L’emergenza umanitaria del Congo è la più grave del pianeta?
«Penso di sì, anche se la stampa internazionale, e quella italiana in modo particolare, non le danno il giusto risalto. Le nostre conoscenze sul continente nero si fermano frequentemente a retaggi coloniali e ai paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Basti pensare quanto poco si sappia anche del Sudan. E poi devo pensare che ci sia anche la volontà di trascurare alcune tematiche che non rientrano nelle logiche della globalizzazione».
Anche l’Onu sembra inerme al cospetto dell’avanzata cruenta dei ribelli di Nkunda.
«Ma cosa potrebbero fare 17.000 soldati in una Repubblica estesa quanto l’intera Europa occidentale? I caschi blu sono pochi e devono fronteggiare problematiche di ogni tipo, oltre ad ostacoli logistici e a tipologie di mandato. I ribelli, poi, usano armi di una violenza inaudita. Avanzano pieni di droga fino al collo, formano squadre della morte. Fanno stuprare le donne congolesi dai loro soldati sieropositivi. E per sparare usano i mitra Ak-47, fucili economici e molto leggeri che mettono in mano anche i ragazzini».
Storie che, colpevolmente, appaiono troppo lontane da noi. Come potrebbero scendere in campo le maggiori potenze mondiali?
«Fino al 1991 l’Africa era il territorio del bipolarismo Usa/Urss. Dal 2001 gli Stati Uniti sono stati coinvolti nella lotta al terrorismo internazionale, gli interessi della Russia sono mutati, e la Cina, nelle sue relazioni con i paesi africani, trascura in gran parte il rispetto dei diritti umani. In compenso i cinesi cooperano costruendo infrastrutture e mettendo a disposizione della Repubblica Democratica del Congo formazione e infrastrutture in cambio di accesso alle risorse primarie».
Se non ci fosse stato l’11 settembre l’Africa sarebbe tenuta in maggiore considerazione da parte delle grandi potenze internazionali?
«Da quel momento in poi l’attenzione si è spostata sul Medio Oriente. Ma gli Usa, comunque, scelsero di non intervenire in Africa dopo la disfatta somala del 1993. Trascurarono anche il genocidio in Ruanda del 1994 che, di riflesso, ha mutato gli scenari della Repubblica Democratica del Congo. I campi di prima accoglienza nel Kivu sono ormai diventati siti permanenti e nel Parlamento congolese vi è una significativa presenza di ruandesi che influenza anche alcune scelte di Kabila. Il Ruanda è una nazione grande quanto la Lombardia, estremamente fertile. Rivendica uno spazio vitale che storicamente non ha. Ecco speigata la presenza di gruppi armati provenienti dal Ruanda nella Rdc.
La gestione Bush ha concluso il suo operato inaugurando l’Africom
«È un comando militare unificato per l’Africa che forse muterà gli equilibri geopolitici globali».
A ruota seguono le Ong. Possono rimproverarsi qualcosa?
«Il loro approccio è spesso individualista, per evitare la mescolanza tra gruppi di diversa origine politica e nazionale. Invece occorrerebbe maggiore sinergia sui progetti di sviluppo, riducendo il numero degli interlocutori locali che in alcuni casi amplificano la corruzione in paesi dove tale piaga è ormai strutturale».
Nkunda, giunto alle porte di Goma, ha annunciato il “cessate il fuoco”. È una dichiarazione mendace o i ribelli sono davvero pronti a deporre le armi?
«È’ molto probabile che verranno a trattative con Kabila soltanto dopo aver conquistato i territori più importanti. È una situazione di una delicatezza estrema. Mi auguro soltanto che questa cassa di risonanza induca la comunità internazionale ad occuparsi seriamente di una crisi che potrebbe trasformarsi in un nuovo genocidio».
[fabio di todaro]
