«Adesso dobbiamo avere paura di chi dice: obbedisco». Con questa citazione del giornalista americano Dwight Macdonald, si apre Ribellarsi è giusto, un’antologia inusuale quanto fondamentale per il valore civico-filosofico, proposta dalle Edizioni dell’asino. Passare dalla teoria alla pratica della disobbedienza, scoprendone analiticamente i fondamenti e i concetti attraverso la storia del fenomeno stesso dell’eversione. Adrenalina per la coscienza politica dell’individuo, dunque, una scossa al pensiero moderno incatenato ai concetti negativi di anarchia, sovversione, disordine, insidia e violenza che l’esperienza ha svuotato di credibilità. Chi è dunque l’uomo in rivolta, l’individuo che dice no? E che valore ha questo no? Interrogativi che hanno gettato le fondamenta del Sessantotto europeo e americano, punto di partenza della Peste e del L’homme révolté di Camus. Tempi e scenari di riferimento diversi tra loro, dagli orrori del totalitarismo agli inganni della società dello spettacolo, Ribellarsi è giusto offre la possibilità di confrontarsi col pensiero dei quaccheri del Seicento alle prese con l’evasione delle tasse come protesta contro le operazioni militari, per passare a grandi nomi come Camus, Thoreau, Gandhi, Goodman, don Milani, Böll e Anders.
L’onda lunga della disobbedienza si è quindi manifestata ai nostri giorni nelle più molteplici forme: dalle rivoluzioni colorate delle ex repubbliche sovietiche ai passamontagna neri dei Black block; oppure, dall’affermazione di politici nostrani di dubbio sostrato culturale agli scioperi della fame del partito radicale. Picchi di eccellenza politica, ma anche bassezze nate dal ventre molle di certe realtà underground: la realtà dei discoli disobbedienti è varia e avariata tanto quanto l’universale umano. In altre parole, non si può e non si deve fare confusione, sebbene il panorama della disobbedienza sia più che mai vasto, e l’antologia dell’Asino può essere un buon punto di riferimento per capire e per, magari, far partire la nostra forma di dissenso, diventando veri e propri “monelli” di professione.
Ma nel mezzo della ribellione, apice dell’atto disobbedienza civile, deve essere chiaro contro chi indirizzare la propria contestazione. L’azione è mossa contro la degenerazione dei principi di Stato avanzati da Hobbes e Weber, ovvero contro l’abuso del diritto legittimo dello Stato al “monopolio della coercizione della forza”. È la dottrina marxista, ma ancor più leninista, che fa proprio, invece, il concetto di Stato come “prodotto e manifestazione dell'antagonismo inconciliabile delle classi” ad aver guidato l’atto disobbediente dal Sessantotto a oggi. È chiaro che le tesi del socialismo reale si sposano a pennello al paradigma d’azione di ogni ribellione, ma l’antologia Ribellarsi è giusto va oltre questo stereotipo che ancora, talvolta, monopolizza la mobilitazione collettiva.
«Protestare, disobbedire, dire no è difficile, il vero problema è l’offerta di un’alternativa valida – spiega Amico Dolci, figlio di Danilo Dolci, bandiera della lotta sociale siciliana e italiana del dopoguerra –. Mio padre questo lo aveva chiaro, e per questo si era adoperato per la costituzione di un centro studi per trovare delle soluzioni ai problemi che contestava alle amministrazioni pubbliche siciliane. Questi centri di autoanalisi popolare nascevano su una matrice religiosa soprattutto cattolica. Papà aveva Gesù e Gandhi come figure di riferimento: un patrimonio umano immenso che si traduceva nel modo di elaborare logiche di cambiamento nel rispetto del prossimo. Anche contro il fenomeno dei voti mafiosi, lui non provava astio contro queste persone ma, allo stesso tempo, faceva di tutto per bloccare e destabilizzare quel sistema corrotto e alla deriva». Eppure il limes di separazione tra disobbedienza e azione violenta di imposizione dei diritti è molto sottile. Se da un lato abbiamo gli esempi di Cristo o Gandhi, dall’altro lato della barricata non mancano gli episodi di sangue del movimento studentesco ispirati da modelli che, a tempo debito, il fucile lo hanno imbracciato come Ernesto Che Guevara o Emiliano Zapata. «Durante il Sessantotto il lavoro svolto da mio padre fu messo a rischio dalle spinte che venivano all’interno del suo gruppo – conclude Amico Dolci –. I tempi erano infiammati dalla contestazione e alcuni auspicavano la reazione violenta. Papà, insieme a personaggi come Aldo Capitini, scelsero invece di passare all’azione non violenta, una scelta delicata che si separava dalla sola nonviolenza passiva. Rifiuto totale della violenza, ma non a scapito dell’azione»
[francesco cremonesi]
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