Il gruppo di attori si è imposto come obiettivo un lavoro simbiotico: la vicinanza anagrafica e il comune bagaglio di esperienze ha permesso ai componenti della compagnia del Teatro Biondo di Palermo, di collaborare con i colleghi del Teatro Stabile di Catania. Una compagnia che da tre anni lavora per valorizzare la propria terra d’origine esportandone i valori nelle altre regioni. Il legame indissolubile di Carriglio con la sua Sicilia è poi stato trasposto in una personale ricerca sulla vera struttura del teatro di Shakespeare, che Carriglio vorrebbe “incarnare” nella città di Palermo.
Infatti, il regista aveva presentato un progetto che avrebbe dovuto svolgersi nelle tre piazze che ruotano intorno al centro storico della città. Per problemi logistici ed economici la realizzazione si è arenata, ma «non ci arrendiamo, perché il nostro scopo è far sì che l’Unesco riconosca il centro storico di Palermo come patrimonio dell’umanità». La salvaguardia di aree urbane così ricche dal punto di vista storico e culturale è un messaggio che, secondo il regista, andrebbe esteso a tutto il nostro Paese, non solo per una questione di riassetto organico, ma soprattutto per il rispetto di tradizioni e testimonianze architettoniche. Il regista ripensa al Nos Milan, definendola una «sublime visione di Milano, un tentativo estremo di salvarla». Il teatro diventa così il mezzo per recuperare le nostre origini urbane e il Piccolo è e vuole essere il simbolo del legame con la città, per «un’economia della cultura, e non per una cultura dell’economia», come sottolinea Escobar, unendosi a Carriglio nella valorizzazione del ruolo sociale «dell’uomo di teatro che non sta chiuso nel teatro», ma che invece pone la propria arte al servizio della collettività.
Intanto l’Amleto di Carriglio viaggia e arriva allo Strehler in una veste nuova. Il regista ha affrontato questa tragedia più volte: già nel 1982 in We like Shakespeare rifletteva sulla crisi dell’uomo rinascimentale. La nuova lettura è stata sperimentata per la prima volta nel 2006 a Gibellina, in un suggestivo scenario: Amleto era di fronte ad un’enorme montagna di sale e la scalata del re incontrava a metà strada un violoncello. Metafisica e metafora musicale per spiegare l’uomo.
Per realizzare quest’ultima versione, Carriglio ha deciso di ripartire da zero, per arrivare ad una semplicità estrema. «Siamo ai confini del mondo, giunti ad un punto dal quale non si ritorna. È un’ u-topia, cioè un non-luogo. La pedana basculante sulla quale si muovono i protagonisti esprime appieno l’idea di sospensione, di un confine senza confini, di infinito». Tra gli interpreti, Galatea Ranzi, enfant prodige nella Mirra di Alfieri, Luciano Roman e Luca Lazzareschi, che ha parlato della complessità nella costruzione del personaggio. «Amleto vive di opposti, di contrasti. Bisogna “farselo amico” per riuscire ad entrare nella sua doppia follia, che lo porta a lottare con il mondo femminile e con se stesso. La sua pazzia è duplice, in parte reale e in parte distorta». L’Amleto di Cariglio è un antieroe moderno, in crisi con la propria anima e con il mondo, e che incede col passo tremulo di chi sta in equilibrio su un filo sospeso nel vuoto.
[vesna zujovic]
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