Il regista Ari Folman, seguito dello scenografo David Polonsky, dona uno sguardo nuovo su uno dei periodi più bui della storia d’Israele, lasciando un prodotto originale e comparabile con le tavole a fumetti concepite da Joe Sacco con Palestine alla fine degli anni Ottanta. Ma ha una forza in più. Oltre alla sola funzione documentaristica, preponderante nella produzione di Sacco, che oltre alla Palestina occupata ci ha portato anche l’esperienza dei Balcani, o al reportage del cartoonist canadese Guy Delisle Pyongyang, Folman indaga la psicologia dei reduci del fronte. La violenza emotiva con cui Folman travolge lo spettatore, nel caso del film, o il lettore, qualora si cimenti nella lettura delle tavole a fumetti ricavate dalla sceneggiatura del lungometraggio, è frutto della spinta mimetica del testimone oculare. La curiositas del Folman reduce, che ha rimosso le immagini dei cadaveri ammassati per i campi profughi dopo l’eccidio operato dai falangisti maroniti, è paragonabile a quella dello spettatore ignaro che vuole scoprire la verità. Così, a braccetto dello stesso regista, si entrerà in una dimensione psichedelica, dove il cartoon è un ingrediente amplificatore della violenza dei fatti narrati. Non serve quindi il D Day di Spielberg, o il Vietnam di Stone, a Folman bastano i tratti a china e i colori delle produzioni per bambini di Polonsky. Quella fame di verità verrà svelata di incontro in incontro, di reduce in reduce, tra i ricordi di ventenni armati e allo sbaraglio. L’unica certezza è che la danza scriteriata del soldato Shmuel Frenkel, agli occhi del poster di Bashir, è sinonimo che in guerra non esistono eroi, ma solo ragazzini incoscienti. L’ossimoro dell’innocenza del cartoon, unito al dramma della guerra, lascia senza parole.
Ma dietro all’incoscienza e alla disinformazione militare si cela il disastro. La forza di questa graphic novel è proprio la rilettura attraverso gli occhi degli stessi protagonisti, ma filtrata con adulta consapevolezza. Il rischio della visione di Valzer con Bashir, con la ferita ancora aperta di Gaza, potrebbe indurci a un’interpretazione spiccatamente pacifista, ma l’intento di Folman non è certo questo. Come spiega Paolo Mereghetti sul Corriere, questa lettura è da fugare perché il film «si interroga, e ci interroga, sulle “amnesie” che cancellano ogni volta l' orrore della violenza e spingono a riutilizzarla anche se ne dovremmo conoscere la sua inutilità. E perché, utilizzando i disegni invece delle riprese dal vero, si interroga anche sull' usura delle immagini e sul modo migliore di entrare in comunicazione con lo spettatore. Il tema centrale del film, infatti, è l' amnesia di cui si rende conto il regista dopo le confessioni di un amico sugli incubi che lo perseguitano e che risalgono con evidenza al suo servizio militare e alle azioni di guerra in cui fu coinvolto».
[francesco cremonesi]
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