CORTE DEI CONTI

Federalismo fiscale: e se ci costasse di più?

Sarebbe quantomeno contraddittorio se l’attuazione del federalismo dovesse portare a un intensificarsi della pressione fiscale sulle tasche dei cittadini. Eppure, in attesa della versione definitiva del disegno di legge tanto caro alla Lega Nord, urge domandarsi e approfondire se questo spauracchio dell’aumento delle imposte possa in qualche modo manifestarsi sul serio. Innanzi tutto bisogna chiarire il fine ultimo di questa importante riforma costituzionale. Le nuove norme, riassunte nei capitoli 1, 2 e 22 del ddl approvato in via preliminare l’11 settembre, ne chiariscono il contenuto essenziale. L’articolo 119 della Costituzione assicurerà quindi a Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni piena autonomia di spesa e di entrata, nel rispetto dei principi di solidarietà e di coesione sociale. Le direttive che dovranno essere seguite consisteranno nel superamento della spesa storica, l’inserimento dei nuovi “standard” dei servizi essenziali e soprattutto la costituzione di un fondo perequativo di sostegno a quegli enti che dispongono di limitate disponibilità fiscali per il numero inferiore di residenti e la loro capacità contributiva.

Alla luce di questi accorgimenti, nei giorni scorsi il presidente della Corte dei Conti, Tullio Lazzaro, nel corso dell’audizione sul federalismo fiscale davanti alle commissioni riunite Affari costituzionali, Bilancio e Finanze del Senato, ha richiamato l’attenzione sul fatto che l’attuazione del federalismo potrebbe portare a un aumento della pressione tributaria, in particolare per quanto attiene all’imposizione personale sui redditi. Secondo Lazzaro, la struttura del finanziamento agli enti territoriali comporterà una “migrazione” di rilevanti quote del gettito Irpef e, considerato il ruolo fondamentale che l’aliquota gioca nel sistema di finanziamento federale in ambito perequativo, questo comporterà un aumento della pressione delle imposte proprio per rimediare a questo slittamento del gettito dal centro verso le periferie.

«Allo stato delle cose è presto per parlare di livelli complessivi di spesa, il disegno di legge è ancora troppo vago e di fatto non li sa nessuno. Tutto dipende fino a che punto ci si spingerà», spiega Massimo Bordignon, ordinario di Scienze delle Finanze alla Cattolica di Milano e direttore del master in economia pubblica alla Graduate School of public administration. «Una cosa è certa – continua Bordignon –: cercare di costruire tutta la piattaforma dei finanziamenti articolandola solo sull’Irpef non è una buona cosa. Il rischio dell’aumento della pressione è reale perché potrebbe verificarsi quella che in economia viene definita esternalità verticale, ovvero l’aumento della pressione dell’irpef a partire dai comuni e via via passando per provincie e regioni senza preoccuparsi dei rispettivi rincari. L’irpef è uno strumento tributario tartassato. Secondo me è corretto che le regioni - prendiamo ad esempio la Lombardia che ha più abitanti dell’Austria - possano assorbire l’imposta, ma che anche un comune di piccole dimensioni possa richiedere la sua aliquota non ha senso». Tra le cause di questo “accanimento fiscale” nei confronti dell’irpef, Bordignon avanza quella che a suo avviso è stato il fattore determinante, ovvero «l’abolizione dell’ici, che ha privato i comuni di entrate che ora sono costretti a ricercare altrove». Insomma, più che da rimuovere, l’ici sarebbe stata solamente da ritoccare.


[francesco cremonesi]

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