L’avevo conosciuto a un concorso a Vienna e poi tramite amici in comune. Il suo modo di porgere la frase è ineguagliabile. Era anche una splendida persona: considerava il canto come un dono di Dio e ti trasmetteva la sua gioia di vivere anche nel modo in cui cantava. Mi sento molto lusingato quando mi paragonano a lui». Cecilia Gasdia, che del tenore possiede tutti i dischi, lo considera una persona eccezionale sia artisticamente che umanamente: «Il suo modo di cantare era unico: una voce bellissima, una vocalità molto aperta e una pronuncia chiara. Arrivava al cuore di tutti, con una facilità impressionante. Ed era una persona affabile. Alla fine si è goduto la sua vita fino in fondo: amava divertirsi, e anche fumare, senza che questo gli abbia dato problemi dal punto di vista vocale. Ma ha anche dovuto affrontare momenti tragici, come la perdita della figlia in giovane età».
La lirica, oggi così negletta dagli operatori della comunicazione, e frequentata solo dagli appassionati, oggi perde uno dei suoi testimoni più autentici. Forse meno mediatico di un Pavarotti, e per questo confinato a un ritaglio di copertina o a un box in terza pagina, ma un grande artista di certo. Italiano doc, come il melodramma.

[luca salvi]
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OSCAR

Ma siamo sicuri che Michael Moore abbia perso?

Di perdere, ha perso. Il ciccione col cartello in mano ha perso. Sì, quel Michael Moore, proprio quello che ce l’ha con Bush e che i media, in questi giorni, si sono affannati a dare per vincente, ha perso. E, vista l’assoluta supremazia di Moore nel campo dei documentari, la notizia della sua sconfitta agli Oscar è quasi uno scoop.

L’ultimo premio per il miglior documentario, infatti, è andato a Taxi to the dark side, realizzato da Alex Gibney, e non a Sicko. Bocca asciutta quindi per il capopopolo più amato dalla sinistra planetaria? In realtà no, perché Moore, che è stato l’iniziatore di un genere, in questa edizione degli Oscar ha avuto la sua bella soddisfazione morale.
La pellicola vincitrice della statuetta racconta l'omicidio di Dilawar, un tassista afgano, avvenuto nella base militare americana di Bagram. Quest’episodio non è nient’altro che il nobile spunto per indagare, con sorprendenti scoperte ed una tensione da thriller, sulle tecniche di repressione e tortura messe in atto dall'amministrazione Bush dopo l'undici settembre. Abu Ghraib e Guantanamo, tanto per intenderci. Ed il bello è che anche gli altri docu-film in concorso hanno alla base temi di guerra: dai poveri scenari ugandesi di War/Dance alla Baghdad insanguinata di No end in sight, fino alle testimonianze struggenti dei soldati americani in Iraq e Afghanistan di Operation Homecoming: writing the wartime experience. Conclusione? L’indefessa campagna di Moore contro le guerre preventive di George W. ha avuto i suoi effetti. L’Academy ora tiene in altissima considerazione un certo tipo di documentario, ed anche i documentaristi convergono verso un punto comune, e realizzano opere di inchiesta e di qualità. Il faccione dell’autore di Sicko quindi, non solo ha dato una chiave di lettura in più per l’analisi di uno temi più scottanti delle campagne elettorali in America, la sanità, ma ha anche ispirato la vittoria di altre inchieste, per continuare il filone aperto dal suo acclamato Bowling for Columbine. Ha vinto, ha vinto. Il ciccione col cartello in mano ha vinto.


Nel video un estratto da "Taxi to the dark side"

[paolo rosato]
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SICUREZZA

Le donne lombarde vogliono una legge che le protegga

«In Lombardia non esiste una legge regionale per punire la violenza contro le donne. È una situazione indegna. Come istituzioni dobbiamo fare di più». Così Arianna Censi, consigliera delegata alle Politiche di genere della provincia di Milano, ha introdotto il summit delle province lombarde e dei centri antiviolenza che si è tenuto ai primi di marzo a Palazzo Isimbardi. Alcune settimane dopo la presentazione ufficiale della Rete lombarda delle case delle donne e dei centri antiviolenza, le rappresentanti di queste strutture di volontariato si sono riunite per chiedere alla Regione un impegno concreto.

