"Ci vogliono sette serbi per fare un kosovaro"
È solo una nota a margine, forse anche meno, ma ugualmente significativa. Lontano dalle luci della ribalta, dai palazzi del potere di Bruxelles e New York in cui verranno prese le decisioni, la questione del Kosovo assume un altro aspetto. Meno diplomatico, più concreto. Oggi il Fronte per la Lombardia Indipendente ha organizzato un picchetto di fronte al Consolato albanese di Milano, in Piazza Duomo. Viene spontaneo pensare a una carovana di pensionati con i lucciconi agli occhi davanti alla “bela Madunina” e ti chiedi che cosa possano mai sapere del Kosovo e cosa li abbia portati in piazza, in una mattina di freddo polare.
Poi li incroci in Corso Magenta. Un gruppo sparuto di ragazzi, guidati da un ex leghista di lungo, lunghissimo corso, Massimiliano Ferrari, leader riconosciuto del movimento a Varese. E scopri che, contrariamente a quanto t’aspettavi non si sono dati appuntamento per solidarizzare con gli Albanesi del Kosovo in nome del diritto all’indipendenza. Ferrari soddisfa la curiosità del cronista che l’avvicina e prima ancora che di vicende balcaniche vuole sapere di questo – per ora – micro partito. “Siamo fuoriusciti della Lega, con cui abbiamo rotto i ponti. Sono anni che ne denunciamo l’istituzionalizzazione, l’assenza di orizzonti politici e la propensione ad occupare posti e poltrone come qualunque altra forza politica. Da noi non sentirai parlare di Padania o cose del genere, che non hanno senso. Noi chiediamo che la Lombardia diventi una regione a statuto speciale, al pari di Sicilia e Trentino”.
In piazza non ci sono più di dieci persone. L’ispettore della Digos si presenta accompagnato da alcuni colleghi, ma non ci sarà molto lavoro. Ferrari e i suoi srotolano uno striscione e indossano dei cartelli-sandwich che recitano: “Il Kosovo è Europa non Albania”. Sembra strano questo schierarsi a favore della Serbia e contro ogni ipotesi d’indipendenza. “Noi siamo a favore dell’indipendenza dei popoli nei loro stati. In Kosovo gli Albanesi sono arrivati dopo, non c’entrano nulla con quella provincia e che l’Europa sia disposta a riconoscere un’indipendenza che non ha nessun fondamento storico è paradossale. Se gli albanesi un giorno volessero istituire un califfato in Italia ne avrebbero diritto?”. Si affaccia un dipendente del Consolato e chiede se il gruppo vuole essere ricevuto. No, grazie, non c’interessa, è la risposta.
Ferrari precisa che il suo gruppo ha conservato con coerenza la posizione che la Lega aveva sulla guerra in Kosovo, quella pro-serba. Di quel periodo restano i ricordi. E contatti. Viene srotolato uno striscione con l’aquila bianca bicefala. È del Srpska radikalna stranka, il Partito radicale serbo, l’ultradestra vista come il fumo negli occhi a Bruxelles e Washington. Passa un serbo in Italia da quindici anni. Si avvicina titubante, non capisce in principio. Poi vede lo stemma del partito di Tomislav Nikolić e sorride: “Grazie, è davvero una bella iniziativa. Voi europei siete sempre stati per gli albanesi. Non me l’aspettavo. Il Kosovo è nostro, è serbo, non è giusto che ci venga tolto. Noi viviamo lì da sempre, loro sono arrivati dopo. Roba di pochi decenni fa e adesso che sono maggioranza ne rivendicano il possesso”.
Ci risiamo. Si ritorna alla questione su di chi fosse il Kosovo in principio e finora la storiografia non ha trovato una risposta univoca.
La pensa diversamente – che strano – Paskh, un “albanese del Kosovo, non dell’Albania”, precisa lui. All’inizio è guardingo ma poi non resiste e si abbandona al miglior campionario del nazionalismo kosovaro. “I serbi vengono dalla Russia (falso!, ndr ) e nemmeno loro hanno diritti sul Kosovo. Per fare un kosovaro ci vogliono sette serbi. Il Kosovo è una terra d’oro, c’è oro dovunque fai un buco”. Viene da sorridere di fronte alla totale mancanza di realismo e senso del ridicolo. Nega che negli ultimi anni il Kosovo sia stato un buco nero che ha divorato miliardi di euro, che abbia partorito una burocrazia elefantiaca e corrotta, che sia diventato un narcostato al servizio dei potentati mafiosi, che non abbia i requisiti minimi di statualità per poter camminare con le proprie gambe. Paskh si attacca a quelli che sono miti, come le miniere di Trepča, che nei suoi sogni non sono miniere di rame in disarmo ma miniere d’oro che fanno gola a tutto il mondo. E il patrimonio ortodosso, centrale nell’identità serba? Non esiste, gli stessi serbi in Kosovo non esistono per lui. Se Belgrado e il resto del mondo non lo vogliono capire, la questione si può risolvere come una scazzottata da saloon: “Tutti fuori dal Kosovo, ce la vediamo noi con i serbi”. Dimentica che se la Serbia volesse, potrebbe schiacciare qualsiasi velleità di resistenza albanese e nessuno oserebbe mandare i propri uomini in quel pantano a sfidare un esercito temibile. Non lo fece nemmeno la Nato nel’99.
Il virus nazionalistico dei Balcani non vuole saperne di morire. È bastata una mattinata a piazza Duomo per ricordarselo.
[alberto tundo]
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