Camminare per le stradine di Zanzibar sta diventando fastidioso per i suoi abitanti: i negozi di souvenir dove prima i commercianti sedevano in attesa dei clienti sono da qualche tempo animati da petulanti venditori cinesi che offrono due articoli al prezzo di uno. «Inizi a pensare che anche l’accento chagga» (uno dei dialetti bantu della Tanzania) «di questi ragazzi che parlano swahili sia made in China», racconta Adam Lusekelo del quotidiano Daily News. Le relazioni tra Tanzania e Cina sono antiche. Iniziate nel XV secolo, sono diventate salde dal 1965, all’epoca della conquista maoista dei movimenti di liberazione nazionale africani. Ma se prima erano “calde”, oggi i termini sono cambiati, e sono prettamente economici. Nel giugno 2006 i due Paesi hanno stretto le relazioni firmando un accordo che prevede operazioni nei settori dei trasporti, comunicazione e sanità. Pechino si è impegnata a fornire assistenza economica e tecnica per il trattamento della malaria e a rifornire le strutture di artemisina, principio antimalarico ricavato da un arbusto usato da secoli nella medicina tradizionale cinese per il trattamento della febbre e della malaria. «I cinesi in questa parte del mondo sono generalmente percepiti come opportunisti e “vermi pericolosi” per la nostra giovane economia in crescita», spiega Jack M. Meena del centro Corporate Social Responsibility and Corporate Communication di Dar es Salaam. «I loro prodotti contraffatti e a basso costo sono una bomba a orologeria per la nostra economia, perché saturano i nostri mercati e ci rendono consumatori dei loro prodotti di scarsa qualità. Purtroppo la maggior parte della popolazione è povera e non si rende conto delle conseguenze delle importazioni a buon mercato dalla Cina e da altre parti del mondo».
Nel 2005 lo scambio bilaterale è cresciuto del 66,9%, ma a sfavore della Tanzania: all’incremento del 150% delle esportazioni è corrisposto un +66,9% di importazioni. La crescita non è sostenibile, assicurano il governo tanzaniano e Traffic, un’organizzazione per la tutela dell’ambiente. La Cina avrebbe importato il 1000% in più di acero rispetto a quanto registrato dalle autorità dell’export tanzaniano, causando una perdita economica stimata in 58 milioni di dollari.
Le ombre dell’import cinese in Tanzania sono non meno allarmanti: prodotti elettrici di scarsa qualità hanno invaso il mercato e spesso anche i medicinali sono contraffatti, ma la popolazione più povera spesso non se ne rende conto o non ha alternarive. Soprattutto sul fronte della salute iniziano a venire al pettine alcuni nodi: iniziano a venire al pettine: almeno il 70% dei prodotti cosmetici venduti in Africa sono contraffatti e a pagare le conseguenze sono soprattutto le donne. Le creme sbiancanti a base di cortisone e di mercurio provocano ustioni della pelle, danni renali molto gravi e in alcuni casi la morte. Il 37% di questi cosmetici arriva dalla Cina, primo esportatore in Africa di questi prodotti.
Nonostante il governo di Pechino dichiari che le relazioni sono finalizzate alla cooperazione, l’opinione pubblica africana sta iniziando a sollevare critiche: l’Africa è un mercato per il made in China dove gli imprenditori asiatici acquistano preziose materie prime, soprattutto petrolio, e finanziano importanti infrastrutture che nessuna potenza occidentale reputa convenienti.
Le importazioni cinesi stanno gravemente danneggiando il manifatturiero locale, e le ritorsioni non si sono fatte attendere. Recentemente Pechino è stata accusata di aver immesso sul mercato tanzaniano quantità ingenti di prodotti contraffatti, ma si è difesa puntando il dito contro gli imprenditori africani: sarebbero stati proprio loro a ordinare merci falsificate. «Non credo che l’Africa avrà qualche beneficio dalla Cina, perché gli investimenti cinesi sono praticamente nulli e quando ci sono servono a sfruttare gli indigeni piuttosto che a dare loro delle prospettive. I cinesi sono per lo più percepiti come costruttori di strade o di palazzi; generalmente la forza lavoro tanzaniana impiegata è sempre sottopagata. Dall’altro lato i cinesi sono noti ovunque per essere avari se non spilorci. Non spendono nulla, quindi la loro presenza nel paese e in Africa in generale ha un impatto minimo sulle nostre economie», sostiene Jack Meena.
[ornella sinigaglia]
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