La Lombardia è una delle aree italiane con il maggior numero di donne uccise dagli ex partner, eppure manca una legislazione specifica che tuteli le vittime dei maltrattamenti domestici e sostenga l’operato dei 13 centri antiviolenza della Rete lombarda. Ogni anno sono circa 2mila le donne che si rivolgono ai vari punti di accoglienza sparsi sul territorio e i dati raccolti dal Centro aiuto donne maltrattate (Cadom) di Monza parlano di un trend in crescita continua, anche se solo l’11% delle vittime trova il coraggio di sporgere denuncia.
«La prima rilevazione dell’Istat sulle violenze domestiche risale al 2006. Prima il nostro era l’unico ente lombardo che si occupasse di monitorare la situazione – spiega Patrizia Villa, responsabile del Cadom monzese –. I numeri parlano di donne che sono per la maggior parte italiane o conviventi con italiani e hanno in parecchi casi un ottimo livello di istruzione. Questo sfata i pregiudizi secondo cui la violenza tra le mura domestiche avrebbe sempre un colore etnico diverso dal nostro e non interesserebbe laureate o addirittura plurilaureate». Secondo le operatrici dei centri di aiuto, il molestatore-tipo è vicino alla vittima (nel 98% dei casi si tratta del marito o del convivente), conduce una vita normale (cosa che spesso impedisce alla donna di essere creduta) e spesso guadagna cifre irrisorie, facendosi licenziare al primo sentore di richieste di risarcimento economico da parte della moglie maltrattata. I reati denunciati hanno subito un’evoluzione nel tempo: si è passati dalle violenze fisiche a quelle psicologiche, per approdare al cosiddetto stalking o sindrome del molestatore assillante, che attualmente interessa la maggioranza delle donne assistite nei centri lombardi. Si tratta di un’autentica persecuzione, fatta di telefonate, pedinamenti e apparizioni improvvise che inizia all’interno del rapporto e poi si protrae anche quando la lei di turno decide di troncare la relazione. A causa del vuoto legislativo sulla questione, però, lo stalking non è ancora considerato reato e quindi gli interventi delle forze dell’ordine non possono essere risolutivi. «Servono norme ad hoc – commenta Marisa Guarneri, presidente della Casa delle donne maltrattate di Milano –. Tempo fa c’è stata una proposta di legge contro lo stalking, ma dopo essere stata approvata dalla Camera si è inspiegabilmente arenata. Se muoiono degli operai sul lavoro, i processi legislativi subiscono un’accelerazione, mentre le donne uccise in casa dai loro stessi familiari non suscitano reazioni in questo senso. Mi domando il perché». Il primo tavolo istituzionale organizzato in Lombardia sulla violenza contro le donne chiede l’approvazione di un progetto di legge regionale che preveda: la predisposizione di azioni di contrasto contro la violenza sulle donne e i minori; il riconoscimento delle competenze e delle attività svolte dai centri antiviolenza; l’attivazione di percorsi che permettano agli enti locali di sostenere le donne vittime di ogni forma di violenza, i figli minori e le loro famiglie, anche attraverso il reinserimento sociale e lavorativo; l’istituzione di un fondo regionale di finanziamento specifico per queste iniziative. Un primo passo è rappresentato dal progetto di legge depositato nei giorni scorsi dal gruppo regionale del Partito Democratico, intitolato Istituzione del fondo regionale di finanziamento per le case delle donne, servizi e centri antiviolenza delle donne. Sentendosi concretamente aiutate, molte donne che vivono situazioni di profondo disagio e non hanno ancora denunciato i molestatori potrebbero finalmente trovare il coraggio di farsi sentire.

[lucia landoni]
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MYANMAR

Ex Birmania, cinque mesi dopo

Nelle lunghe settimane della repressione, quel momento di buio verso le sei del mattino simboleggiava un vero e proprio sollievo per i birmani: era la mezz’ora in cui la corrente veniva staccata in attesa dell’alba. La notte era trascorsa tranquilla, e nessuno era stato prelevato dalle proprie case per essere trasferito in uno dei centri di detenzione.

