Il lavoro del “mister”, infatti, non è solo insegnare disposizioni tattiche e fare le giuste sostituzioni, ma implica anche saper vivere in un ambiente fatto di intricati rapporti con molti interlocutori: la società, i colleghi, le famiglie e soprattutto i propri giocatori. Si tratta di un ruolo socialmente rilevante, in un Paese che conta 720.212 tesserati Figc dai sei ai 16 anni e ben 6.880 scuole calcio. Lo ha detto anche Adriano Galliani, al termine del corso “Allenatore oggi: tra formazione e prestazione”, organizzato dal Milan presso l’università Cattolica: «L’infanzia e l’adolescenza sono età particolari: un allenatore può rappresentare una figura significativa nella crescita dei ragazzi». Che educare sia implicito nell’allenare è un fatto percepito in tutto l’ambiente. Per Alessandro Bortolotti, professore di Pedagogia presso Scienze Motorie a Bologna, «un allenatore è educatore volente o nolente. Ma per una riflessione sul proprio ruolo educativo, corsi simili sono fondamentali». Soprattutto, un allenatore non deve fare alcuni errori purtroppo frequenti: «Considerare gli atleti come mezzi per un risultato; ignorare le loro potenzialità; insegnare scorrettezze; essere rude o pretenzioso per non ingenerare frustrazione». E anche se non si arriva in serie A, lo sport può diventare una palestra per la vita, «perché insegna a sopportare la fatica, a imparare le regole e a ottenere risultati attraverso il lavoro».
Spesso però i problemi non si verificano con i ragazzini. Nell’ambiente circola una battuta feroce: «I bambini più fortunati sono gli orfani». I trainer hanno problemi comunicativi con le famiglie, che vorrebbero più attenzione per i loro pargoli. Anche di questo Bortolotti parla nel suo libro Sport addio. Perché i giovani abbandonano la pratica sportiva (La Meridiana): «Un errore che non devono fare i genitori è imporre la scelta dello sport al bambino». La sindrome da accerchiamento è in agguato per l’allenatore, che deve guardarsi anche dai colleghi. Paolo Gatti è il coordinatore tecnico dei Milan junior camp e fondatore della società Lombardia Uno, una delle più grandi Scuole calcio rossonere. «Il nostro – dice – è un lavoro artigianale e quindi c’è poca propensione al confronto fra di noi, che siamo spesso presuntuosi e cocciuti. È vero, bisogna migliorare i rapporti fra colleghi. Il corso della Cattolica è servito per aprire un confronto e una maggiore introspezione nel gestire i rapporti». Parlare di psicologia agli allenatori non è impossibile. Caterina Gozzoli della Cattolica di Brescia ce l’ha fatta e per una volta ha messo i tecnici dietro i banchi: allenare le menti per allenare i campioni.
[daniele monaco]
Nessun commento:
Posta un commento
Commenta questo articolo