«Il giornalista è sottoposto continuamente a un tribunale che non dà scampo: quello dei lettori. Se uno non sa scrivere, il suo pezzo potrà anche essere sistemato in qualche modo da un caporedattore, ma sarà sempre un pezzo nella migliore delle ipotesi mediocre. Nessuno conquista il pubblico per spintarella, questo è poco ma sicuro, i lettori non si fanno infinocchiare». Un libro che riporti affermazioni del genere dovrebbe diventare una lettura irrinunciabile per chiunque voglia entrare nel mondo dell’informazione. Sempre meglio che lavorare – Il mestiere del giornalista, recentemente uscito in libreria per i tipi di Piemme, è un divertente e agile saggio da leggere tutto d’un fiato: in 216 pagine tratteggia un affettuoso e ironico affresco di una professione considerata affascinante e un po’ misteriosa dai profani e visceralmente amata dai pur disincantati addetti ai lavori.
L’autore, Michele Brambilla, è uno che di giornalismo se ne intende: dopo 18 anni trascorsi in via Solferino, («In Italia i giornalisti si dividono in due categorie: quelli che lavorano al Corriere della Sera e quelli che al Corriere della Sera ci vorrebbero lavorare»), è stato direttore de La Provincia di Como, dove ha imparato che l’informazione locale è «un bagno di realismo, il ritorno alla cronaca fatta scarpinando e non telefonando, il rapporto con i lettori guardandosi in faccia e non via e-mail». Attualmente vice direttore de Il Giornale, Brambilla ha sfruttato la propria esperienza per raccontare vizi e virtù di inviati e cronisti, direttori e opinionisti. Il lettore di Sempre meglio che lavorare è condotto per mano dietro le quinte dei più grandi quotidiani del nostro Paese e impara a conoscere le esilaranti figure che popolano ogni redazione che si rispetti: dal genio incompreso allo specialista della pausa caffè, dall’inviato che ha un’abilità diabolica nel fare la cresta sulla nota spese al free lance sempre in viaggio verso mete esotiche e scoop immaginari. Intervallati alle pagine semi- serie, si trovano poi i ritratti dei più grandi giornalisti italiani, colti nella quotidiana vita professionale da chi ha avuto il privilegio di imparare da loro i segreti del mestiere e ora ne trascrive i consigli. È una vera e propria galleria di mostri sacri, che comprende Dino Buzzati e Indro Montanelli, Enzo Biagi e Oriana Fallaci, senza dimenticare Giovanni Guareschi, noto ai più per essere il papà letterario di Don Camillo e Peppone, ma anche bravo cronista. Si avverte un certa nostalgia dell’autore per il giornalismo di una volta, quando «la nera era una cosa seria», ben distinta dallo spettacolo, e il virus del politically correct non aveva ancora contagiato i giornali, per cui si poteva scrivere «obeso» anziché «di taglia importante» o «basso» invece di «verticalmente svantaggiato». Ma, nonostante tutto, nelle redazioni si continua a svolgere una delle professioni più belle del mondo, anche perché, come diceva Luigi Barzini, «il mestiere del giornalista è difficile, carico di responsabilità, con orari lunghi, anche notturni e festivi, ma … è sempre meglio che lavorare».
[lucia landoni]
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