Era solo lo scorso settembre quando 40 mila civili, accompagnati da centinaia di monaci e novizie, sfilavano chiedendo condizioni di vita più umane. Oggi in Myanmar (ex Birmania) si è tornati alla “quotidianità”, sebbene il clima di tensione sia ancora palpabile e in tutto il Paese regni una calma irreale. Migliaia di pullman strapieni di monaci hanno lasciato Rangoon o Mandalay. Un esodo forzato che ha stravolto le principali città del Myanmar: non si può fare a meno di notare la drastica diminuzione dei religiosi, che in alcuni quartieri sono addirittura scomparsi. Le file dei monaci che chiedono la questua si sono assottigliate e molti monasteri sono rimasti semivuoti. Nelle carceri birmane sono detenuti 1.900 prigionieri politici, di cui 700 arrestati durante le manifestazioni del 2007. I morti accertati sarebbero 22, ma a questi si devono molto probabilmente aggiungere almeno 140 monaci di cui nessuno ha più avuto notizia. In tutto il Paese, i militari avrebbero setacciato 52 monasteri.

A Taunggok, tuttavia, nella zona centro-occidentale del Myanmar, a cinque mesi dalle manifestazioni nazionali, la resistenza al regime continua, seppure in forma semiclandestina e isolata. Già nel settembre caldo questa località, nota per il suo attivismo politico, era stata teatro di una delle marce più imponenti al di fuori dell’ex capitale Rangoon. Poi il silenzio imposto dalla violenza di stato aveva avvolto anche le sue strade. Nei giorni successivi alle repressioni, il paesaggio torna alla normalità, benché presidiato da squadre anti-sommossa nei punti nevralgici della cittadina insieme a un numero crescente di agenti in borghese, in un clima di intimidazione già noto agli abitanti di Taunggok. Da qui, infatti, provengono molti dei membri della Lega nazionale per la democrazia (il partito di Aung San Suu Kyi), da mesi detenuti nelle prigioni locali. A metà gennaio, però, una nuova concentrazione popolare davanti al mercato locale ha costretto le autorità a bloccare le strade e a chiudere le scuole per evitare che altri partecipanti, in particolare contadini, si unissero al corteo. Di tanto in tanto eroi senza nome riescono a eludere la sorveglianza per tappezzare di poster anti-regime l’ospedale o la piazza del mercato, per cantare slogan di protesta rivendicando la liberazione dei prigionieri politici. I manifesti vengono rimossi in fretta, i ribelli catturati e imprigionati. Ma intanto il messaggio è passato, Taunggok non si arrende e continua a soffrire e a perseguire la sua lotta silenziosa.

La lezione di Taunggok, però, rischia di rimanere aneddotica. Le possibilità di una nuova insurrezione nazionale sono oggi ridotte al minimo dopo la tragedia di settembre. Dall’estero si specula sulla capacità di riorganizzazione dei monaci e su nuove ondate di protesta che potrebbero riesplodere da un momento all’altro, ma in genere si tratta di analisi ingenue se non ipocrite: è facile lasciare sulle spalle di una casta di religiosi e di una popolazione condannata alla miseria l’intera responsabilità del riscatto di una nazione. La rivolta nonviolenta che ha emozionato per qualche giorno la comunità internazionale, ha soprattutto dimostrato che senza un concreto aiuto esterno ogni speranza di cambiamento è destinata a morire, dissanguata sul filo spinato dei campi di detenzione. Quelli che il regime sta continuando a riempire dei pochi attivisti rimasti: semplici cittadini in lotta per la sopravvivenza.

