MYANMAR

Ex Birmania, cinque mesi dopo

Nelle lunghe settimane della repressione, quel momento di buio verso le sei del mattino simboleggiava un vero e proprio sollievo per i birmani: era la mezz’ora in cui la corrente veniva staccata in attesa dell’alba. La notte era trascorsa tranquilla, e nessuno era stato prelevato dalle proprie case per essere trasferito in uno dei centri di detenzione.

Era solo lo scorso settembre quando 40 mila civili, accompagnati da centinaia di monaci e novizie, sfilavano chiedendo condizioni di vita più umane. Oggi in Myanmar (ex Birmania) si è tornati alla “quotidianità”, sebbene il clima di tensione sia ancora palpabile e in tutto il Paese regni una calma irreale. Migliaia di pullman strapieni di monaci hanno lasciato Rangoon o Mandalay. Un esodo forzato che ha stravolto le principali città del Myanmar: non si può fare a meno di notare la drastica diminuzione dei religiosi, che in alcuni quartieri sono addirittura scomparsi. Le file dei monaci che chiedono la questua si sono assottigliate e molti monasteri sono rimasti semivuoti. Nelle carceri birmane sono detenuti 1.900 prigionieri politici, di cui 700 arrestati durante le manifestazioni del 2007. I morti accertati sarebbero 22, ma a questi si devono molto probabilmente aggiungere almeno 140 monaci di cui nessuno ha più avuto notizia. In tutto il Paese, i militari avrebbero setacciato 52 monasteri.

A Taunggok, tuttavia, nella zona centro-occidentale del Myanmar, a cinque mesi dalle manifestazioni nazionali, la resistenza al regime continua, seppure in forma semiclandestina e isolata. Già nel settembre caldo questa località, nota per il suo attivismo politico, era stata teatro di una delle marce più imponenti al di fuori dell’ex capitale Rangoon. Poi il silenzio imposto dalla violenza di stato aveva avvolto anche le sue strade. Nei giorni successivi alle repressioni, il paesaggio torna alla normalità, benché presidiato da squadre anti-sommossa nei punti nevralgici della cittadina insieme a un numero crescente di agenti in borghese, in un clima di intimidazione già noto agli abitanti di Taunggok. Da qui, infatti, provengono molti dei membri della Lega nazionale per la democrazia (il partito di Aung San Suu Kyi), da mesi detenuti nelle prigioni locali. A metà gennaio, però, una nuova concentrazione popolare davanti al mercato locale ha costretto le autorità a bloccare le strade e a chiudere le scuole per evitare che altri partecipanti, in particolare contadini, si unissero al corteo. Di tanto in tanto eroi senza nome riescono a eludere la sorveglianza per tappezzare di poster anti-regime l’ospedale o la piazza del mercato, per cantare slogan di protesta rivendicando la liberazione dei prigionieri politici. I manifesti vengono rimossi in fretta, i ribelli catturati e imprigionati. Ma intanto il messaggio è passato, Taunggok non si arrende e continua a soffrire e a perseguire la sua lotta silenziosa.

La lezione di Taunggok, però, rischia di rimanere aneddotica. Le possibilità di una nuova insurrezione nazionale sono oggi ridotte al minimo dopo la tragedia di settembre. Dall’estero si specula sulla capacità di riorganizzazione dei monaci e su nuove ondate di protesta che potrebbero riesplodere da un momento all’altro, ma in genere si tratta di analisi ingenue se non ipocrite: è facile lasciare sulle spalle di una casta di religiosi e di una popolazione condannata alla miseria l’intera responsabilità del riscatto di una nazione. La rivolta nonviolenta che ha emozionato per qualche giorno la comunità internazionale, ha soprattutto dimostrato che senza un concreto aiuto esterno ogni speranza di cambiamento è destinata a morire, dissanguata sul filo spinato dei campi di detenzione. Quelli che il regime sta continuando a riempire dei pochi attivisti rimasti: semplici cittadini in lotta per la sopravvivenza.

[gaia passerini]

Nessun commento:

Posta un commento

Commenta questo articolo