Tre sono stati i giornalisti espulsi nel 2007, con la scusa di aver dato nei loro articoli un’immagine negativa del Paese. A Cuba ci pensa Granma, il quotidiano ufficiale del regime castrista, a raccontare la verità, o meglio, a raccontare la verità più comoda ai fratelli Castro. Lo sanno bene i giornalisti cubani dissidenti, che per fare una minima controinformazione sono costretti a registrare le proprie testate online in Florida. Una delle poche voci del dissenso rimaste sul territorio cubano è quella della blogger Yoani Sanchez che, attraverso il suo blog Generacion Y, racconta ogni giorno la difficile realtà del suo paese. Tradotto in 15 lingue, il blog di Yoani è uno dei più famosi al mondo, tanto da avere conquistato il prestigioso premio del quotidiano El Pais Ortega y Gasset. Peccato che la blogger, però, non sia riuscito a ritirarlo: il regime, infatti, non le ha dato i permessi necessari per lasciare l’isola. Un milione i contatti che Generacion Y genera, tra i quali però difficilmente troveremo dei cubani residenti sull’isola: nonostante le aperture di Raúl Castro, sono pochissimi quelli che riescono ad accedere a internet. È forse per questo che il regime non ha ancora provveduto a oscurarlo, in quanto il suo impatto sulla popolazione è molto limitato e chiuderlo del tutto scatenerebbe grandi polemiche nel resto del mondo.
Un giornalista che ha vissuto sulla propria pelle la capacità del regime di imbavagliare i giornalisti stranieri è Gary Marx, corrispondente del Chicago Tribune che, insieme ad altri due colleghi, vide il suo permesso cancellato il 22 febbraio 2007 e fu costretto a lasciare il paese entro pochi giorni. «Ho vissuto a Cuba con mia moglie e i miei due figli dal 2002 al 2007. Dal primo momento che ho messo piede sull’isola, sapevo che avrei potuto essere espulso anche subito: un corrispondente della Reuters era stato allontanato soltanto pochi anni prima. Ma ho sempre pensato che avrei dovuto scrivere ciò che credevo fosse la verità, anche se questo avrebbe causato la mia espulsione. Gli ufficiali cubani mi chiamarono subito dopo il mio secondo o terzo articolo ed espressero rabbia e disprezzo verso il mio lavoro, ma ho continuato a scrivere, nonostante le pressioni fossero sempre presenti. Quello che il governo fa, con molto successo devo dire, è di obbligare i corrispondenti a censurarsi da soli piuttosto che affrontare la bomba mediatica di un’espulsione. Ho ragione di credere che il mio telefono e il mio ufficio fossero controllati dalla polizia. Sono stato trattenuto circa sei volte durante il mio ultimo anno a Cuba mentre lavoravo per i miei reportage. Eppure sono riuscito a sconfiggere la paura grazie anche a molte persone che mi sono state vicine».
Per Marx è stato sempre difficile raccontare la verità. «Cuba è uno stato di polizia dove non esiste libertà d’informazione e trasparenza da parte del governo e il popolo ha paura di esprimersi onestamente, soprattutto con uno straniero. Il regime spesso tira fuori delle statistiche sulla fantastica crescita economica o sulla bassissima mortalità infantile: peccato che non esista nessun modo di verificarle».
A fronte del pensiero di molti, sul fatto che Raúl Castro abbia instaurato un regime ancora più repressivo, Gary è convinto che sarà sempre più difficile per i giornalisti raccontare Cuba. Per Marx
«non è cambiato niente da quando Raúl è al potere, né per il popolo, né per i corrispondenti. Inoltre, i giornalisti stranieri sul territorio sono talmente pochi che si possono contare sulle dita di due mani. Ma sicuramente non potranno mai fare a meno della stampa straniera sul territorio perché senza di essa tutto quello che viene detto da Fidel o Raúl non sarebbe diffuso in tutto il mondo. Questo è molto importante per la leadership castrista».
Gary Marx non si sbilancia, però, sul successo di Yoani Sanchez. Quando gli chiediamo perché il regime non ha ancora chiuso il blog della giornalista, ci dice: «Per quello che ne so io, a Cuba niente è come sembra. Io sono stato tradito da una spia che per anni si era comportato come un giornalista dissidente. Detto questo, non conosco Yoani personalmente, ma ho letto il suo blog. Sono sicuro che il governo cubano conosce ogni sua mossa, ma forse pensa che permetterle di scrivere il suo blog porti più benefici che chiuderlo. Sono pochissimi i cubani che hanno accesso a internet, quindi ciò che scrive ha davvero un impatto molto limitato». Dunque, ci sarà mai libertà di opinione a Cuba, internet o no permettendo? «E chi lo sa? Dieci anni fa nessuno avrebbe mai pensato che un afroamericano avrebbe potuto essere eletto presidente degli Stati Uniti. Una risposta a questa domanda non è possibile nel futuro a noi vicino. Salvo imprevisti, il regime cubano rimarrà saldo, così come il partito unico».
[alessia lucchese]
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