[gaia passerini]
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CONFLITTI

Memorie di un inviato al fronte

La guerra non finisce mai e, nell’era della comunicazione globale, è sempre più raccontata. Ma mai come oggi siamo lontani dal fronte, con i reporter in prima linea assediati dalle restrizioni della propaganda. La professione dell’inviato in guerra, con le sfide e i crescenti pericoli che comporta, è stata narrata da chi l’ha vissuta in prima persona negli ultimi anni. Così è nato Cronache dalla terra di nessuno, scritto dall’inviato di «Panorama» Giovanni Porzio, presentato in quetsi giorni al Circolo della stampa di Milano.

«Anzitutto – afferma Porzio - va ricordato il cambiamento tecnologico: con internet e i computer portatili il lavoro materiale è divenuto molto più agevole e le fonti si sono moltiplicate». Ma il vero cambiamento di cui si occupa il testo è un altro: «Il mio racconto – prosegue Porzio - parte dal 1991, dalla prima guerra del Golfo, una guerra che ha segnato un punto di svolta: con la copertura informativa garantita in tempo reale e diffusa in tutto il mondo dalla Cnn, per la prima volta un conflitto è stato documentato momento per momento in ogni suo evolversi. Non solo: la stessa Cnn, con le sue trasmissioni, era divenuta il principale canale di contatto tra Saddam Hussein, gli Usa e la Russia. I tre principali protagonisti del conflitto, infatti, utilizzavano l’emittente statunitense per comunicare tra loro in modo indiretto. E anche questa è una rivoluzione del ruolo degli inviati in guerra». «Dopo il 1991 – conclude Porzio – è cambiata definitivamente la tipologia delle guerre: non esistono più conflitti classici combattuti tra eserciti regolari. Si tratta sempre di operazioni anti-guerriglia o anti-terrorismo. Questa è l’ultima componente che contribuisce a modificare la professione degli inviati: i giornalisti non sono più percepiti come osservatori neutrali ma sono parte in gioco, i loro lavori sono schierati e sono a tutti gli effetti obbiettivi sensibili per i guerriglieri».

Francesco Cito, fotografo di guerra, insiste su come sia importante andare «oltre la tv», realizzando e diffondendo immagini che «sappiano di campo», che trasmettano quello che i combattenti sono, desiderano e temono, a prescindere dal colore della loro divisa. Cito ricorda come sia rischiosa la nuova politica editoriale che si sta diffondendo: «Appoggiandosi alle immagini che circolano su internet, gli editori preferiscono risparmiare e non mandano più fotoreporter sui teatri di guerra. Ma è un errore: le foto che circolano in rete sono le più drammatiche ed emozionanti, non le più oneste. Ed è proprio l’onestà la componente principale che un fotografo deve perseguire: non si devono rincorrere premi e celebrazioni. Quello che conta è raccontare il vero attraverso le immagini».

L’ultimo intervento è di Gabriella Simoni di Studio Aperto. L’inviata di Mediaset insiste sulla «forza della televisione» capace, come pochi altri media, «di smuovere le coscienze e sensibilizzare chi la utilizza». Per questo è fondamentale la professionalità dei giornalisti televisivi che, nel raccontare la guerra «non devono urlare e devono essere credibili e partecipi di quanto raccontano». Il problema maggiore nel realizzare servizi di qualità dai teatri di guerra sta nei costi: «Troupe e satellite – afferma la Simoni – costano moltissimo, e sono la scusa principale dietro cui le produzioni si trincerano, quando decidono di non inviare nessuno sul campo. Il paradosso è che la gente è attenta, vuole conoscere e capire. Ma le produzioni preferiscono spendere per show di varietà, più sicuri e redditizi dal punto di vista della pubblicità».

Se si pensa che nel solo 2007 sono 86 i reporter caduti in teatri bellici, si comprende come la professione dell'inviato di guerra sia molto cambiata e sia diventata più pericolosa. Ma resta l’unico mezzo perché il mondo possa davvero capire le dinamiche dei conflitti in corso e per conoscere le motivazioni delle fazioni in lotta. Senza dimenticare le guerre minori: quelle che non intaccano i grandi interessi economici ma causano centinaia di migliaia di morti.


[stefano carnevali]
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AEROPORTO

Se Malpensa perde le ali, il nord d'Italia che fa?

