Tosca di Puccini: una delle opere più amate e rappresentate al mondo. Per quante esecuzioni potremo ascoltare ancora in futuro, esiste dal 1953 una interpretazione per la quale l’aggettivo “perfetta” non è sproporzionato. In essa, sotto la direzione di Victor De Sabata e in compagnia di un grande Tito Gobbi, compare la coppia più famosa dell’opera lirica: Maria Callas e Giuseppe Di Stefano. Trent’anni dopo la Callas, ora anche Di Stefano se ne è andato e raggiunge un pantheon di artisti degli anni d’oro dell’opera lirica che ci hanno lasciato negli ultimi anni (Franco Corelli, Renata Tebaldi, Birgit Nilsson, Elisabeth Schwarzkopf, Anna Moffo). Giuseppe Di Stefano è morto ieri nella sua casa di Santa Maria Hoè (Lecco), ma aveva cominciato a spegnersi tre anni fa, quando era stato ferito durante una rapina nella sua casa in Kenya. Era stato ricoverato all’ospedale di Mombasa e poi trasferito in Italia, in un ospedale milanese. Dove è rimasto in coma fino agli ultimi giorni.
Giuseppe Di Stefano, nato a Motta Sant’Anastasia (Catania) nel 1921, dopo un inizio come cantante di musica leggera, e dopo avere seguito l’insegnamento del baritono Montesanto, debutta nella Manon di Massenet nel 1946 a Reggio Emilia e l’anno dopo è già alla Scala. Da lì ha inizio una carriera folgorante, in cui si distingue per il suo timbro vellutato e la grande presenza scenica, legando presto il suo nome a quello della Callas, dalla prima apparizione insieme (La Traviata di Verdi nel 1951 a San Paolo del Brasile) fino all’ultima nel 1973, tra l’altro ultima tournée della cantante greco-americana. Di Stefano ha tenuto poi ancora alcuni concerti fino in tempi più recenti, tenendo dagli anni ’70 alcuni seminari e stage di canto. Suoi cavalli di battaglia sono stati il Duca di Mantova (nel Rigoletto verdiano), Cavaradossi (nella Tosca), Edgardo (nella Lucia di Lammermoor donizzettiana e Don Alvaro nella Forza del destino. Ha cantato con i più grandi cantanti e direttori: dalla “divina” alla Tebaldi, da Taddei a Christoff, dalla Simionato alla Scotto, da Victor De Sabata a Tullio Serafin, da Antonino Votto a Herbert von Karajan.
Di Stefano è stato quindi un grande esempio e lo è tuttora. «È stato un pilastro dell’opera e della discografia – dichiara a Magmagazine la soprano Cecilia Gasdia che, dopo averlo conosciuto a un concorso, ne era divenuta grande amica –. L’ultimo della scuola italiana che va dagli anni ’40 agli anni ’70. Ancora oggi i suoi dischi si vendono più di tanti contemporanei». Una scia di tenori ha cercato di carpirne i segreti timbrici e il suo stile di canto veniva contrapposto a quello di Mario Del Monaco. Anche se, come ricorda Cecilia Gasdia, «i due non erano affatto nemici, come si diceva allora: anzi si trovavano insieme per imparare l’uno dall’altro. Per quanto riguarda i cantanti odierni, si può dire che Carreras abbia seguito il modo di cantare di Di Stefano. Persino Pavarotti, che aveva un tipo di timbro diverso, ne ha seguito l’esempio: l’apertura della voce nei suoni di passaggio e la chiarezza di dizione rimandano sicuramente allo stile di Giuseppe». Il tenore Marcello Giordani, anche lui siciliano, cresciuto ascoltando i dischi di Di Stefano, lo considera un mentore: «L’avevo conosciuto a un concorso a Vienna e poi tramite amici in comune. Il suo modo di porgere la frase è ineguagliabile. Era anche una splendida persona: considerava il canto come un dono di Dio e ti trasmetteva la sua gioia di vivere anche nel modo in cui cantava. Mi sento molto lusingato quando mi paragonano a lui». Cecilia Gasdia, che del tenore possiede tutti i dischi, lo considera una persona eccezionale sia artisticamente che umanamente: «Il suo modo di cantare era unico: una voce bellissima, una vocalità molto aperta e una pronuncia chiara. Arrivava al cuore di tutti, con una facilità impressionante. Ed era una persona affabile. Alla fine si è goduto la sua vita fino in fondo: amava divertirsi, e anche fumare, senza che questo gli abbia dato problemi dal punto di vista vocale. Ma ha anche dovuto affrontare momenti tragici, come la perdita della figlia in giovane età».
La lirica, oggi così negletta dagli operatori della comunicazione, e frequentata solo dagli appassionati, oggi perde uno dei suoi testimoni più autentici. Forse meno mediatico di un Pavarotti, e per questo confinato a un ritaglio di copertina o a un box in terza pagina, ma un grande artista di certo. Italiano doc, come il melodramma.
[luca salvi]
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