Il nome della West-Eastern Divan Orchestra fu ricavato da una raccolta di poesie di Goethe, l’unica pubblicata mentre il Dante germanico era in vita. Il “Divan occidentale-orientale” è infatti un poema in cui cultura europea e del Vicino Oriente si parlano, come avviene nell’orchestra.
E allora, musica, maestro Barenboim, nel tempio milanese! Qui, il pubblico parrebbe quello di una prima verdiana assoluta. Una sciura rimprovera al maestro i 5 minuti di attesa, oltre le previste nove di sera. E sì che già due concerti si sono susseguiti nella giornata. Palco già rodato e pubblico inghingherato. Binocoli, scialli, pellicce e spartiti scrutano i primi orchestrali. In programma Mozart, Schönberg, Brahms. Il Concerto per tre pianoforti Kv 242 che Mozart scrisse a 20 anni per la contessa salisburghese Lodron e le sue due figliole, è un capolavoro di esecuzione. Barenboim interpreta la parte scritta da Wolfgang per la contessina più giovane e dirige a est e ovest l’orchestra dall’organico settecentesco, mentre di fronte a lui duettano Karim Said, palestinese, e Yael Kareth, israeliana. Il secondo movimento raccoglie più di un assenso nel pubblico, e la riproposizione di un tema sembra già preludere alla forma dei tre brani scelti: la ripetizione e la variazione. Come la guerra che non ha sosta e si ripete. Ma anche come la speranza, che va verso la rinascita di nuova vita, di un nuovo tema che continuerà.
A Mozart segue Schönberg, di cui la West-Eastern Divan fa ascoltare le Variazioni per orchestra op. 31. Si tratta del primo brano orchestrale in cui fu usato il sistema dodecafonico, 1926-28. Gli archi riescono a far vibrare tutti i suoni della serie sparsi nel brano. E le variazioni si succedono in fila, le quattro serie dodecafoniche a fare da trama e ordito. Infine – e i maniaci dello spartito si slanciano quasi oltre il parapetto – l’immortale Quarta sinfonia di Johannes Brahms, composta nel 1884-85, a un anno dalla morte di Wagner. Qui Barenboim esibisce la propria cultura bayreuthiana, spingendo gli archi in un afflato tetralogico, i legni in certe frasi vellutate alla “Lohengrin”. Ma Brahms era lontano da Wagner, e Barenboim ci ricorda nella sua interpretazione quale sia il suo padre putativo, Ludwig Van Beethoven. Attraverso le variazioni (36) dell’ultimo movimento, una vera e propria passacaglia, il musicista di Bonn ci è svelato a poco a poco, su un basso ostinato di una cantata di Bach. Ma Brahms va oltre Beethoven, va oltre Wagner. Verso la metà del quarto movimento – due legni risuonanti – Barenboim riposa, solo lo sguardo dirige. Non fosse per qualche esagerazione ostentata dai corni, questa esecuzione sarebbe stata pari a quelle storiche di Carlos Kleiber e Herbert von Karajan.
E il nostro pubblico, nel complesso? Qualcuno si aspetta un comizio. “Ma questa è musica e la musica è musica, non politica”, osserva una loggionista. E nessuna parola verrà spesa invano. Solo un “bravi” a metà serata, subito rintuzzato da un subitaneo “vedremo”: fate il vostro lavoro e avrete il plauso, alla meneghina. Gli applausi in realtà son pure troppi: irrompono tra i movimenti e alla fine addirittura si sovrappongono alle ultime note della sinfonia della “Forza del destino”. Ed è trionfo. Un violinista arabo di 12 anni fa capolino in questo bis verdiano: la forza del destino e il suo futuro.
[luca salvi]
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