Giorno dopo giorno, per il cittadino italiano l’emergenza è ormai diventata una regola di vita quotidiana. Di volta in volta si parla di emergenza rifiuti, emergenza trasporti e così via, mentre l’intero sistema Paese sembra correre sempre più velocemente verso il collasso totale. Una faccia della medaglia nazionale, quella che ha fatto e continua a fare il giro del mondo, mostra le immagini dell’immondizia che sommerge Napoli, del Papa che è costretto ad annullare la sua visita all’università La Sapienza di Roma, degli scioperi selvaggi che gettano nel caos intere città, del Senato della Repubblica trasformato in un ring dove si sputa e si alzano le mani.

L’altra faccia evidenzia l’eccellenza produttiva del made in Italy, che, nonostante tutto e tutti, è stato capace nel 2006 di generare un surplus commerciale con l’estero pari a 90 miliardi di euro nei settori di eccellenza dell’abbigliamento-moda, arredo-casa, alimentari-vini e automazione-meccanica (le cosiddette quattro A). Prestazioni straordinarie, soprattutto se equiparate a quelle realizzate dagli altri 26 Paesi dell’Unione Europea: questi ultimi, tutti insieme, nel 2006 hanno realizzato un attivo commerciale di soli 200 milioni di euro.

Quindi, se è vero che tutta l’Italia soffre, è ancora più vero che il Nord in particolare e soprattutto il suo sistema produttivo non ne possono più di vedere vanificati i propri sforzi per rimanere agganciati alla modernità e allo sviluppo sociale ed economico del resto d’Europa e del mondo. L’ affaire Malpensa sembra fatto apposta per legittimare questa insofferenza. Perché la vendita di Alitalia (la compagnia aerea di bandiera che perde 1 milione di euro al giorno) ad Air France-Klm deve equivalere alla svendita dell’aeroporto intercontinentale di Malpensa? Per quale motivo le esigenze e le aspettative della parte più attiva e dinamica dell’intero Paese sembrano contare meno di zero? La questione Malpensa è emblematica di una condizione di disagio generalizzato. La compagnia aerea Air-One, dell’imprenditore Carlo Toto, ha fatto ricorso al Tribunale amministrativo del Lazio contro la trattativa esclusiva di Alitalia con Air France-Klm (nella serata del 20 febbraio il ricorso è stato respinto dal Tar laziale) e la Sea, che gestisce lo scalo aeroportuale lombardo, ha depositato al Tribunale di Busto Arsizio una richiesta di danni alla stessa Alitalia per 1,25 miliardi di euro. Sempre mercoledì 20 febbraio la Camera ha bocciato due ordini del giorno di Lega e Udc per la moratoria al taglio dei voli dello scalo varesino. Il commento del Governatore della Lombardia, Roberto Formigoni: «Finalmente un po’ di chiarezza. Il Governo ha gettato la maschera: è contro il Nord. Ha detto no a una moratoria chiesta in modo unanime da tutti, dalle istituzioni all’economia ai sindacati».

