Nell'inumano, io salvato dalla pietà d'un soldato
«Sento ancora la puzza della carne bruciata. Vedo ancora quei campi traboccanti di corpi sventrati dalle mitragliatrici. Donne e bambini insozzati di sangue, gonfi e infestati di mosche, riversati sull’erba annerita». Enio Mancini aveva poco meno di 7 anni all’alba del 12 agosto 1944, il giorno in cui si consumò la strage di Sant’Anna di Stazzema. È un sopravvissuto, uno dei pochi scampati alla furia delle SS.
Erano passati più di 50 anni prima che decidesse di raccontare la sua storia. Poi nel 1994 a Roma, in un sottoscala di Palazzo Cesi, si scopre l’”Armadio della vergogna”, pieno di fascicoli che contengono dati anche sulla storia di quel paesino immerso fra le Apuane della Versilia. Allora anche lui era riuscito a parlare. A raccontare la sua storia. «Finalmente c’era la speranza della verità. Finalmente la possibilità di avere giustizia, non vendetta, giustizia». Enio è stato per anni presidente del Museo storico della resistenza di Sant’Anna e ha assistito a tutte le sedute del processo istruito a La Spezia nel 1998. Nel 2005 arrivano le condanne, confermate in appello a Roma un anno dopo.
Ma a poche ore dalla sentenza attesa in Cassazione, che avrebbe potuto accettare la richiesta di annullamento formulata dal procuratore generale Vittorio Garino, respinta poche ore fa, e che ha confermato gli ergastoli per i tre ufficiali tedeschi come aveva fatto il tribunale di Roma l'anno scorso, il frastuono delle urla ascoltate da bambino, la paura, i flash riaffiorano d’un colpo, quasi per la voglia di gridare che a Sant’Anna sono morte oltre 560 persone, e che nessuno su questa verità può sputarci sopra, «nessuno può rificcare tutto in quel sottoscala polveroso, nell’“Armadio della vergogna”, appellandosi all’insensibilità di un cavillo giudiziario».
Lui è uno dei pochi che a Sant’Anna ha incontrato la compassione. Due volte: negli occhi di due SS che hanno deciso di risparmiare lui e la sua famiglia. Viveva a Sennari, uno dei tanti borghi che costellano Sant’Anna. «Arrivarono dal sentiero che arriva da Farnocchia, un altro paese del comune di Stazzema. Ho ancora negli occhi i fumogeni rossi lanciati su tutta la valle. Dopo anni seppi che annunciavano l’avvio dei rastrellamenti. Fecero uscire le famiglie dalle case e cominciarono a incendiarle. Poi ci ammassarono contro un muro. C’erano già le mitragliatrici piazzate e i militari pronti con i lanciafiamme. Ho ancora vive nella memoria le grida della gente, la concitazione, la paura che provavo perché la provava mia madre. Ma poco dopo l’ufficiale che comandava quella compagnia decise di far smontare e ci disse “Raus, Raus, schnell, schnell… Via, via, svelti svelti”. Io, mia mamma, le nonne e il mio fratellino ci avviammo verso Valdicastello, ma poco dopo incontrammo un'altra pattuglia. Pareva ci dovesse accompagnare fino alla piazza della chiesa, ma poi ci lasciò soli con un soldato. Avrà avuto 18 anni. Ebbe pietà, sparò qualche raffica in aria e ci fece segno di scappare».
Alla piazza sarebbero state trucidate 138 persone. Ma Enio lo seppe solo dopo molte ore. Scappò verso i boschi, per raggiungere il padre che vi si era rifugiato nella notte. Attraversando i campi vide i morti, e ancora oggi riesala la puzza di carne bruciata: «Mi dà fastidio». Ancora oggi riappaiono improvvisamente, di notte, le immagini dei bambini trucidati: «Mi fanno paura». E il volto di quei soldati «che non ho più rincontrato».
[mario neri]
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