È questo il paradigma sui cui si sviluppa la mostra inaugurata alla Triennale di Milano, una retrospettiva che ripercorre l’iter artistico di Burri dagli anni Cinquanta fino agli anni Novanta, poco prima della morte dell’autore. Oltre alle classiche combustioni, le muffe e i gobbi, l’esposizione che rimarrà aperta al pubblico fino all’8 febbraio del 2009, apre le vedute al meno conosciuto patrimonio dei grandi cellotex degli anni Novanta e all’esperienza del “Teatro Continuo” realizzato per la XV Triennale d’arte a Milano e poi tristemente rimossa dall’amministrazione comunale nel 1989.
Burri diceva della propria produzione che «l’ultimo mio quadro è uguale al primo»: una constatazione vera quanto controversa, che leva ogni velo di programmaticità nella combinazione dei materiali scelti per la realizzazione delle opere, tanto da renderlo poliedrico nella scelta degli stessi e punto di riferimento nel linguaggio dell’informale internazionale. Senza risentimento, quando un materiale lo stufava, lo abbandonava per esplorare nuovi lidi. Ecco che la mostra milanese, la prima dal lontano 1984, cavalca quest’onda, mostrando l’evoluzione dell’artista. La passione demiurgica della manipolazione della sabbia, dei sacchi di juta lascia progressivamente spazio al cellotex, un pannello a pasta lignea dedicato all’edilizia, alle plastiche combuste e al ferro. Un’evoluzione che giustifica l’animo romantico di Burri che non si è fermato dinnanzi alla tentazione di donare un’anima a materiali poveri, ma si è spinto oltre verso l’ambizione di nobilitare ferro e petrolio. Ma perché partire proprio un sacco? «Potrei ottenere quel tono di marrone, ma non sarebbe lo stesso perché non avrebbe in sé tutto quello che io voglio che abbia… Nel sacco trovo quella perfetta aderenza fra tono, materia e idea che col colore sarebbe impossibile». Così rispose l’artista a chi chiese il motivo della scelta della juta. Questo scopre anche l’importanza del cromatismo, non declinato come “polimaterialismo”. Per Burri i colori devono essere puri, per evitare qualsiasi adesione con la realtà, il nero prima di tutto: «Due neri diversi, vicini, possono essere altrettanto formidabili». Su questa base si conclude la mostra, dove nelle sale al primo piano della Triennale, i grandi pannelli di cellotex, arricchiti da cretti, sono collocati in penombra, proprio per non distogliere l’attenzione dalla profondità del nero. Sono i lavori della prima metà degli anni Novanta che si datano a pochi mesi dalla morte dell’artista, nel 1995.
Burri non nasce artista, ma decide di diventarlo. Medico professionista, matura la scelta di diventare pittore durante la prigionia in Texas, dopo essere stato catturato e deportato dagli inglesi nella seconda guerra mondiale. L’esperienza della prigionia lo plasma: egli dipinge qualsiasi cosa utilizzando materiali di fortuna, tanto che, liberato nel 1946, solamente un anno dopo, a Roma esordisce già con la sua prima personale.
Alberto Burri
Triennale di Milano
11 novembre 2008 - 8 febbraio 2009
Ingresso a pagamento
tutti i giorni, dalle 10,30 alle 20,30
Dal 4 dicembre aperta il giovedì fino alle 23
Chiusa il lunedì
[francesco cremonesi]
Nessun commento:
Posta un commento
Commenta questo articolo