LETTERATURA

Parola, luogo della memoria

«Chi sei?». «La figlia di Maria». Tsili Kraus è una bambina ebrea abbandonata dalla famiglia perché ritardata. Genitori e fratelli sono fuggiti dalla macchina di sterminio nazista, ma a lei hanno detto che tutto va bene, l’importante è rimanere a badare alla casa. Tsili ha paura, Tsili è sola, Tsili scappa. Non sa di preciso chi sia questa Maria, poco importa. È un nome che ha sentito in casa, un nome importante che dà sicurezza. Maria è la prostituta della zona, ma Tsili non sa nemmeno cosa sia una prostituta. Così nasce Paesaggio con bambina, il romanzo che chiude la trilogia della memoria di Aharon Appelfeld, dopo Badenheim 1939 e Storia di una vita, entrambi pubblicati da Guanda.

Paesaggio con bambina è un omaggio al ruolo della memoria della parola, un argomento molto caro ad Appelfeld, tanto da dedicargli una Lectio magistralis presso il circolo culturale di Milano. L’autore israeliano è partito dall’esperienza personale per spiegare come la memoria sia il vero strumento dell’immortalità. Appelfeld ha un trascorso tragico. Orfano della Shoa, fuggì a soli 8 anni da un campo di concentramento per poi unirsi a un gruppo di criminali ucraini e approdare nel 1946 in Palestina. A monte di un trascorso così brutale, cosa serve conservare e rimembrare questi eventi? «A salvarmi dalla devastazione interiore è stata proprio la memoria – spiega durante la Lectio Appelfeld – i miei genitori e la casa dei nonni nei Carpazi mi sono rimasti dentro per tutto il periodo della guerra. Li ritrovavo ogni giorno e ogni notte, mentre continuavo a ripetermi: se li vedo con tanta chiarezza, allora significa che sono vivi e che presto torneranno da me». Purtroppo non fu così. Ma allora che fare delle immagini devastanti della Shoa? «Bisogna ammettere la verità: non si può vivere per molti anni scortati da immagini del genere – continua lo scrittore –. Facciamo fatica a comprendere la morte anche di una sola persona, come potremmo conservare dentro di noi quella di decine, di centinaia? Chi è sopravvissuto alla Shoa tiene lontana quella memoria, quasi deve scappare, per vivere. Non è affatto strano che i sopravvissuti abbiano trasmesso ai propri figli ben poco di quella loro esperienza di morte: che cosa avevano da comunicare? Orrore e ancora orrore». Eppure secondo Appelfeld, alle spalle del mostro nazista, si è intravvisto un barlume di luce, di speranza, che ha dato la forza di reagire ai superstiti dell’olocausto: «Ciò che ha salvato i sopravvissuti dal pessimismo assoluto e dalla perdita totale della fiducia nell’uomo è il barlume di luce intravvisto in quella fitta tenebra. Che cosa intendo dire? Che chi è scampato deve la vita a qualcuno che nei momenti più disperati e tragici è stato capace di rivolgergli una parola di conforto, gli ha teso una mano quando non riusciva a tenersi in piedi».

La memoria di cui parla Appelfeld prende la forma di un’entità collettiva e non personale. Non si tratta della stesura di una cronaca, di una biografia, ma della metafora di un dramma collettivo. La storia di Tsili potrebbe essere la storia stessa di Appelfeld, ma allo stesso tempo la narrazione delle vicissitudini di tutti gli orfani della Shoa che nel 1946 navigavano verso Sion, la terra promessa, in attesa di un riscatto. Questo rifiuto biografico avvicina Appelfeld a Vasilij Grossman e al suo Vita e destino, recentemente riedito da Adelphi. Ebbene, le storie di decine e decine di volti, dal campo di Treblinka al fronte di Stalingrado, prendono forma in un unicum, nella storia stessa della Madre Russia, la ricerca di un io nella storia di tutti. È dunque in questa chiave che Appelfeld plasma la storia di Tsili, utilizzando il paesaggio come eco continua della memoria della famiglia. Un’eco necessaria ad allargare i confini della conoscenza dell’individuo, perché, come dice Appelfeld, «senza memoria, la nostra vita ha un perimetro ristretto. Ricordare è vivere se stessi».


[francesco cremonesi]

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