GIUSTIZIA

Uranio impoverito, condannato il Ministero della Difesa

Si riapre il dibattito sull’uranio impoverito a seguito della sentenza del Tribunale civile di Firenze che ha condannato il ministero della Difesa a corrispondere oltre 500 mila euro a Gianbattista Marica, un paracadutista italiano ammalatosi durante la missione Ibis in Somalia tra il dicembre del 1992 e il luglio del 1993. Una sentenza che farà discutere, non solo per il corposo risarcimento in favore dell’ex militare di leva, ma soprattutto perché evidenzia il nesso di causalità tra la presenza di uranio impoverito e la patologia del militare.

Nel provvedimento adottato dai giudici toscani si fa riferimento al parere di un consulente tecnico che sostiene l’esistenza di un legame tra il Linfoma di Hodgkin, contratto dallo stesso Marica, e l’esposizione all’uranio impoverito. E si chiama in causa il ministero della Difesa che, stando alla motivazione della sentenza, «non ha disposto l'adozione di adeguate misure protettive per i partecipanti alla missione in Somalia», nonostante fosse «sotto gli occhi dell'opinione pubblica internazionale la pericolosità specifica di quel teatro di guerra, e nonostante l'adozione da parte di altri contingenti di misure di prevenzione particolari». Ad ogni modo, ciò che risalta è l’accusa di negligenza mossa nei confronti del Ministero che avrebbe tenuto «un atteggiamento non ispirato ai principi di cautela e responsabilità, consistito nell'aver ignorato le informazioni in suo possesso, già da lungo tempo, circa la presenza di uranio impoverito nelle aree interessate dalla missione e i pericoli per la salute dei soldati collegati all'utilizzo di tale metallo». Nell’ottobre del 2007 l’allora ministro della Difesa, Arturo Parisi, aveva parlato di 255 casi accertati di malattie legate all’uranio impoverito tra i soldati italiani impiegati nelle missioni all’estero, e di 37 militari deceduti. Ma le cifre erano state duramente contestate dall’Osservatorio militare che faceva riferimento ad almeno 2.500 malati e 150 morti.


Sulla questione abbiamo sentito Falco Accame, presidente dell’Anavafaf, un’associazione che assiste le vittime arruolate nelle Forze armate. «La sentenza taglia corto sulla disputa sull’uranio impoverito», dichiara l’ex presidente della commissione Difesa della Camera dei Deputati. «Fino ad oggi ci si è persi in chiacchiere, senza mai arrivare a risultati concreti. Sia le commissioni parlamentari che la commissione d’indagine istituita nel 2000 e guidata dal professor Franco Mandelli si sono limitate a ridurre la questione ad un ambito prettamente scientifico», aggiunge Accame. Secondo il leader dell’Anavafaf «i nostri militari sono stati mandati allo sbaraglio sin dai tempi della missione Ibis ma i nostri politici, invece di dare un segnale forte, si sono sempre inginocchiati dinanzi ai generali e l’uranio ha continuato a mietere vittime tra i soldati».


Di diverso avviso Lorenzo Forcieri, sottosegretario alla Difesa nell’ultimo governo Prodi e vicepresidente della commissione parlamentare d’inchiesta nella quattordicesima legislatura. «Come governo abbiamo adottato la massima trasparenza in tutti i nostri atti – afferma l’ex parlamentare –. Abbiamo anche invitato i responsabili delle missioni a mettere in atto tutte le precauzioni necessarie, fornendo tutti i dati alla magistratura per le indagini del caso». Per Forcieri, primo firmatario del disegno di legge sull’istituzione della commissione d’inchiesta già dalla fine degli anni ‘90, bisognerebbe riattivare la commissione stessa che, a suo dire, «stava iniziando a produrre risultati interessanti». Forcieri ribadisce comunque i problemi incontrati nella sua attività parlamentare in merito all’uranio: «C’è sempre stato un tentativo di “frenare” sull’uranio impoverito, sia a causa della sottovalutazione del rischio a cui andavano incontro i nostri militari, sia per interessi di natura industriale e commerciale come accaduto per l’amianto».


Per il senatore Mauro Del Vecchio, esponente del Partito Democratico in commissione Difesa al Senato, «l’attenzione è alta non solo sui casi di neoplasie collegati alle missioni all’estero, ma anche su quelli riconducibili ai militari impegnati nel nostro Paese. Tant’è che le varie forze politiche sono concordi sulla necessità di far ripartire al più presto i lavori della commissione d’inchiesta con l’intento di arrivare a risultati concreti al massimo entro un paio d’anni». Il parlamentare democratico, già generale di corpo d’armata e comandante dell’operazione Isaf in Afghanistan, nega fermamente l’esistenza di un atteggiamento negligente da parte dei vertici militari, ricordando la sua esperienza nelle varie operazioni all’estero in cui ha esercitato funzioni di comando: «In Kosovo, ad esempio, sapevamo del pericolo che c’era in corrispondenza delle carcasse dei carri armati serbi distrutti e i nostri militari erano tenuti a non avvicinarsi. Non solo avevamo tutto l’equipaggiamento necessario, ma, a differenza degli altri contingenti, disponevamo anche di un reparto tecnico che verificava la radioattvità e la pericolosità dei territori in cui prestavano la loro opera i nostri soldati».


[pierfrancesco loreto]

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