Le reazioni della politica e dell’economia locali
Allora il Nord e il sistema-Italia sono destinati a rimanere a terra? È una domanda che sta particolarmente a cuore ai rappresentanti del mondo istituzionale, accademico e imprenditoriale. «Per Alitalia nemmeno un sospiro in più – dice Luciana Ruffinelli, consigliere regionale della Lega Nord – ma per Malpensa facciamo fronte comune». Francesco Bollazzi, del Crmt (Centro di Ricerca sui Trasporti e le Infrastrutture) dell’Università Carlo Cattaneo – Liuc di Castellanza, quantifica i danni: 7.500 posti di lavoro in meno e una perdita di quasi 11 miliardi di euro al 2015. «Vogliamo chiarezza sul futuro di Malpensa» sostiene Giuseppe Ferrario, amministratore delegato di Siemens-Vai Technologies, azienda metalmeccanica di Marnate. «Servono più efficienza e un governo forte che sappia decidere» aggiunge Luigi Mocchia, amministratore delegato di Perstorp, industria chimica di Castellanza. «Non ha senso penalizzare Malpensa» osserva Fulvio Orsolini, presidente di Condor’s Rubber, impresa del settore gomma di Fagnano Olona. Non dimentichiamo che Milano potrebbe ospitare l’Expo del 2015. In vista di un evento del genere, per la Lombardia sarebbe ancor più grave perdere le ali o quantomeno vedersele decisamente tarpate. Per far fronte alla situazione, il Governo Prodi, attraverso il cosiddetto decreto mille proroghe, ha stanziato per Malpensa 80 milioni di euro per un periodo di 2 anni: 40 con cui finanziare la Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria di 48 mesi e 40 destinati alle infrastrutture. Provvedimento efficace o semplice contentino pre-elettorale?
«Mi pare un assurdo – dichiara Orsolini –. A rischio non sono solo le persone che lavorano in Malpensa, c’è anche l’indotto. Alitalia se ne vada pure via, l’importante è che si permetta ad altre compagnie aeree di prenderne il posto. Non ha senso penalizzare Malpensa. Vi sembra logico che oggi il volo Alitalia Malpensa/Ginevra costi di più del Fiumicino/Ginevra? Perché ci sono questi assurdi favoritismi nei confronti dello scalo romano?». I lombardi, quindi, sono disposti a salutare Alitalia, purché non vengano penalizzati i tanti lavoratori che gravitano intorno allo scalo milanese. Secondo Luciana Ruffinelli, i politici romani non sono sufficientemente interessati alle sorti di Malpensa e gli ultimi stanziamenti sono arrivati solo grazie alle incessanti pressioni della Regione Lombardia. «Non si deve mai dimenticare che Malpensa è un progetto del Nord – sostiene la rappresentante leghista –. Alla Sea lavorano i varesotti, in Alitalia lavorano i romani. Alla fine del prossimo mese di marzo avverrà tutto e il contrario di tutto: si aprirà la Boffalora/Ticino, il Comitato mondiale per l’Expo 2015 deciderà fra Milano e Smirne, Alitalia sopprimerà 793 voli settimanali su Malpensa e cancellerà 43 rotte su 85 e ancora manterrà in vita solo 3 rotte intercontinentali».

Indotto e infrastrutture
In base agli studi fatti dal Crmt, Malpensa risulta importante per almeno tre motivi: genera valore, garantisce occupazione (6.000 persone solo per la logistica) e sostiene concretamente le politiche di internazionalizzazione del sistema delle imprese. È chiaro che un suo declassamento andrebbe ad intaccare tutti e tre questi fattori di sviluppo. Milano non può permettersi di perdere il suo hub. Tutte le multinazionali scelgono la collocazione delle proprie sedi operative in rapporto stretto alla dotazione infrastrutturale del territorio, con una particolare attenzione per gli aeroporti. In Olanda, per esempio, il 65% delle sedi aziendali si trova nei pressi dell’aeroporto di Schiphol, vicino ad Amsterdam. Alitalia e Malpensa sono due “problemi” da risolvere in modo separato. Non è possibile che i dipendenti Alitalia facciano la spola quotidiana fra Roma e Malpensa. Chi è abituato a prendere l’aereo a Malpensa, sarà disposto a sobbarcarsi l’onere di prenderlo a Fiumicino? Una cosa è certa: l’hub milanese non deve legare i suoi destini ad Alitalia, che è finora stato un vero e proprio fattore limitante per Malpensa. Come può la Lombardia prescindere da una struttura aeroportuale, dato che mancano le autostrade e le ferrovie sono carenti? Nonostante tutti questi problemi, è significativo che una catena alberghiera del calibro di Hilton abbia confermato il proprio investimento di 400 milioni di euro su Malpensa. L’aeroporto di Milano ha tutte le carte in regola per funzionare, e bene, ma la situazione problematica da cui è attualmente interessato dimostra quanto sia deleterio per il sistema economico nel suo complesso avere a che fare con infrastrutture deboli e incomplete (la Grande Malpensa è stata inaugurata priva di una decente rete di comunicazioni stradali e ferroviarie). Un problema particolarmente grave è quello dei treni. «Entro il 2009 il Malpensa Express (il treno veloce delle Ferrovie Nord che collega l’aeroporto di Malpensa alla stazione di Cadorna ndr) dovrebbe arrivare a Milano-Centrale, bene. Ma non è sufficiente – sostiene Giuseppe Ferrario –. C’è bisogno di un vero e proprio sistema integrato. Tutto il territorio dell’Altomilanese sta attraversando una fase di profonda trasformazione e continua a mancare un autentico progetto riguardante i trasporti. Stiamo parlando di un bacino urbano in cui vivono, lavorano e si spostano 300.000 persone. A Zurigo ci sono sette passanti ferroviari. Qui esiste praticamente solo un sistema di autobus». Insomma, il miglioramento delle tratte ferroviarie è una priorità assoluta: avviene sempre più frequentemente che il Malpensa Express, per ovviare ai ritardi dei treni ordinari delle Nord, si trasformi in regionale, suscitando le ovvie proteste dei passeggeri che hanno pagato un sovrapprezzo per vedersi garantita la rapidità di spostamento. «Se il tessuto lombardo dei trasporti va potenziato, sulla vocazione intercontinentale di Malpensa non si può discutere – dichiara Francesco Bollazzi –. C’è una rete di aeroporti locali che devono per forza far riferimento all’hub milanese».

