I provvedimenti, di natura diversa, sembrano convergere verso un inasprimento della lotta alle droghe “leggere” nei due paesi più liberali in materia di stupefacenti. Davanti alla possibilità che una simile inversione di rotta possa essere l’inizio di un’ondata neo-proibizionista in Europa, l’eurodeputato radicale Marco Cappato (Alde) è scettico: «Non sono modifiche positive, ma non credo a un’onda lunga repressiva. È inoltre comprensibile che i Paesi più piccoli prendano le difese da un turismo di massa: lo spinello libero è un’attrattiva». Cappato, rappresentante di un partito da sempre a favore di una politica più emancipata, vede comunque il bicchiere mezzo pieno. La Svizzera infatti ha approvato con il 68% dei voti la somministrazione controllata di eroina statale: «È la conferma di un esperimento, un risultato da valorizzare: l’eroina legale non ha fatto paura. Nessuno dice che le droghe fanno bene, ma si è capito che i costi sociali aumentano con le proibizioni. Così lo Stato può fare prevenzione e non abbandona i tossicodipendenti al rischio Aids». Il traffico di droga è il business principale della criminalità. Per Cappato «la devastante presa della mafia sull’ordine sociale impone delle motivazioni pragmatiche che non dovrebbero essere estranee alle motivazioni ideali dei più conservatori».
Queste ultime sono bene espresse da Matteo Dellanoce, membro del gruppo di Documentazione Interdisciplinare Scienza e Fede dell’Università Pontificia Santa Croce: « È una battaglia di civiltà: non si capisce perché legalizzare qualcosa che finora abbiamo combattuto perché fa male». E sul referendum svizzero il punto di vista è completamente opposto: «Il no alla cannabis esprime una presa di coscienza delle persone, che hanno capito quali sono i danni che provoca. Impedire sostanze dannose per la salute non è una violenza o una proibizione, ma una tutela e un progresso». Dellanoce privilegia un’analisi di principi: «La liberalizzazione dovrebbe escludere il controllo dello stato, regola che i favorevoli dimenticano sempre. Inoltre, la nazione che autorizza il consumo di droga non ha più speranza e quindi è senza futuro, perché crede ormai in un mondo artificiale. Basti pensare che esistono addirittura persone dipendenti dallo shopping o dalla playstation. Non si tratta quindi di proibire, né di limitare, ma esaltare la libertà individuale dicendo sì alla vita e uscendo da un mondo artificiale: non lasciamo che si imponga una nuova schiavitù».
Ad ogni modo, la sbandierata legalizzazione non è attuabile in senso stretto, poiché implica l’autorizzazione non solo a consumare, ma anche a produrre, attività proibite dal Trattato internazionale delle Nazioni Unite di New York nel ’61 e dalle Convenzioni di Vienna del ’71 e dell’88. L’avvocato romano Angelo Averni, autore del libro Proibizionismo e antiproibizionismo (Castelvecchi), spiega: «Il modello olandese è un ibrido, perché autorizza il consumo, ma resta un equivoco: da dove arriva la marijuana che si materializza nei coffe shop?». Il traffico illecito proviene per lo più dal Marocco, mentre nel biennio 2005-2006 sono stati smantellati 6000 centri di coltivazione “orange”. Secondo Averni tale strategia è «una cura del mercato al dettaglio: per ridurre la dipendenza da droghe pesanti si mette un divario tra lo smercio di cannabis e di oppiacei, evitandone la contiguità tramite gli spacciatori». Secondo l’Osservatorio europeo delle droghe e tossicodipendenze, nel 2006 solo l’8% degli olandesi fra i 15 e i 34 anni ha fumato cannabis, contro il 20,3% degli spagnoli e il 16,5% degli italiani. Averni osserva: «Il divieto non funziona. Il proibizionismo non è mai tramontato, ma è continuo, si rafforza. I microprovvedimenti non spostano però il problema nelle sue mille sfaccettature sociali, economiche, educative e mediche. Il caso svizzero è poi legato a una realtà piccola, dove si possono personalizzare le cure. La tossicodipendenza è infatti una patologia di secondo livello e non bisogna abbandonare il malato a se stesso, agli spacciatori e alla delinquenza».
Secondo la sociologa di Bologna Alessia Bertolazzi «la cannabis rischia di diventare un capro espiatorio politico; dal momento che è la più diffusa fra le sostanze più in uso, è ovvio che si cerchi di colpirla, anche se crea danni minori rispetto ad altre». In Italia la legge Fini-Giovanardi equipara le cosiddette droghe leggere a quelle pesanti, ma secondo Bertolazzi «la distinzione c’è e il passaggio dalle une alle altre non è stato provato. Bisogna cambiare metodo. Il consumatore di droga non è irrazionale, si può quindi attuare una politica di riduzione del danno, fornendo materiale informativo per responsabilizzarlo, dando soccorso nei luoghi dove il consumo è già conclamato, come nei rave». La sociologa sottolinea: «È in atto una “normalizzazione dell’uso”, legittimato dagli utilizzatori; un accomodamento culturale di una prassi sociale. L’obiettivo di proibire l’uso ha quindi poco riscontro nella società».
La Relazione annuale al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze nel 2007 dice che l’uso di cannabis è disapprovato dal 71% della popolazione. La media di chi ne fa un uso annuale è maggiore che in Europa (13%) e 14 persone ogni mille ne fanno un uso frequente. L’eurodeputato Iles Braghetto (Ppe-Udc) prova a tirare le somme: «La lotta alla droga non sarà mai risolutiva, perché la debolezza umana ci sarà sempre. È più semplice arrendersi e assistere queste persone, ma deresponsabilizzare è anche la scelta meno umana e meno civile. Chiediamoci tuttavia se dobbiamo aggiornare i nostri metodi di prevenzione».
Insomma, l’annosa quaestio fra proibizionismo e antiproibizionismo, che intreccia etica e scienza, non è ancora risolta. Le parti divergono su principi come la responsabilità, individuale o sociale, l’etica sanitaria, la tutela e la libertà del cittadino. Vista l’enormità degli interessi e dei problemi sul campo, con una spesa sociale che nel solo comparto sanitario arriva a 1.865 milioni di euro l’anno, sarà bene che il dibattito prosegua e, come ricorda lo stesso Braghetto, «non ci si deve arrendere all’idea che una persona possa dipendere da una sostanza, mentre va ricordato il grande lavoro che ogni giorno già fanno le comunità terapeutiche di recupero italiane».
[daniele monaco]
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