Fin dall’inizio Mama Africa, come la chiamavano i suoi connazionali, ha messo la sua arte al servizio delle lotte per i diritti civili. Raggiunse la popolarità partecipando al documentario anti-apartheid, diretto da Lionel Rogosin, Come back, Africa. E proprio grazie a questo film, che fu premiato al festival di Venezia, visitò per la prima volta l’Italia. Anche se divenne presto ricca e famosa, conobbe la sofferenza dell’esilio: il governo sudafricano, nel 1963, le impedì di tornare nel suo Paese a causa della sua testimonianza all’Onu sulle tremende condizioni di vita dei neri sotto l’apartheid. Solo nel 1990 Nelson Mandela la convinse a ritornare in patria. Anche se vietati in Sudafrica, i suoi dischi negli anni Sessanta divennero famosi in tutto il continente Nero. Il suo sangue misto, per metà di etnia xhosa e per metà swazy, e il suo matrimonio con il leader delle Pantere Nere Stokely Carmichael, l’aiutarono a diventare un simbolo di unità per tutti i neri del mondo.
Nel 1966 vinse un Grammy Award, e fu il primo riconoscimento andato ad un artista africano nella storia. Anche dopo la fine dell’apartheid la Makeba continuò a lottare per il popolo nero, denunciando l’oppressione dei popoli africani da parte delle grandi potenze occidentali. Dal 1999 era ambasciatrice della Fao e, nel 2001, ha elogiato il movimento No Global, pur invitando i giovani a non chiudersi dentro conventicole ideologiche. L’ultima sua battaglia l’ha combattuta a fianco delle donne di Kinshasa, contro l’Aids.
A Castel Volturno doveva ricevere una copia in inglese di Gomorra, era curiosa di leggerlo e aveva elogiato pubblicamente Roberto Saviano per il suo coraggio. Il giovane scrittore napoletano, venuto a sapere della sua morte, ha detto di lei: «La voce di Miriam Makeba era quello che i sudafricani dell’apartheid avevano al posto della libertà ». Adesso i suoi live non scalderanno più gli eventi per le lotte civili di tutto il mondo ma la sua musica continuerà ad andare per il mondo e a lottare per lei.
[andrea torrente]
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