Ridimensionare: come?
Qualora Malpensa venisse ridimensionata come previsto dal piano industriale di Air France-Klm, i voli soppressi settimanalmente sarebbero 793, le rotte cancellate sarebbero 43 su 85 e la frequenza di 35 tra queste verrebbe ridotta. Inoltre solo tre rotte intercontinentali, sulle 26 complessive, rimarrebbero invariate, con la cancellazione di voli verso destinazioni strategiche quali Boston, Buenos Aires, Chicago, Dubai, Miami, Osaka, Shanghai e Toronto. Secondo le analisi del Crmt, il mancato sviluppo di Malpensa provocherà, nello scenario di lungo periodo al 2015, una perdita pari a 10,6 miliardi di euro attuali, in pratica 1116 euro per ciascun cittadino lombardo. Un analogo studio elaborato da Ambrosetti stima la perdita in 9,3 miliardi di euro al 2015 e in 18,5 miliardi di euro al 2020. Sotto il profilo occupazionale, stabilito che nel 2005 l’aeroporto di Malpensa aveva già raggiunto un grado di sviluppo tale da garantire occupazione diretta, indiretta e indotta per oltre 76.000 addetti, la perdita di posti di lavoro si aggirerebbe intorno ai 7.500 occupati in meno. Si tenga poi conto che, rispetto al suo peso economico, la Lombardia, già ai livelli attuali, se posta a confronto con alcune altre importanti regioni europee, presenta un grado di accessibilità per le imprese non sufficiente al sistema aeroportuale. Figuriamoci quindi cosa avverrebbe con un ridimensionamento dello scalo: le imprese non potrebbero beneficiare del fatto di poter utilmente e facilmente attivare una struttura aeroportuale internazionale quale vantaggio competitivo nei confronti dei concorrenti. Nello stesso tempo, le grandi imprese sarebbero disincentivate a stabilire i propri Headquarters sul territorio. Non dimentichiamo inoltre che Malpensa costituisce l’aeroporto di riferimento di un territorio, il Nord Ovest, caratterizzato dalla presenza di numerose infrastrutture di importanza strategica. Una per tutte, il nuovo polo fieristico di Rho-Pero. «Le conseguenze negative saranno inevitabili – commenta Giuseppe Ferrario –. Certe cifre non hanno bisogno di particolari commenti. Tuttavia, la nostra area, con la forza che la caratterizza da sempre, sarà capace di trovare delle soluzioni. Certo, saranno soluzioni dolorose. Ci sarà un’ulteriore perdita di tempo. Però, lo ripeto, saremo in grado di venirne fuori». Il possibile ridimensionamento di Malpensa preoccupa un milione e 361mila imprese, oltre a moltissime persone comuni. «Le risorse impiegate per realizzare l’aeroporto sono arrivate dalle nostre tasse – ricorda Luciana Ruffinelli –. Sono state delocalizzate delle famiglie per l’ampliamento dello scalo. E adesso, dopo tutti questi sacrifici, posso dire che verrà fatta una class action per difendere e sostenere le ragioni di tutti i cittadini e non solo delle imprese». Insomma, Milano e la Lombardia sono determinati a continuare a volare, anche se qualcuno fa di tutto per togliere loro le ali.


