Si presenta così Mondi al limite (Feltrinelli, pagg. 180, euro 14), una raccolta di nove storie legate dal filo di Medici senza frontiere. Gli autori hanno risposto all’appello della più grande organizzazione umanitaria indipendente di soccorso medico, partendo per una delle missioni nelle aree di crisi, agli angoli della Terra, per poi farne nascere nove racconti. Si sono imbarcati per la Cambogia, la Repubblica Democratica del Congo, la Thailandia, il Pakistan, il Brasile, la Colombia, la Somalia. A volte le destinazioni sono raggiungibili solo «con un chessna, un aereo talmente piccolo che i bagagli vanno sistemati nelle ali. E quando sobbalzi sbatti con la testa contro il soffitto». Per altre basta ripercorrere le strade battute per una vita intera. Come Domenico Starnone, che scopre con stupore che uno degli angoli della Terra dove Msf opera è proprio la sua Napoli, considerata area a rischio (insieme al casertano e ad alcune zone del Sud d’Italia) per le condizioni disumane in cui vivono gli extracomunitari.
Non una discesa agl’inferi. E nemmeno un incontro con degli eroi (una definizione che agli operatori di Msf proprio non va giù). Ogni storia è il racconto di un’andare oltre. Chi scrive ha negli occhi agonie dimenticate, come quelle dei «piccoli ossuti cambogiani che muoiono di febbre e tubercolosi nelle proprie palafitte». Parla di «ferite sulle quali si posano gli insetti», di malati che vogliono iniezioni, flebo, perché «se gli dai una pillola pensano che sia troppo poco medica». O di incontri folgoranti con uomini come Naing Nay, che «ha 54 anni, è birmano, ed è malato di Aids. Non ha nessuno, non ha niente. Per la precisione è proprietario di undici oggetti, che sono tutti nel raggio di tre metri da lui. Un bastone, un bidone come comodino, una pentola, una coperta. Alla parete, un orologio di plastica rosa, con delle figure infantili, qualcosa come dei gattini, o fiori».
Ma è proprio da questo ballo verticale che si muove fra le lamiere, il tanfo delle discariche, le mani sudate e gli sguardi liquidi e febbricitanti di chi non ha scampo, che nasce un lento bisogno di perdersi, di dimenticarsi di sé. «Un’ossessione crescente di assorbire tutto, ficcare ogni cosa nel corpo come se fosse una grande sacca accogliente». Perché dopo lo spaesamento, dopo la nausea e la rabbia di fronte ai diritti umani martoriati, la penna di più d’uno dei narratori si lascia disarmare, tanto da chiedere a uno degli operatori, con un’ ingenuità nuda simile a quella di un bambino: «“Ma come si fa a salvare il mondo?”. Sorride il medico, dopo una giornata di vaccinazioni. “Uno alla volta”, risponde». Uno alla volta.
[tiziana de giorgio]