Da due mesi a Dhaka, la capitale del Bangladesh, una commissione d’inchiesta sta cercando di fare chiarezza sugli scontri avvenuti in alcune università nazionali il 22 agosto. In quel giorno decine di studenti nella capitale hanno manifestato contro la presenza di corpi di polizia nel campus, per poi estendere la protesta contro il governo. Anche in altre città si sono verificate sollevazioni simili: molti gli scontri con le forze dell’ordine, molti i giovani feriti. Dopo la decisione da parte del governo di ritirare la polizia, è stato imposto il coprifuoco a Dhaka e nelle altre città ribelli. Le proteste studentesche cadono in un periodo di crisi sociale e soprattutto politica per il Bangladesh, che da un anno è retto da un governo provvisorio. Inoltre è in vigore dal 12 gennaio lo stato di emergenza: l’esercito, che da subito ha appoggiato questo governo ad interim, ha effettuato finora circa 200.000 arresti tra i dimostranti. Si parla anche di 96 persone uccise durante vari scontri, cominciati subito dopo le dimissioni del precedente governo. Allora il presidente del Bangladesh – Iajuddin Ahmed – aveva assunto l’incarico, nonostante le accuse di avere favorito il precedente governo, criticato per inefficienza e corruzione. Da gennaio la guida del governo è passata nelle mani di Fakhruddin Ahmed. Le elezioni, previste per quel mese, sono state così posticipate alla fine del 2008, inasprendo in questo modo ancora di più le tensioni.
Oggi – anche attorno a questo processo – l’opinione pubblica è spaccata: da una parte c’è chi critica il governo ma accetta lo status quo, dall’altra c’è chi teme il rischio di un golpe militare o di una guerra civile. Ma l’ambasciatore plenipotenziario del Bangladesh, Muhammad Zamir, annota sul giornale indipendente Dhaka Courier: «Abbiamo bisogno di ritrovare confidenza in noi stessi senza l’aiuto della comunità internazionale. Solo allora la democrazia troverà il suo senso più profondo».
[luca salvi]
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