[lucia landoni]
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MEDIA

Media e Lombardia: resistono le realtà locali

Lombardia e Milano, una regione e una città che da tempo sono all’avanguardia dell’offerta dei media in Italia: qui è nato il primo network televisivo privato, diventato poi uno dei due cardini del duopolio televisivo, e qui hanno sede molte delle radio commerciali nazionali più ascoltate. Ma questa centralità, nella regione più produttiva d’Italia, come viene gestita dagli operatori in un periodo difficile per l’economia in Italia? Quale futuro si può prevedere e quali sono le richieste avanzate alla politica nazionale? Per rispondere a queste domande è stato costituito nel 2003 il Comitato regionale delle comunicazioni (Corecom), con la finalità di monitorare la situazione dei media nel territorio lombardo e di svolgere studi e ricerche, che, attraverso l’analisi di un numero adeguato di campioni, facciano luce sullo stato della televisione, della radio e della stampa lombarde.

Martedì è stato presentato all’Auditorium del Consiglio regionale il rapporto per il 2007, svolto dal Corecom in collaborazione con l’Associazione ReS (Ricerche e studi) di Bergamo.
La novità, nella ricerca di Corecom e ReS, sta in una forma di censimento, adottato quest’anno per la prima volta: l’invio di questionari agli operatori e ai giornali (in totale 148, così divisi: 89 radio, 38 televisioni, 29 quotidiani e periodici), da compilare on-line, è stato determinante per capire come e di cosa vive l’industria dei media: «Dai bilanci aziendali, dal 2001 al 2006 – parla Maria Luisa Sangiorgio, presidente del Corecom –, i media rivelano una produzione molto alta, che unisce il pluralismo al legame col territorio. Dalla ricerca risulta che i gruppi piccoli e medi hanno aumentato il personale, mentre quelli grandi l’hanno diminuito, anche per scelte di esternalizzazione. Dal punto di vista della redditività, si è registratala una crescita solo per i primi anni del periodo preso in esame, a cui ha fatto seguito una stagnazione generale». Se i media non stanno messi male, la radio è quella che sta messa meglio. Sergio Serra della ReS, nota come la radio abbia «registrato un aumento di ascolti sia a livello nazionale, che sulle frequenze locali, mentre la televisione versa tra l’assestamento di Rai e Mediaset e una ripresa delle tv locali, che arricchiscono l’offerta con news e sport». La carta stampata, secondo Corecom, ha un buon gradimento regionale: l’88% della popolazione lombarda adulta legge almeno un quotidiano al giorno. Un dato confortante che, però, non modifica la tendenza nazionale, che registra un calo nelle vendite. Per quanto riguarda invece la distribuzione degli operatori e il loro consumo, Milano risulta sempre in testa (vi risiede il 40% delle emittenti televisive lombarde e il 38% di quelle radiofoniche) seguita da Brescia (17% e 16%), Bergamo (11% e 8%), Varese (8% per entrambi i campi) e, a ruota, le altre province.
Quali sfide per il futuro? Per Maria Luisa Sangiorgio sono «la multimedialità, la capacità di rinnovare il sistema, una migliore regolarizzazione del finanziamento pubblico e l’apertura della multicanalità e della multipiattaforma alle reti locali, a cui fino ad oggi è stato precluso l’accesso al cavo, al satellite e al digitale terrestre». Ma non solo l’innovazione tecnologica è importante: la carta stampata va difesa. Ennio Mazzei, della Fieg, rivendica l’esigenza di una risposta politica: «Nelle ultime due legislature è stata promessa una legge di riforma che non c’è mai stata. Speriamo in proposte più forti dalla prossima legislatura».

[luca salvi]
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