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Libero a Silvio: «Abolisci le province»

Libero è più agguerrito che mai: la battaglia per l’abolizione delle province è appena iniziata. Venerdì 29 novembre Gianluigi Paragone, vicedirettore del quotidiano, ha lanciato un vero e proprio appello al premier Berlusconi: «Elimina le province». Un richiamo che parte dalla riflessione sul piano anticrisi varato dal governo: se davvero lo Stato ha bisogno di soldi per salvare l’economia, potrebbe recuperare ben 16 miliardi di euro l’anno dalla chiusura di questi enti inutili. Un provvedimento che d’altronde era stato promesso in campagna elettorale, ma che finora non ha trovato una risposta a causa, dice Paragone, dell’intransigenza della Lega Nord, da sempre contraria all’abolizione delle amministrazioni provinciali in quanto rappresentano un forte legame con il territorio.

Paragone, dalle colonne del quotidiano, invitava inoltre tutti i lettori che si trovavano d’accordo con questa proposta a inviare la propria adesione. Detto, fatto. Nel giro di pochi giorni la redazione di Libero è stata letteralmente sommersa da migliaia di firme, un successo che lo stesso Vittorio Feltri non si aspettava. Ogni giorno Libero pubblica almeno quattro pagine di nomi e cognomi, entusiasti dell’iniziativa.

D’altronde gli attacchi di Libero alle province non sono cosa nuova: durante l’estate, infatti, il quotidiano aveva dato vita a una vera e propria campagna anti-province, denunciando costi e sprechi di queste amministrazioni. Le province italiane sono passate da 69 durante l’epoca giolittiana a 110, delle quali alcune, come l’Ogliastra, raggiunge a malapena i 57.000 abitanti. I membri delle giunte provinciali costano ai cittadini circa 50 milioni di euro, mentre il numero di dipendenti si aggira intorno ai 300mila. La denuncia si era assopita nei primi mesi autunnali, per poi riprendere con vigore pochi giorni fa. Molti i pareri positivi, anche da parte di esponenti illustri di maggioranza e opposizione: il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini ha dichiarato la volontà del suo partito di promuovere la campagna, mentre il ministro alla Difesa Ignazio La Russa ha proposto un piano in tre anni, promettendo di convincere anche Bossi. Già, perché il problema rimane sempre quello della Lega: fino a quando saremo al governo, dice il senatür, le province non si toccano.

«La polemica esiste ormai da quasi quarant’anni, da quando nel 1970 furono istituite le regioni» afferma Angelo Mattioni, docente di diritto costituzionale all’Università Cattolica di Milano. «Il problema è che le province sono previste dall’articolo 114 della Costituzione e quindi per abolirle è necessario procedere a una revisione costituzionale. Il progetto di legge deve essere approvato due volte dalle Camere con una maggioranza qualificata, un procedimento lungo e complesso che deve vedere partecipe anche l’opposizione per raggiungere il quorum richiesto. L’articolo 5, inoltre, riconosce le autonomie territoriali, quindi il loro valore costituzionale è molto forte. Non mi sento di considerare le province come un ente inutile, esse possono avere una propria funzione anche con le regioni. È necessario che il governo prenda dei provvedimenti per valorizzarle in modo più razionale. A mio avviso è importante che esista un livello intermedio tra comuni e regioni; allo stesso modo potrebbero essere creati dei consorzi comunali, dove potrebbero confluire anche i dipendenti delle amministrazioni provinciali. Politicamente, la questione è irrisolvibile: se ne è sempre parlato durante le campagne elettorali per cercare il consenso, perché quando si vuole abolire qualcosa che crea degli sprechi, si ottiene il riconoscimento degli elettori».

Filippo Penati, presidente della Provincia di Milano, esprime un parere moderato: «Non credo si possa pensare di abolire le province come se niente fosse, perché non credo possa migliorare l’efficienza del sistema degli enti pubblici. Infatti, l’amministrazione provinciale come ente sovracomunale si occupa di settori cruciali per la vita dei cittadini, come la viabilità, l’edilizia scolastica, l’ambiente, i servizi e le agenzie per il lavoro. Credo però che nelle aree metropolitane, dove c’è bisogno di un governo di area vasta, le province e i comuni capoluogo debbano lasciare il posto alle città metropolitane, modello di governance strategico ed efficiente, che abbia poteri significativi e capacità decisionali, in modo da rispondere in modo adeguato alle esigenze di un territorio complesso come quello milanese, in continua evoluzione».

Favorevole all’abolizione è invece Romano La Russa, assessore all’industria in quota An per la Regione Lombardia: «Non sono completamente contrario, non tanto perché le consideri enti inutili, ma per la mia storia personale: l’Msi era infatti addirittura contrario alle regioni nel 1970 perché era certo che si sarebbe creato l’ennesimo carrozzone. Il governo di allora, di centrosinistra, aveva promesso che non sarebbero stati assunti nuovi dipendenti, ma in realtà sappiamo che da allora province e regioni hanno visto crescere il numero dei dipendenti. Se proprio non si può arrivare all’abolizione, bisogna almeno ridurle, accorpando quelle con minor numero di abitanti. Una provincia, per essere considerata tale, dovrebbe avere almeno un milione di abitanti, mentre alcune non raggiungono nemmeno i centomila. Purtroppo sarà molto difficile arrivare a questo: in Italia c’è un campanilismo molto radicato e non tutti rinuncerebbero ad avere la propria provincia. Ma è necessario oggi razionalizzare, ridurle anche del 50%». Ma se la Lega Nord non è favorevole, come potrà tradursi in realtà? «Io credo che la maggioranza degli elettori della Lega siano favorevoli all’abolizione delle province, come quelli del Pdl, perché le percepiscono come uno spreco. È più un fatto ideologico: perché la Lega è un partito molto radicato nel territorio e i vertici hanno paura di perdere questo contatto con la popolazione. Ma sono sicuro che insieme si potrà trovare una soluzione». Sarà, ma intanto convincere Bossi a rinunciare alle sue cinque province (Como, Sondrio, Treviso, Varese e Vicenza) e al potere politico che ne consegue, non sarà impresa facile.


[alessia lucchese]

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