TESTIMONIANZE

«Ho visto morire tutta la mia famiglia»

«Ci rinchiusero in cucina e cominciarono a sparare. Io fui salvato da una bambina che mi trascinò nel sottoscala». Enrico Pieri aveva solo 10 anni quando una pattuglia della XVI divisione Panzergrenadier “Reich Führer” comandata da Anton Galler entrò nella casa di sua nonna nel borgo Franchi, una delle tante località di Sant’Anna di Stazzema, dove il 12 agosto del 1944 le SS trucidarono 560 persone nell’eccidio più efferato compiuto durante la seconda guerra mondiale.
Ha già avuto notizie da Roma. La Cassazione ha confermato gli ergastoli ai tre ufficiali che ordinarono la strage. Ma per lui quella sentenza non cambia molto: «Non credo che una sentenza avrebbe cambiato nulla. A Sant’Anna i soldati tedeschi hanno compiuto un crimine contro l’umanità. Nessuno avrebbe potuto macchiarne questa verità storica. Sono soddisfatto soprattutto per il pm Marco De Paolis e tutto il team della procura di La Spezia che in questi anni ha portato a termine un lavoro enorme».
Enrico, che oggi è presidente dell’Associazione Martiri di Sant’Anna, quel giorno perse tutto. In quella cucina assisté all’esecuzione di due famiglie: la sua e la famiglia Pierotti, di cui si salvarono solo due bambine Grazia e Gabriella, di 12 e 13 anni. Ha guardato negli occhi quei soldati che trucidarono la madre, il padre e due sorelline di 12 e di 4 anni. La mitragliatrice, «se ascolto bene, ogni tanto, la sento ancora». «Ho solo dei flash di quei momenti. Successe tutto in cinque minuti, forse meno, ma per me in quella stanza è passata l’eternità.»
«Mi salvò una delle due bambine, Grazia. Si erano nascoste in un ripostiglio del sottoscala dove mia nonna teneva della paglia e delle masserizie. Sentivo quella voce che mi chiamava, ma non riuscii a muovermi, così mi trascinò dentro. Rimanemmo in silenzio finché non se ne furono andati. Poi uscimmo perché c’era fumo. Conoscevamo bene la zona. A quel tempo, nel pomeriggio, dopo la scuola, si andava al pascolo. Mi ricordavo di una piana di fagioli e mi diressi da quella parte, senza parlare. Le bambine mi seguirono. Dopo due ore però vollero tornare per prendere dei valori. Ma io nella cucina non sono rientrato».
Poi Enrico tornò nella piana di fagioli, artigliato al mutismo di chi è entrato ed uscito dall’orrore in pochi attimi, un mutismo che su quegli eventi si è rotto solo da pochi anni, «perché prima non riusciva ad uscirmi niente». Scese a Valdicastello solo dopo cinque o sei ore, vide i feriti e ascoltò le grida di disperazione della gente, ma dopo un po’ l'istinto lo riportò sulle montagne, a casa. Era la sua casa, il posto in cui era nato e non sapeva dove altro andare. Risalì da una strada diversa, «e solo allora mi resi conto di quello che era successo in tutto il paese. Bruciava tutto: le stalle, le case. Bruciavano anche i morti. Bruciava anche la casa di mia nonna, la sentivo scricchiolare. Salii al secondo piano e le travi del soffitto erano in fiamme, ma presi dell’acqua con un vaso da notte e riuscì a salvarla. Era l’unica cosa che mi rimaneva».
L’unica cosa. Ma poi, dopo la guerra, «mi sbandai. Senza genitori, zii o nonni non sapevo cosa fare. Sono cresciuto così, senza nessuno». Fino a quando decise di emigrare in Svizzera, negli anni ‘60. Lì si è sposato e ha avuto un figlio. «Per molti anni ho rabbrividito ogni volta che qualcuno parlava in tedesco. Ma quando ho dovuto decidere se mandare mio figlio in una scuola dove avrebbe imparato il francese o il tedesco, scelsi tedesco. Adesso fa l’insegnante, lo insegna ai ragazzi e io mi sono potuto riconciliare con loro quando sono venuti a Sant’Anna per donarci l’”Organo della pace” che le SS avevano distrutto.» Enrico ha superato la rabbia, vuole la pace, perché crede che la nostra Costituzione e l’Unione Europea provengano «da stragi come quelle compiute a Sant’Anna e a Marzabotto». Ora tutti sanno quello che è successo, «ma non sanno cosa significhi crescere senza la mamma e il babbo, senza nessuno». E se Enrico ci pensa, la ferita sanguina ancora.
[mario neri]

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