«Anche quando non è possibile guarire è sempre possibile curare»: una frase di Vittorio Ventafridda, pioniere della lotta al dolore in Italia e direttore scientifico della Fondazione dal 1978, che i Floriani hanno fatto propria, assistendo in questi anni centinaia di malati in fase terminale. Prima in Italia la Fondazione ha istituito, in collaborazione con la sezione milanese della Lega italiana per la lotta contro i tumori, un servizio di assistenza domiciliare gratuito, grazie al quale i malati possono trascorrere i loro ultimi giorni circondati dall’affetto dei familiari. Un sostegno che si può definire “globale”, in quanto fisico, spirituale, psichico e sociale non solo del paziente, ma anche della sua famiglia. Cinque le figure professionali che compongono l’unità di cure palliative: il medico, che imposta la terapia e mantiene i contatti con il medico di base; l’infermiere, che attua il trattamento a domicilio e provvede a raccogliere informazioni per le terapie più opportune; l’assistente sociale, che aiuta la famiglia a risolvere le necessità più urgenti; lo psicologo, che segue tutte le fasi della cura e può anche fornire supporto individuale a pazienti o familiari; il volontario, che collabora per risolvere problemi di natura non sanitaria. Quando il paziente necessita di cure che non possono essere effettuate a domicilio, viene trasferito negli hospice, strutture residenziali che garantiscono assistenza 24 ore su 24 e che ricreano un ambiente domestico, dove i parenti possono addirittura cucinare pasti e pernottare con il malato.
Per conoscere meglio le azioni della Fondazione, abbiamo parlato con la dottoressa Francesca Crippa Floriani, presidente della Federazione cure palliative e dell’Associazione Amici della Fondazione Floriani.
Da trent’anni promuovete le cure palliative per i malati terminali, cercando di dare dignità alla morte di queste persone. Quali sono le patologie che seguite di più?
«Quando è nata la Fondazione, volevamo dare una risposta soprattutto ai malati di cancro. Oggi però la situazione è cambiata: in Italia ogni anno ci sono 250.000 malati terminali, di cui solo la metà sono colpiti dal cancro. Le altre patologie, come quelle neurologiche, respiratorie, metaboliche e cardiopatiche, sono malattie che nei prossimi anni colpiranno gran parte della popolazione, che sarà sempre più anziana e sempre più malata. È necessario organizzare una risposta a questo problema con urgenza».
Nella cura dei malati terminali l’hospice ha un ruolo fondamentale, ma è una struttura sviluppata soprattutto al Nord. Cosa possono fare le istituzioni per colmare questo vuoto?
«Nel 1999 il ministro della Sanità Rosy Bindi ha firmato una legge che prevedeva dei finanziamenti alle regioni per realizzare degli hospice. Ogni regione ha utilizzato questi fondi a suo uso e discrezione, tanto che oggi troviamo una situazione di eccellenza per alcune regioni del Nord come Lombardia, Piemonte e Veneto, e un vero e proprio deserto nel Sud. Queste regioni avanzate devono ora tirarsi dietro tutta l’Italia, per rispondere alla sfida verso la fragilità del terzo millennio».
In Italia non esiste ancora una legge dello Stato che regoli l’applicazione delle cure palliative
«Non è corretto dire che non c’è una legge, in realtà manca l’applicazione di ciò che c’è già. È necessaria oggi una legge quadro che attui ciò che già c’è. Per le cure palliative non c’è bisogno di molte risorse economiche, ma di risorse umane. Purtroppo in Italia manca una cultura diffusa delle cure palliative».
Il modello Floriani prevede la somministrazione di morfina. Ci sono ancora molti pregiudizi in Italia su questa sostanza?
«Purtroppo sì, per un retaggio culturale che considera la morfina come una droga. In più si aggiunge anche un intoppo burocratico secondo il quale il medico di base, per prescrivere delle sostanze oppiacee, deve utilizzare un ricettario apposito per le sostanze stupefacenti che nemmeno il 25% dei medici di famiglia possiedono. L’Italia è tra gli ultimi paesi in Europa per l’utilizzo di farmaci derivati dalla morfina».
Circa un mese fa è scomparso Vittorio Ventafridda, per molto tempo vostro direttore. Qual è il testamento che vi ha lasciato?
«È stato un grande pioniere, è stato il primo a parlare di terminalità in Italia. È stato allievo di John Bonica, il primo al mondo a studiare le terapie del dolore. Il testamento che ci ha lasciato è quello non solo di diffondere le cure palliative per curare i malati oncologici, ma ampliare il nostro orizzonte verso le nuove patologie».
[alessia lucchese]
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